Ma la scuola, per essere buona, dev’essere proprio come la vuole Renzi?

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di Giuseppe Maria Greco, ReteScuole 12.4.2015

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Prologo.

Se domandassi a una persona qualunque: “secondo lei, cos’è la scuola?”, l’interrogato non mi risponderebbe neppure, tanto è ovvio cosa essa sia, dai fabbricati, alle aule, ai ragazzi che siedono ai banchi eccetera. Ma se chiedessi a più persone: “secondo voi, a cosa serve la scuola?”, allora mi pioverebbero addosso risposte che rivelerebbero gli animi più diversi: quello perplesso, quello deciso, quello arrabbiato, quello protettivo, quello incerto… Il motivo è chiaro: domandare “a cosa serve la scuola?” è collegare l’epoca dell’infanzia e dell’adolescenza e della giovinezza a tutto ciò che viene dopo la scuola e fuori dalla scuola, dove è previsto l’ “essere”, non il “ divenire”.

O meglio, se uno “è” potrà forse “divenire”, ma se uno “non è”, o “non è ancora”, o “non vuole essere”, allora, nel giudizio comune, che s’arrangi. Dentro queste risposte si nascondono ansie, paure, fantasie di adulti che già “sono”, e per questo “sonoincerti e insoddisfatti”, o almeno dubbiosi. La soluzione inconscia è costruire un figlio in modo da proporlo, all’uscita dalla scuola, come simbolica e accettabile offerta all’impietoso Dio giudicante, quell’essere tentacolare che si chiama Mercato e che si presenta con le mille facce dell’azienda X, del bancario Y, del dirigente Z,…

È questo diffusissimo collegamento psicologico che rende incomprensibile l’altrettanto diffusa separazione che invece si pretende tra la scuola e la politica e la finanza, grazie alla quale ogni riforma della scuola va bene, perché quello che conta è che il figlio ne esca con i voti a posto. Eppure, la dispersione scolastica è in continuo aumento, proprio mentre lievita il numero di famiglie che superano i limiti di povertà e che non si possono permettere di mantenere un figlio agli studi.

Finora, per avere delle risposte all’incirca corrispondenti alla sensibilità media, ci siamo rivolti alla persona qualunque. Allo stesso modo, apriamo un giornale qualunque ed estraiamone un articolo. Tra mano mi capita “La Repubblica”. Trovo un articolo di Thomas Piketty, giovane e brillante economista francese, opinionista   del quotidiano francese Libération e occasionalmente per Le Monde, che in un articolo apparso il 30 marzo 2015 scrive che: “negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito una doppia condanna, prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi più sfavoriti dei Paesi sviluppati”, ma anzi “i gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione. Le trasformazioni politiche  non hanno fatto che accentuare di più queste tendenze…I Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e ceti medi)… quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche…e sopra ogni altra cosa l’assenza d’investimenti nel futuro”, cioè “nell’innovazione, nei giovani e nelle università”.

Non è certo l’unico, Piketty, né il primo ad usare questi argomenti, che possono essere condivisi da destra quanto da sinistra. Quello che l’autore trasmette è però la chiara subalternità della politica all’economia (prodotta da alcuni a favore di loro stessi), e l’assenza di visione del futuro. Allora non può non risultare evidente la contraddizione vissuta dalla persona qualunque, che consegna il proprio figlio nelle mani di qualcuno che però non si sa cosa ne farà in futuro, né quella del politico che, pur avendo avuto un mandato da quella persona, non sembra aver idea di come aiutarla.

Eppure, i personaggi dei nostri partiti politici, da come discutono di scuola in parlamento e negli eventi pubblici e dalle leggi che promulgano, pare che sappiano esattamente cosa questo futuro stia chiedendo, benchè le riforme che producono sembrino invece mantenere esattamente il quadro che Piketty, uomo certamente lontano dall’essere un rivoluzionario, critica come “quello che blocca l’Europa”. E’ ridicolo, ma dobbiamo constatare che proprio la certezza di quei politici è la matrice dell’incertezza del futuro nostro e dei nostri ragazzi.

Si direbbe che gli studenti siano visti, certo con intenzioni positive, come delle sementi da cui si intende ottenere magnifiche spighe di grano ma, data l’incertezza del tempo che farà dopo la semina, nel timore che i chicchi possano morire, che li si ricopra di chili e chili di terra, rischiando di farli soffocare, permettendo di sopravvivere solo a quelli più forti e più fortunati.

Un esempio di questa confusione mentale è la legge della cosiddetta “buona scuola” lanciata dal Presidente del Consiglio Renzi.

La scuola di Renzi, ovvero la “buona scuola”.

La persona qualunque, quella che separa il mondo “dentro” la scuola da quello “fuori” di essa, con il progetto renziano si trova improvvisamente immersa nel “fuori” che invade il “dentro” come farebbero le acque turbinose di un fiume che abbia rotto gli argini. Le figure del dirigente e dello sponsor non hanno a che fare con la pedagogia e la didattica, ma con gli interessi economici di chi sta fuori della scuola. Il ragazzo non sembra più in viaggio iniziatico, perché appare fin dalle prime classi come un dipendente di sconosciuti che si aspettano da lui la forza lavoro utile all’impresa che gestiscono.

Che il dirigente possa assumere direttamente il personale della scuola, implica l’isolamento di quest’ultima nello spazio intorno a quel dirigente, da cui tutto dipende. Non si potrà più dire “la scuola pubblica”, perché si dovrà parlare di “scuole”, diverse secondo la disponibilità di personale e i criteri di scelta e di giudizio del “capo”. Ad esempio, sappiamo che in Italia la regionalità è ancora molto forte: che peso essa avrà nei criteri di predilezione del dirigente, indipendentemente dalla professionalità, dalla cultura umana e dalla competenza dei candidati? Quali obiettivi del governo in carica dovrà rappresentare il dirigente, visto che i significati pedagogici e didattici del suo ruolo non sono più prioritari?

Certo, il dirigente non è il proprietario della scuola che dirige, quindi non è lui che paga gli insegnanti che assume. O meglio: non paga il grosso dello stipendio, perché una parte di questo, invece, la gestisce proprio lui. Si tratta del “premio”, che viene presentato come la medaglia appuntata nel portafoglio dell’insegnante meritevole, come non fosse altro che un attestato di lode, di quelli che un tempo s’usava assegnare ai bambini che dichiaravano d’aver fatto un’opera buona. Non è così: è la paga che il dirigente concede a chi dà profitto alla scuola, è il denaro che gli insegnanti sgomiteranno per ottenere, e chi, sdegnato, non lo farà sarà considerato uno che non desidera meritare. Si può immaginare che un insegnante possa utilizzare lo stesso criterio per educare i ragazzi della sua classe? Se non lo si crede, come si può accettare che l’insegnante viva una contorsione ansiogena come quella per cui deve fare una faccia di fronte al dirigente ed un’altra davanti ai ragazzi?

Naturalmente, qualche “persona qualunque” (non dal punto di vista intellettuale, ma delle sue vedute, “medie” circa la scuola) potrebbe accusarmi di anti-renzismo e potrebbe sostenere che il mio è un discorso larvatamente politico promosso da qualche partito d’opposizione. Dimostro ora che non è così, che la mie uniche preoccupazioni è sono scuola, i ragazzi, l’intelligenza collettiva.

Ce l’abbiamo con Renzi?

Per uscire dai personalismi, occorre aprire lo sguardo su di un orizzonte più ampio. Ad esempio, possiamo guardare cosa accade nei Paesi che adottano da tempo i criteri renziani (che in realtà hanno alle spalle i criteri gelminiani ecc.). In Francia, ad esempio, ogni anno viene pubblicata la classifica dei licei e delle scuole professionali pubblici e privati, prodotta in base a degli indicatori dei risultati di fine anno. Naturalmente, quelle che brillano sono le scuole “avec 100 % de réussite au baccalauréat.” Le tabelle dei risultati, che nel 2015 Le Monde ha pubblicato l’1 aprile, sono affiancate da altre che valutano il “valore aggiunto”, terminologia aziendale che vuole indicare il confronto tra le condizioni di partenza del ragazzo, le aspettative che “ragionevolmente” si potevano avere su di lui all’inizio, e il suo risultato finale. Questo “valore aggiunto”, spiega il quotidiano, è “l’indicatore che il dipartimento utilizza e mette avanti per misurare la differenza tra il ‘veri’ risultati delle scuole e la loro “risultati attesi”, per quanto riguarda il profilo degli studenti che essi accolgono – origine sociale, loro età, sesso e loro livello scolare all’ingresso del liceo. Le più prestigiose istituzioni hanno spesso un valore aggiunto vicino allo zero, poiché non accolgono che buoni studenti che, statisticamente, hanno tutte le possibilità di superare gli esami di maturità.”

Da queste poche righe abbiamo già sentore di una strana atmosfera che permea scuole, alunni, insegnanti e genitori. Ma continuiamo a leggere. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una sociologa,  Agnès van Zanten, specialista nel campo dell’educazione al punto di essere addirittura la direttrice delle ricerche nel campo al CNRS, ci fornisce il suo parere. Ritiene che i dati pubblicati non siano di facile lettura e interpretazione da parte dei genitori, tanto da essere suscettibili di “aumentarne l’angoscia”.

La sociologa chiarisce che rispetto a qualche anno fa, quando si pubblicavano solo i dati del successo scolastico, l’affiancamento con quelli del “valore aggiunto” ha lo scopo di “limitare la logica consumistica, quella che porta le famiglie ad essere attirate da una scuola in funzione dei voti e dei risultati alla maturità”, di portare un correttivo alle “liste dei migliori” pubblicate dalla stampa, che si fondano esclusivamente sui risultati e di consentire il confronto tra scuole pubbliche e private, perché spingono a relativizzare le competenze dei licei che selezionano gli allievi acquisendoli dagli ambienti più elevati, perché mettono in luce gli aspetti che riguardano le logiche di “scrematura”. Infine, “essi danno sia allo Stato francese il mezzo per osservare meglio il funzionamento interno delle scuole, sia alle scuole stesse la possibilità, se lo vorranno, di autoregolarsi e autocorreggersi sulla base del confronto con le scuole vicine”. Fin qui, ammettendone la logica di partenza, tutto sembrerebbe quasi positivo. Il problema però si manifesta quando la sociologa deve rispondere alla domanda: “Si ha un’idea di come le famiglie accolgono queste statistiche?”. La dottoressa van Zanten risponde allargando l’orizzonte: ”In Inghilterra, dove si dispone di studi sull’impatto delle graduatorie, si vede chiaramente che queste statistiche fredde sono utilizzate dai ceti più favoriti, che le combinano con il “discorso caldo” su quella scuola particolare recuperato dalle testimonianze di genitori e di studenti. La maggior parte delle famiglie dei ceti popolari, invece, non riesce a capire affatto i dati che le vengono forniti. Le prime riescono a farsi un’idea circa l’esistenza di classi “di livello” adeguato alle loro attese e alla pratica della selezione, mentre le seconde confidano nell’omogeneità dell’offerta pubblica garantita dallo Stato. Come dire che questi indicatori, nella realtà, accentuano le disuguaglianze.

Infatti, la ricercatrice valuta che “queste statistiche accreditano l’idea che i licei non siano equivalenti. Ciò può aumentare l’angoscia dei genitori, soprattutto se hanno la sensazione di non capire bene l’elaborazione delle valutazioni all’interno delle scuole.

A parte la Gran Bretagna e i Paesi Bassi, queste classifiche non sono pubblicate in Europa. Nei paesi nordici questa è una scelta precisa: l’idea delle graduatorie è infatti legata a dei sistemi alquanto gerarchizzati, e il loro utilizzo si può supporre che accentui la segregazione.

Con questo finale poco entusiastico, si chiude l’articolo della giornalista Mattea Battaglia.

Qualcuno mi potrebbe chiedere per quale motivo abbia riportato questa intervista, e cosa essa c’entri con la parte iniziale di questo articolo. Ebbene, rispondo così: i “peana” con cui viene lanciata la “buona scuola” sono possibili perché in Italia non esistono precedenti di una gestione concorrenziale tanto definita, ma l’esperienza dei Paesi in cui esiste da tempo dovrebbe consigliare di abbassare i toni. Ma posso aggiungere ancora una cosa: questo articolo illustra chiaramente la divaricazione tra le scelte dei governi, che sollecitano quanto serve loro per controllare la situazione dello Stato, e quanto constatato dagli esperti di scuola, che restano almeno perplessi di fronte a quelle scelte. E non è forse, questo bivio, lo stesso vissuto dalla “persona qualunque”, di cui all’inizio constatavamo la netta separazione tra la sua idea di scuola e la sua idea della realtà politica e della finanza? E questa separazione è dovuta all’ignoranza della “persona qualunque” o in qualche modo gli è indotta proprio dalla mancanza di correlazione tra le scelte dei governi e le proposte di chi “fa” la scuola?

Conclusioni

Da quanto sopra si deduce chiaramente che non ce l’abbiamo con Renzi, ma che l’analisi relativa alle proposte contenute nella sua “buona scuola” è obiettiva.

D’altra parte, quella legge non chiarisce in alcun modo quale “difetto” della scuola tradizionale, se c’è, possa giustificare la necessità di una revisione dei ruoli dirigenti e, di conseguenza, di tutte le componenti, di tutta l’organizzazione e degli organismi scolastici.

Comunque sia articolato, questo mutamento di ruolo del dirigente implica infatti altrettanti mutamenti di ruolo delle altre componenti, adulti (genitori e insegnanti e ATA) e ragazzi. Il dirigente rivela il vero volto, identico a quello aziendale, di rappresentante dei titolari (ministero, governo e finanziatori) in seno a quell’ “azienda-scuola” particolare. Perde definitivamente quel poco che gli rimaneva della figura di “direttore didattico”, così che la sua attenzione si sposta definitivamente dalla responsabilità pedagogica e didattica, rivolta “verso il basso”, a quella della resa produttiva, rivolta “verso l’alto”.

Gli insegnanti quindi non hanno più come riferimento per la carriera il ministero ma il dirigente, di cui non sono più collaboratori ma i dipendenti. Il loro ruolo, da quello di autonomi interpreti delle linee guida indicate dal ministero, diventa quello di esecutori delle decisioni del dirigente, la cui disponibilità “democratica” dipende solo da lui, misuratore del “merito” sulla base dei suoi obiettivi. I genitori si trasformano definitivamente da “adulti coinvolti nella pedagogia” a “utenti” i cui organismi rappresentativi, dovendo fare riferimento ad un “titolare”  che decide di vita e di morte dei suoi “dipendenti”, da un lato si scontrano ancora di più con la rigidità economica e organizzativa di quel titolare, dall’altro possono influire sul destino dei “dipendenti” (anche la CGIL affronta questo argomento).

Il compito degli organismi rappresentativi, che è quello di consentire una crescita civile parallela di genitori e ragazzi, cessa completamente.

I ragazzi sono contemporaneamente il “prodotto in lavorazione” per il mercato e i “clienti” della scuola, la cui disponibilità a valutarne positivamente l’offerta implica la sopravvivenza del plesso. Gli insegnanti e gli ATA in qualche misura diventano “dipendenti” anche dei ragazzi.

La LIP, cioè la proposta di legge di iniziativa popolare inviata in Parlamento dalle firme di centomila operatori della e nella scuola e attualmente sostenuta da qualche parlamentare di buona volontà, vuole superare la dicotomia, tanto della “persona qualsiasi” quanto delle classi più abbienti. La scuola della LIP infatti non si appoggia ad un governo, ma alla stessa Costituzione dello Stato, unificando la cultura che deve reggere una qualsiasi autorità centrale con quella che fa della “persona” un cittadino, in divenire o già adulto che sia. Mentre l’accentuazione dell’intervento economico e di scelta dei privati e gli sgravi a favore delle scuole paritarie sembrano invece andare esattamente nella direzione opposta.

Ma la scuola, per essere buona, dev’essere proprio come la vuole Renzi? ultima modifica: 2015-04-12T21:46:10+02:00 da
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