Dalla scuola dell’educazione a quella della prevaricazione

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    La Tecnica della scuola   Domenica, 19 Aprile 2015

Pubblichiamo il giudizio sul ddl Buona Scuola di Gianfranco Pignatelli, un docente meridionale, che conosce molto bene la scuola dopo un’esperienza di precariato di 27 anni. “La destrezza lessicale a quel toscanaccio di Renzi, non manca. La retorica è arte sua, ma stavolta casca male. Gioca sporco proprio con chi le parole le conosce, le soppesa e le insegna pure”. Il ddl? “Un golpe ideologico”, che “dà lo scettro al preside revocando il libero pensiero e la libera espressione al démos, al popolo della scuola”.

Riceviamo e pubblichiamo volentieri un acuto intervento di Gianfranco Pignatelli, un docente meridionale, pugliese, che conosce molto bene la scuola: ha insegnato da precario per oltre 27 anni, per poi passare in ruolo e, infine, ritornare ad essere precario: figlio e fratello di insegnanti già pensionati, “conosco la scuola e la storia dei suoi ultimi cinquant’anni – ha scritto qualche tempo fa – , le iniziative insulse e scellerate che si sono succedute e i ministri inetti che le hanno adottate: da Misasi a d’Onofrio, dalla Iervolino a Berlinguer, dalla Moratti a Fioroni, sono stati, tutti, ministri per caso. Ce ne fosse stato uno, uno solo, direttamente ‘informato sui fatti’ e i bisogni della scuola…”.

Questo è il suo giudizio sulla Buona Scuola approvata dal Governo il 17 marzo scorso ed ora all’esame del Parlamento in vista dell’approvazione definitiva.

Nel PD democrazia fa rima con autocrazia. La destrezza lessicale a quel toscanaccio di Renzi, non manca. La retorica è arte sua, ma stavolta casca male. Gioca sporco proprio con chi le parole le conosce, le soppesa e le insegna pure. I docenti danno valore alle parole e le spendono quotidianamente per concetti di valore, come la democrazia, fatta di démos e cràtos, ovvero di popolo e potere, e mi verrebbe da aggiungere, potere del e per il popolo. Applichiamolo alla scuola e alla cosiddetta riforma. Ben al di là dell’accattivante etichetta “Buona Scuola” è un furto di democrazia degno di un novello caudillo. Nasce da un travaglio durato oltre cinque anni, al quale, non mi vergogno a dirlo, ho partecipato con continuità e passione, credendo fosse una cosa seria e costruttiva.

Invece, a leggerla è una farsa con finalità distruttive. Non c’è nulla di quanto detto e scritto nelle decine di giornate di lavoro, confronto e studio di questi cinque anni. Tra i tanti, un golpe ideologico, funzionale e strategico è quello di dare lo scettro al preside revocando il libero pensiero e la libera espressione al démos, al popolo della scuola. Collegio dei docenti non più convocato per proporre ed elaborare ma solo per il rito del ratificare. Consiglio d’istituto più che mai modellato e governato dal dirigente scolastico. Mai più libertà d’insegnamento, sempre più nepotismo, sudditanza e caporalato. La vera novità la potremmo definire “cattedropoli”. Mi spiego. Il preside, da coordinatore e mediatore, si tradurrà in un autocrate reclutatore/censore dei suoi insegnanti. Per farlo avrà bisogno di fedeli servitori e prodighi delatori. Se un docente rientrerà nel cerchio magico della sua orbita resterà nella scuola in cui è titolare da anni, altrimenti finirà nel buco nero della precarietà, in una sorta di blacklist chiamata albo. In effetti, sarà un elenco dei rifiutati, una discarica professionale dalla quale attingeranno le scuole delle aree degradate e disagiate delle periferie sociali e geografiche del Paese.

Non c’è che dire, ci son voluti cinque anni perché un sedicente partito democratico architettasse una scuola non più pubblica, ovvero di tutto e per tutto il démos. C’è voluto un sedicente progetto di “Buona scuola” per espropriare i docenti di ogni residua autonomia e autorevolezza. È del tutto evidente che ogni alunno, ogni genitore, in regime di caporalato, by-passerà l’insegnante e si rivolgerà direttamente al suo datore di lavoro o DS che dir si voglia. Sarà quindi il chiacchiericcio fatto alle spalle del docente ad essere l’oggetto di valutazione della sua professionalità. Il futuro dell’attività docente non sarà più quella di formare buoni studenti ma solo quella di tenersi buoni gli studenti e i loro genitori, essere loro più simpatico che utile, assecondare acriticamente il DS in ogni sua iniziativa. Perché si sa, Renzi crede che un uomo solo valga più del démos. Anzi, che una voce sola possa zittire tutte le altre, un pensiero unico possa spegnere qualunque altro, specie se divergente. Della scuola, il capo di un governo cosiddetto democratico e di un partito autoproclamatosi democratico cosa conosce? La moglie non più precaria, forse. La sua devastante esperienza di alunno, certamente. E poi? Troppo poco per decidere su un settore che reputa, non a caso, strategico. Strategico non già per orientare e consolidare il consenso ma strategico perché è mirato a generazioni in formazione, al loro futuro.

Perché è la scuola a promuovere nei giovani la consapevolezza della pluralità dei saperi e delle idee, a sviluppare in loro curiosità e capacità di cercare, approfondire, confrontare, valutare e scegliere con spirito critico e libertà. A tal fine, è bene informare Renzi che i presidi manager non esistono, sono un disturbo mentale suo e dell’Aprea. Non hanno alcuna formazione manageriale. L’università di venti o trent’anni fa non li ha preparati a null’altro se non alla materia che poi hanno insegnato. Per la verità, gli atenei non gli hanno neanche insegnato ad insegnare. Questo lo hanno appreso sulla pelle dei ragazzi che gli sono stati affidati, se e quanto la propria dedizione li ha spinti a migliorarsi giorno dopo giorno. Hanno sostenuto un concorso all’italiana: dapprima, preparandosi sì e no; copiando e raccomandandosi, durante; manipolando e oliando, per concludere. Sono, quindi, solo degli insegnanti, sovente di materie insignificanti e ordini minori, che, spesso, hanno due ragioni per abbandonare l’arte nobile dell’educatore. La prima, è affrancarsi da un lavoro che non hanno mai amato o non hanno mai saputo fare. La seconda, è la sete di potere e di denaro.

Proprio quella ingordigia che il totalitarismo aziendalista renziano vuole incentivare. Come? Col potere assoluto, certamente. Con più soldi, ipoteticamente. E così capita che un ministro per caso dia risposte a caso ai rappresentanti della scuola militante. Sempre la solita, quella in balia di politici incompetenti, ignoranti e insignificanti. Quella che sopravvive grazie alla dedizione e all’applicazione dei suoi docenti che, lì dov’è possibile, fanno squadra mentre il loro preside resta asserragliato col proprio cerchio magico a setacciare finanziamenti per progetti onerosi e infruttuosi, fomentatori solo d’ingordigia e conflittualità. Progetti altisonanti dei quali pavoneggiarsi, a discapito dell’ordinaria gestione e della generale qualità dell’istituto. Se alla scuola, e alle future generazioni che questa provvede da sempre a preparare, si vuole dare una prospettiva migliore occorre una buona scuola, non di nome ma di fatto.

E una ben più seria proposta politica, magari, fatta da un ministro che conosca la scuola non perché ha avuto un coniuge o un figlio nella scuola ma perché ha avuto degli studenti che lo ricordano ancora per la dedizione, la passione, la coerenza e l’efficacia della sua funzione educativa.

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