Chi è il prof? Solo gli studenti possono rispondere

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di Cinzia Bella,  il Sussidiario, 28.12.2017

– La professione docente ha subito una contrapposizione ideologica tra tradizione e cambiamento. E a farne le spese sono state le domande dei giovani. L’antitesi tra tradizione e cambiamento che, come ha ben detto Daniele Ferrari nel suo articolo, costituisce spesso la premessa non verificata e non detta di tanto discorso pedagogico-didattico (non detta poiché assunta ormai come ovvia e di certo non nuova), dice molto dello sguardo che portiamo verso la scuola come particolare agenzia educativa e sistema complesso e istituzionalizzato. In particolare dice di un modo di intendere il cambiamento, la tradizione e l’educazione.

Il cambiamento invocato da questa antitesi è di tipo che definirei “etico”, ossia bisogna fare diversamente. Da cosa? Da come si è fatto prima. Ora, se si considera che ormai da almeno vent’anni — in realtà di più se pensiamo, ad esempio, al costruttivismo, alla didattica per competenze, alla personalizzazione o all’analisi dell’errore — si parla di nuovi strumenti per la didattica, del docente animatore, di tecnologie informatiche per la comunicazione applicate alla didattica, di Lim e chi più ne ha più ne metta, appare chiaro che questo “prima” è ormai fortemente anacronistico.

Una posizione più fruttuosa dovrebbe iniziare a proporre un bilancio di percorsi che sono già stati sostenuti, promossi e ampiamente documentati. E in ogni bilancio ci sono i pro e i contro o, per meglio dire, i punti di forza e di debolezza.

La fragilità nel discernere punti di forza e di debolezza dice di una confusione che, forse, è figlia di quella posizione “etica” di cui dicevo prima. Confusa laddove poggia sull’unica preoccupazione di non fare come prima. Senza neanche chiedersi che “cambiamento” si desidera. O, più radicalmente, di cosa si ha bisogno. Chi è un insegnante, ma non solo, sa infatti che il primo passo di una buona didattica è l’analisi dei bisogni. Forse su questo andrebbe oggi aperto un dialogo più serio.

L’antitesi, dicevamo, rivela un giudizio di valore su ciò che, altrettanto anacronisticamente, è inteso come tradizione e che è riassumibile in quella asimmetria che Ferrari riabilita nel suo intervento. Mi permetto di dire che demonizzare l’asimmetria scaturisce da un giudizio ancora una volta implicito ed “etico” che applica alla didattica l’equivalenza di paternità e potere. Forse vale la pena ricordare che oggi possiamo e dobbiamo fare un bilancio del ’68.

Mi scuso per l’insistenza sulla natura etica e implicita di questi giudizi, ma una vasta letteratura documenta quanti decaloghi e catechismi del buon docente innovatore sono stati prodotti e, come molti decaloghi, a tal punto non hanno inciso che li si ripropone come novità.

L’implicito — per dare una sottolineatura retorica, come vuole Ferrari —, è dato dal fatto che questi giudizi sono assunti come non più tali da giustificare o passare al vaglio di certe domande che sono state tralasciate forse come tradizionali, irrilevanti o premesse inefficaci che la frattura tra teoria e pratica ha ritenuto teoriche, cioè inutili. Sono domande di natura ontologica, poiché riguardano il quid, il “che cosa è” l’educazione? Domanda che rimanda alla natura del soggetto da educare: che cosa è la persona? Di cosa ha bisogno?

Guardare o no nuovamente al bisogno della persona decide poi del resto, poiché apre (o no) all’ascolto dell’io reale, della persona storica con la sua storia particolare, cui siamo chiamati a rispondere con la peculiarità dell’azione educativa e nel contesto nuovo in cui tanta etica è evidentemente crollata.

Così, potremmo persino spiegare un paradosso: che ciò che è innovativo in un determinato contesto, non lo è in un altro e viceversa. Perché? Perché la persona è una cosa a Palermo e un’altra cosa a Milano? No. Ma perché per rispondere allo stesso bisogno devo tenere conto di una molteplicità di fattori propri del contesto particolare in cui io e i miei alunni siamo e di cui saprò accorgermi nella misura in cui vivo tutta la profondità della natura educativa del rapporto con loro. Nella mia esperienza potrei anzi reperire casi in cui da una classe all’altra la stessa attività o metodo di lavoro ottengono risultati totalmente diversi: ciò che è riuscito a motivare, interessare, “muovere” gli alunni di una classe non ha scalfito gli altri. Ciò che però non cambia a tutte le latitudini è l’ontologia in cui si radicano i bisogni dell’alunno: la persona è relazione e l’educazione è una relazione tra un maestro e un alunno. La qualità e la significatività di questa relazione — per l’alunno e per il maestro — sarà la “porta” attraverso cui l’alunno apprende o impara nozioni a memoria, cresce in autocoscienza o rimane un esecutore di consegne destinato ad un impatto brusco con i contesti lavorativi. Si tratta infatti di una relazione umana che, quindi, per sua natura è libera e nessuna formula innovativa potrà scalfire di un millimetro il valore fondante di questa libertà.

Infine aggiungo che uno sguardo “etico” ha delle aspettative “etiche” che si ostinano a non fare i conti con l’esigenza di significato dei ragazzi (e dei docenti): non cosa dobbiamo saper fare, ma perché, che c’entra con me, la mia solitudine, il mio bisogno di amicizia vero, di significato. Troppo retrò?

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Chi è il prof? Solo gli studenti possono rispondere ultima modifica: 2017-12-29T07:12:08+01:00 da
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