Sul documento nuova vita Piano Scuola Digitale

Poco più di venti mesi fa, appena all’inizio del primo anno scolastico successivo all’approvazione della Legge 107, venne pubblicato un documento dedicato all’innovazione digitale della didattica[1], uno dei primi che tentava di rendere operativi alcuni contenuti qualificanti la “Buona Scuola”. Diversi interventi si dedicarono all’analisi di quel documento[2].  A venti mesi da quella pubblicazione, due tra i più solerti collaboratori del ministero, nonché tra gli estensori di parte dei documenti dedicati alla “Buona Scuola”, ovvero Damien Lanfrey e Donatella Solda, hanno licenziato un nuovo testo[3], per fare il punto sui risultati ottenuti, nonché rilanciare l’iniziativa in occasione dell’anno e mezzo trascorso dall’elaborazione del primo Piano digitale. Risulta in qualche modo doveroso, da parte nostra, proporre un analogo bilancio rispetto alle posizioni critiche che erano state espresse allora.

Il documento è scritto in modo abile: come consueto in questi contributi, nasconde le sue sottigliezze e la sua inclinazione ideologica attraverso un linguaggio in apparenza scientifico-formalizzante. Sul piano linguistico, bisogna riconoscere che è di molto attenuato l’uso iperbolico di anglicismi ed espressioni pseudo tecniche, di cui era infarcito il documento sul programma di formazione obbligatoria per i docenti[4], e che aveva suscitato diverse perplessità[5]. La sostanza delle critiche espresse al documento precedente riguardava il modo d’concepire il ruolo delle nuove tecnologie, intese non quali strumenti capaci di rendere più agevole la relazione didattica e l’approfondimento dei contenuti disciplinari, ma come nuovo paradigma cognitivo destinato a sostituire le modalità tradizionali d’insegnamento[6]. Le tecnologie digitali e il loro impiego in una didattica “innovativa” e flessibile favorirebbero, per ciascun docente, la transizione dalla oramai obsoleta logica disciplinare a quella trasversale delle competenze[7]. Conoscenze e discipline, ritenute “biodegradabili”, devono fare spazio alle “competenze di cittadinanza”[8]: abilità e capacità certificabili e facilmente riconducibili alla realtà produttiva. Come è stato più volte osservato, questo apparente vantaggio, a fronte di un indubbio ridimensionamento delle capacità di analisi critica e culturale, non sarebbe vincente neanche rispetto allo scopo dichiarato dall’esecutivo, soprattutto per la rapida obsolescenza cui sarebbero destinate le pratiche insegnate. Vista l’evoluzione di concetti, modelli e strumenti, pensare di insegnare oggi quello che sarà utile anche solo domani sembra davvero idea un po’ troppo ambiziosa.

Finanziamenti, innovazione sistemica e presunte validazioni “scientifiche”

Il documento oggetto del nostro intervento è strutturato in diversi punti; per buona metà, esso presenta[9] un ambizioso programma d’investimento e di digitalizzazione di tutte le scuole d’Italia, soprattutto quelle di sede periferica e maggiormente svantaggiate. Un progetto di per sé encomiabile, se lo scopo fosse quello di mettere a disposizione degli insegnanti una tecnologia di trasmissione del sapere ormai irrinunciabile e che sicuramente offre varie, molteplici e positive possibilità di approccio agli argomenti, non certamente però esclusive e in ogni caso non necessariamente da utilizzarsi in via prioritaria. Fin qui, infatti, sarebbe un’ottima notizia quella degli investimenti del MIUR (sebbene, a onor del vero, la maggior parte dei fondi sia di provenienza europea tramite bandi PON vincolati). Lo sarebbe se tutto avvenisse nel rispetto della (oramai impronunciabile) “libertà d’insegnamento”, ovvero del diritto di ogni docente di praticare la metodologia ritenuta più adatta a comunicare, coinvolgere e far apprendere contenuti culturali irrinunciabili (la libertà d’insegnamento è ancora più di metodo piuttosto che di contenuti). Gli estensori del documento, nei paragrafi successivi, chiariscono la questione fuori da ogni dubbio. Si tratta di “invertire la narrativa”. Detto più esplicitamente: la musica deve cambiare e l’innovazione deve entrare in ogni classe, deve essere il “kernel” della nuova scuola, attraverso una serie di azioni sistemiche (“formazione di qualità”, studio di metodologie “concretamente applicabili in ogni classe”, “piattaforma degli innovatori”) che permetterebbero addirittura di “dare struttura permanente, scientificamente validata e alla frontiera dell’innovazione[10].

Risulta evidente come il richiamo alla validazione scientifica, che renderebbe obbligata la transizione intermodale verso l’”innovazione”, abbia lo scopo di scongiurare qualsiasi obiezione o approccio critico. Si tratta di un’abitudine non nuova nei testi ministeriali e nei documenti ufficiali, che apre preoccupanti scenari speculativi, rispetto ai quali dovrebbero intervenire proprio gli uomini di scienza.  Questi documenti, infatti, oramai da anni, sostengono la perentorietà dei propri assunti sulla base dell’applicazione di acquisizioni “scientifiche” che non si presentano affatto come rigorose, né supportate da letteratura o ricerche di settore, ma che si ritengono tali in modo autoreferenziale e non aperto a contraddittori.

E’ il caso, come vedremo, anche del presente documento; che pure, in una delle numerose contraddizioni che appaiono nel testo, afferma che i dati ottimistici su cui il ragionamento è costruito sono parziali[11]. Un’abitudine non nuova da parte degli “innovatori progressisti” che a fronte della provvisorietà dei dati a disposizione propongono conclusioni apodittiche, verso le quali sarebbe inutile qualsiasi argomentazione critica. In realtà, su tali dati sarebbe auspicabile un lavoro indipendente particolarmente attento: il fatto che gli insegnanti applichino quanto previsto dalla legge (per quanto riguarda i corsi d’aggiornamento obbligatori, l’adesione ai test INVALSI,  l’Alternanza scuola lavoro, ecc.) non significa che ne condividano i contenuti; spesso i docenti utilizzano strategie che depotenzino la deriva riduzionista e semplificatrice che l’adozione di tali pratiche comporta, nella consapevolezza che solo un’approfondita e consapevole didattica disciplinare sia occasione di crescita intellettuale significativa per gli studenti.

La competenza digitale

I principi su cui impostare la nuova azione didattica sono allora le “competenze”. Tra queste, la competenza digitale, da “rendere strutturale negli ordinamenti”. Nonostante l’applicazione di tale concetto alla pratica didattica susciti un contrasto d’opinioni tra gli studiosi certo non ancora risolto[12], l’esecutivo, forse proprio per dare una mano a dissipare tale confusione, ha intenzione di spendere diversi milioni di euro per finanziare ben 18 centri di competenze sui vari temi, fra cui emerge la centralità del “pensiero computazionale”[13]. Dal 15 settembre, in particolare, inizierà a lavorare un gruppo di lavoro proprio sulle «competenze digitali». Tra i suoi scopi c’è quello di promuovere l’utilizzo di smartphone o tablet in classe (il cosiddetto BYOD, bring your own device), e, più in generale e più minacciosamente, l’innovazione metodologica della didattica. L’uso dello smartphone[14], la digitalizzazione dell’insegnamento, il pensiero computazionale non diventano possibili opzioni, metodologie eventualmente scelte dall’insegnante se ritenute più opportune, in base ai contenuti da trattare e al contesto-classe. Diventano le competenze di base della nuova professionalità docente, ineludibili e da applicarsi obbligatoriamente (“il punto è far succedere tutto questo in ogni classe”[15]). Si capisce allora che cosa intendeva la ministra Fedeli, quando ha negato che l’insegnamento sia affatto una missione, bensì una serie di competenze tecniche da applicare[16]. E cosa può derivarne in merito alla sicurezza del “posto di lavoro” per ogni insegnante[17]. Il “pensiero computazionale”[18], nonché quello “analitico”[19] diventerebbero non un approccio possibile ad alcune discipline o argomenti, ma addirittura l’oggetto di un esclusivo curricolo verticale dalle elementari alle superiori, nella volontà di impostare fin dalla base un modo di ragionare tecnicistico e strettamente sequenziale, delimitato nelle possibili variabili, in un contesto di calcolo di vincoli, risorse e obiettivi.

Il digitale, la scuola, la società

Quali sono le implicazioni educative alla base di tale affermazioni? Quali le conseguenze di una simile scelta sul piano del linguaggio, ad esempio? Quali le ricadute sul modo di interpretare la realtà, di entrare in relazione con il mondo? Tutte questi interrogativi non trovano spazio nel documento (né in quello originario, il Piano Digitale). Si tratta di omissioni tipiche delle discussioni sull’opportunità delle nuove tecnologie in ambito scolastico, che tuttavia devono competere ad un educatore, il cui obiettivo principale non può né deve ridursi a garantire “un’interfaccia sufficientemente aggiornata” col mondo esterno ai suoi studenti. I cambiamenti e i disagi sociali o l’ubiquità del digitale nella “società della conoscenza” non possono -a nostro avviso – giustificare trasformazioni di carattere pedagogico o educativo così radicali come quelle promosse dal Piano Digitale.  Presentare la “rivoluzione digitale” come lo strumento (per eccellenza) di accesso ad un sapere miracolosamente democratico, capace di rendere possibile la tanto agognata “individualizzazione” o (addirittura) risolvere il problema della dispersione scolastica, è un espediente collaudato che sposta l’attenzione su “emergenze” di diversa natura. Le disparità di occasioni territoriali[20], la difficile e precaria collocazione dei giovani nel mondo produttivo, l’attuale situazione economica, sono condizioni che la scuola subisce più che provocare. Problemi di natura politica che bisognerebbe sì affrontare con l’allocazione di risorse indicata nella prima parte del documento in esame. Tali risorse, tuttavia, non dovrebbero in alcun modo vincolare o normare il percorso scolastico, lasciando ai docenti la possibilità di trovare, in virtù della loro professionalità e di una riacquistata credibilità, le metodologie di volta in volta opportune secondo il contesto. Sempre con il proposito di permettere a tutti di accedere, ai contenuti più alti di cultura, realmente emancipativi, e non solo ad abilità operative.

Il commissariamento dei docenti

Ciò che stupisce in questo documento, così tetragono nell’imporre i propri contenuti, è la totale indifferenza a quanto, su questo tema, è stato dibattuto in questi venti mesi; le prese di posizione sulla digitalizzazione della scuola, esposte nel precedente documento, sono state sottoposte a più di un’efficace critica, e avrebbero semmai dovuto indurre a un ripensamento o quanto meno ad un dibattito o una negoziazione[21]. Qualcuno potrebbe stupirsi della protervia con cui vengono portate avanti tali politiche educative nonostante le evidenti contrarietà che esse suscitano in una parte non irrilevante non solo degli insegnanti, ma anche tra le personalità intellettuali e l’opinione pubblica. Ma è chiaro che tali dispositivi (Il Piano Digitale, il Piano di Formazione insegnanti, il nuovo disegno sul reclutamento e sulla valutazione dei neoassunti, la chiamata diretta, il ciclo di autovalutazione e miglioramento delle scuole)  mirano a un unico scopo, ritenuto irrinunciabile, che è quello di recepire una modalità di organizzazione scolastica non più fondata sul valore pubblico dell’istruzione, ma su richieste dell’apparato produttivo rispetto alle quali l’autonomia dei docenti rappresenta solo un ostacolo.  Non a caso i veri nuovi protagonisti della scuola, a leggere il documento, non sono più gli insegnanti, ma gli operatori esterni alla scuola i quali, avendo molto più chiari i bisogni sociali diffusi, ritengono di avere maggiori diritti nell’elaborare pratiche, obiettivi e contenuti formativi. E rispetto ai quali i docenti devono accettare un ruolo di totale subordinazione.

In particolare, sono le organizzazioni imprenditoriali[22] a pretendere di esercitare questo ruolo; ad esse, per favorire l’osmosi tra scuola e mondo produttivo, vengono consegnate de facto le chiavi di comando; oltre ad insistere sul pensiero computazionale, il documento introduce –ma ciò veniva fatto già nei documenti precedenti- l’imprenditorialità come indispensabile caratteristica antropologica da valorizzare in ogni essere umano[23], e quindi al centro del progetto formativo della scuola (già alle  scuole medie[24]).

Su queste impostazioni dovrebbe essere deciso ciò che nel documento in esame è chiamata «inversione di narrativa». Gli insegnanti sarebbero ancora in parte formati su una base culturale idealistico letteraria, di derivazione storicistica, anche quando insegnano discipline scientifiche, soffermandosi troppo sull’aspetto teorico e meno su quello operativo; un’impostazione che non avrebbe più attualità nel mondo globale. Le loro strategie comunicative e il loro approccio si rivelano poco adatti a favorire l’apertura della scuola alla società. Di qui, dunque, la necessità dell’ingresso di un’autorità intellettuale esterna che li resetti dal punto di vista professionale, mutando gestalticamente la natura del loro mestiere. Sarebbe questa la «formazione di qualità»[25] (è una costante dei pedagogisti coniare espressioni ottimistiche per le loro innovazioni); un’esigenza -secondo gli autori- espressa sia all’interno dal mondo della scuola (nessuna indicazione specifica viene data a giustificare questa affermazione, che sembra invero molto in contrasto con la realtà della quotidianità scolastica, per lo meno di quella vicina agli autori di questo contributo), ma soprattutto da chi lavora al di fuori della scuola, e che non può evidentemente lasciarla nelle mani degli insegnanti.[26] Esperti esterni i quali pretendono di parlare in nome di una scienza pedagogica ormai validata in modo definitivo. Se così non fosse –se cioè i contenuti del documento non fossero contenuti di scienza- non si potrebbe obbligare i docenti a sposarne le pratiche, e cadrebbe tutto quel castello di coercizione e di attacco alla libertà d’insegnamento in ragione delle quali si stanno disegnando –in senso autoritario- le nuove gerarchie nella scuola italiana. “Per chi non se ne fosse accorto, c’è una logica profonda che sottende questa visione: si tratta di depotenziare l’insegnante, di spiarne e soppesarne le più infime mosse, e all’orizzonte di sostituirlo”[27]. Queste le parole di R. Casati in un breve intervento sul tema dell’urgenza riformatrice in campo educativo. I docenti, se andasse in porto (come sta andando) questo disegno, non avrebbero più speranza: per meritare il proprio posto di lavoro dovrebbero accogliere i nuovi paradigmi dell’insegnamento e accettare, con sottomissione, di sottoporsi ai nuovi programmi formativi[28]. Certo, una tale perentorietà non è espressa direttamente nel documento; ma, se gli insegnanti rimangono dei lavoratori intellettuali, non dovrebbero avere difficoltà a coglierla: sicuramente vengono espressi grandi elogi per chi ha accettato di introdurre le nuove procedure didattiche (si parla di “coraggio”, di entusiasmo,[29]). Autentica soddisfazione è espressa nei riguardi degli «innovatori della scuola», interni ed esterni, a cui vengono promesse migliori condizioni, si immagina dal punto di vista gerarchico e stipendiale («dare agli innovatori della scuola quello che è già utilizzato dagli innovatori del Paese»[30], che non si capisce bene dalla frase quali siano. Presumiamo le organizzazioni imprenditoriali di maggiore peso economico). Verso la fine del documento compare una frase sibillina, presentata in modo cortese, ma che dovrebbe preoccupare qualsiasi insegnante. Se in precedenza si era fatto cenno a «ciò che il Paese chiede alla scuola…», più avanti il periodo prosegue in questo modo: «ma è ora di pensare a ciò che la Scuola deve chiedere al Paese»[31]. Si riconosce, apparentemente, anche agli insegnanti la possibilità di pretendere qualcosa, anche se sarebbe meglio che a formulare le richieste fossero essi stessi e non gli estensori del documento. E che cosa mai sarà questa concessione, questo diritto degli insegnanti finalmente di pretendere, nella consapevolezza che la scuola e la cultura degli alunni la portano avanti soprattutto loro? Quella – e qui l’ironia involontaria si trasforma in derisione- di poter chiedere per loro i «migliori formatori». Ovvero, riconoscendo la loro inadeguatezza, ammettendo con umiltà di doversi riformare completamente e accettare di lasciarsi “accompagnare”[32] docilmente nella loro attività quotidiana.

Appare lecito dubitare che tali “formatori di qualità”, la cui impostazione rimanda ai criteri che abbiano sinora esposto, siano in grado di dare corpo e consistenza culturale a quelle che un tempo si chiamavano attività di aggiornamento (una sorta di “manutenzione”[33]dovuta) e che oggi, con una mutazione semantica assai significativa, diventa formazione (nuova forma) a tutto tondo. Gli insegnanti, in questo modo, sono “ridotti a mera ruota dell’ingranaggio e devono limitarsi a impartire lezioni standardizzate, basate sulla memorizzazione e sulla promozione di capacità atte a superare test, per far sì che le scuole “raggiungano il vertice”. Gli insegnanti non sono più considerati fondamentali risorse civili e intellettuali, ma piuttosto strumenti e tecnici poco qualificati il cui ruolo è ridotto a formare i propri studenti ad accettare l’addestramento […] e l’immaginazione come un nemico dell’apprendimento.”[34].
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[1] Cfr. http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf

[2] Segnaliamo un contributo, apparso su ROARS circa un anno dopo la pubblicazione, consultabile al seguente link: https://www.roars.it/online/informatica-o-pensiero-computazionale-il-futuro-della-scuola-italiana/; cfr. anche al seguente link (http://www.casadellacultura.it/187/il-prezzo-della-scuola-digitale-pagato-dalla-cultura) oppure http://facciamosinistra.blogspot.it/2016/10/il-coding-e-solo-un-gerundio.html

[3] Il documento è consultabile al seguente link: https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/miur-rilancio-e-prossimi-passi-del-piano-scuola-digitale-insieme-al-paese/

4 Cfr. E.Faglia, https://www.roars.it/online/talis-byod-iea-pirls-ed-ecco-a-voi-siore-e-siori-la-neolingua-del-miur/

5  https://www.roars.it/online/un-lucido-attacco-alla-liberta-dinsegnamento-sul-piano-di-formazione-obbligatoria-dei-docenti-italiani/

6 Illuminanti a proposito le osservazioni di Ivan Cervesato, peraltro messe in relazione alla recente decisione del MIUR di estendere la sperimentazione del percorso quadriennale dei Licei: «Sottolineo: non si tratta di una posizione che colloca lo strumento al livello che gli compete, quello appunto di attrezzo da usare con buon senso, quando e se ritenuto utile (eventualmente, dunque, anche da non usare per nulla). Quello di mezzo per raggiungere un fine. No, mi riferisco qui ad una posizione radicale, largamente diffusa, che attribuisce alla tecnologia didattica un ruolo essenziale nei processi di apprendimento, con ciò prefigurando un vero e proprio rovesciamento mezzi-fini. In questo caso, come per la didattica laboratoriale, l’uso delle nuove tecnologie didattiche assume una centralità ed un’essenzialità del tutto nuove e, per così dire, spinte all’ennesima potenza: se è vero che esso viene dichiaratamente inteso come strumento capace di comprimere tanto efficacemente i tempi di apprendimento, da rendere possibile l’eliminazione indolore di un anno di corso». Cfr. I. Cervesato, Delle superiori quadriennali, http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=94233

7 Sullo statuto epistemologico e sul ruolo che le competenze assumono nella narrazione scolastica della Buona Scuola è stato scritto ampiamente. A titolo di esempio si vedano: A. del Rey, “A’ l’ecole des competences”, Ed. La decouverte, Paris, 2013; E. Greblo, La fabbrica delle competenze e B. Bonato, Senso e non senso della competizione, entrambi in “La scuola impossibile”, Aut Aut nr. 358, 2013.

8 Il richiamo alla cittadinanza e alle istanze di coesione sociale di tutti i documenti ufficiali in tema di competenze, nonché le loro enunciazioni astratte (si pensi alle competenze come spirito di imprenditorialità, imparare ad imparare, consapevolezza ed espressione culturale) sono tipiche del “travestimento” progressista della nuova narrazione della Buona Scuola. Un significativo esempio di tale travestimento progressista è l’articolo di Jacopo Rosatelli, Cosa manca al movimento della scuola, pubblicato da Il Manifesto il 13 agosto 2017. In esso si afferma che dietro «l’anglo-pedagoghese si trovano modelli alternativi rispetto alla lezione ex-cathedra anti-autoritari, cooperativi e non competitivi, come la classe capovolta, dove gli alunni sarebbero loro in cattedra». In realtà la classe capovolta inverte solo i compiti da realizzare a casa e suola, non la posizione in classe degli alunni rispetto alla cattedra. L’articolo era una risposta ad un condivisibile intervento sullo stesso quotidiano (La ministra, Freud e il grande furto del tempo, 8 agosto) di Laura Marchetti, dove si parlava dell’invasione «prima di un linguaggio comico economicistico-militare (crediti, debiti, strategie, obiettivi, etc) e poi ancora più comico angli-pedagoghese».

9 In particolare i paragrafi 1-4.

10 Articolo nota 2, paragrafo 5.

11 All’inizio del documento si legge: «Dopo 20 mesi di Piano Nazionale Scuola Digitale, era venuto il momento di fare il punto. Un punto concreto e onesto, anche se i dati rappresentano al momento solo un campione parziale».

12 Si legga, ad esempio, in ambito internazionale, la posizione di P. Meirieu, coautore con B. Stiegler e D. Kambouchner del saggio “L’ecole, le numerique et la societé qui vient”, Ed Mille et une Nuits, Paris 2012, https://www.meirieu.com/ARTICLES/pedagogie_numerique.pdf, o il recente studio Educ Eval condotto dall’Università di Lille nelle scuole primarie della città di Bordeaux, sull’impiego di strumenti digitali e loro influenza in classe. L’analisi è stata diffusa nel Febbraio 2017 in un corposo rapporto disponibile sul sito http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2017/02/24022017Article636235179019856157.aspx

13 Nel documento di Lanfrey e Solda si parla di tre distinti piani d’investimento, per un totale di circa 25 milioni di euro.

14 Cfr. http://www.tecnicadellascuola.it/item/31707-fedeli-uso-consapevole-dello-smartphone-in-linea-con-la-didattica.html .

15 Affermazione riportata al paragrafo 6.

16 Cfr. il seguente link: http://www.orizzontescuola.it/fedeli-linsegnamento-professione-non-missione/ : “Quella dell’insegnante è una delle professionalità più importanti per il paese, perché strettamente collegata alla sua crescita”. Dal che si deduce che la professionalità docente si valuti in ragione di quanto è capace di offrire in modo diretto alla crescita economica.

17 Cfr. il seguente link: http://www.tecnicadellascuola.it/item/32238-fedeli-basta-coi-docenti-inamovibili-chi-non-e-in-grado-di-insegnare-va-stanato.html Bisognerà valutare se il giudizio di non idoneità di un docente sarà stabilito in relazione alle fantomatiche competenze stabilite dai diciotto gruppi di lavoro.

18 Sul pensiero computazione cfr. Giovanni Salmeri, Informatica o pensiero computazionale. Il futuro della scuola italiana in https://www.roars.it/online/informatica-o-pensiero-computazionale-il-futuro-della-scuola-italiana/ ; e anche in I.Cervesato, cit., pag. 13; ma segnaliamo anche un divertente ed estemporaneo giudizio in merito di Giulio Ferroni al seguente link (dal minuto 33’): https://www.youtube.com/watch?v=U_wPk2JmZx8 .

19 Cfr. paragrafo 6 del documento. Si tratta di affermazioni impegnative sul piano epistemologico, in quanto, senza che nessuna comunità scientifica lo abbia avvalorato in modo unanime, rigettano come infondata tutta una tradizione pedagogica del nostro Paese ancora di grande valore e attualità, che non affatto impedito lo sviluppo della cultura e la conoscenza scientifica nel nostro paese; cfr. in proposito Ilvio Diamanti, Ragazzi non tornate, in La Repubblica, 4 settembre 2017: i giovani laureati italiani all’estero “sono richiesti da più soggetti scientifici, da più istituzioni, da più imprese […] I dati dell’Ocse, infatti, rilevano che la scuola italiana è ancora uno strumento di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale”. Per altro verso, i nostri laureati e i nostri ricercatori trovano spazio e vengono valorizzati, altrove […]”.

20 In uno studio che pure sostiene una riforma della didattica affatto diversa da quella auspicata dal presente articolo, Walter Tocci pure propone un giudizio analogo. Crf. W.Tocci, La scuola, le api e le formiche, Donzelli, Roma 2015, pp.71 sgg.

21  Da ricordare innanzitutto la pubblicazione di Adolfo Scotto di Luzio Senza educazione, Il Mulino, Bologna 2015. Spesso si fanno riferimenti a numerosi studi di ambito anglosassone per sostenere gli effetti negativi, sul piano cognitivo e didattico, di una digitalizzazione integrale del processo di istruzione. Il volume di Di Luzio, nelle pagine iniziali, dà conto però di una sperimentazione attuata in Italia (Cl@ssi 2.0, del 2009), i cui esiti sono stati palesemente insoddisfacenti, senza che ciò conducesse le autorità ministeriali a mutare strategia. Cfr. anche, tra le novità di questi anni non tenute in considerazione dagli estensori del documento, Susan Greenfield, Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie stanno lasciano un’impronta sui nostri cervelli, Roma, Giovanni Fioriti editore, 2016, nonché l’interessante recensione di Anna Angelucci al seguente link:

(http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=22350#more-22350 ) che ha il merito di fare anche un punto generale sulla situazione. O ancora: R.Bihoux:  “Le desastre de l’ecole numerique”, Ed. Seuil, Paris 2016; oppure B. Devauchelle in “Eduquer avec le numerique”,  2017 ed. ESF, Paris 2017.

22 In un’intervista rilasciata a Tuttoscuola, n° 558, Gennaio 2016, pag.54, Federico Visentin, Vice Presidente di Federmeccanica, afferma la necessità di ripensare totalmente la didattica alla luce delle esigenze delle aziende. Si legge fra l’altro: «La “Buona Scuola” del futuro, quella dove istituzioni formative e imprese sono partner, non potrà prevedere l’identificazione della didattica con le sole materie, il nozionismo, la considerazione della classe come un unicum inscindibile, ma piuttosto l’interdisciplinarietà, la flessibilità applicata ai programmi e agli orari didattici». Sul modo di intendere la partnership tra impresa e istituti formativi, leggere più avanti: «Con la riforma “La Buona Scuola” viene riconosciuto il ruolo formativo dell’azienda, che dovrà partecipare a tutte le fasi del percorso formativo: progettazione delle competenze, formazione on the job, valutazione»; praticamente tutto.

23 Tra i progetti annunciati nel documento, si cita un curriculum nazionale per l’imprenditorialità, per permettere ad ogni studente della scuola secondaria di sviluppare il proprio spirito di iniziativa traducendo idee in progetti concreti, anche a partire dal recente investimento di 50 milioni di Euro su questo tema”.

24 Ci piace citare, su questa deriva estremistica e ideologica del modo di intendere le competenze a scuola, una lapidaria battuta in proposito di Mario Perugini, docente di storia economica all’Università Bocconi. Si trova al seguente link (https://www.youtube.com/watch?v=AoXcbAQtLXE ), al minuto 1’ 16’’ 50.

25 E’ il titolo del paragrafo 5 del documento.

26 Significativo, ad esempio, il tema e gli interlocutori del prossimo convegno internazionale (Roma, 19 Settembre 2017) organizzato dalla Fondazione San Paolo, dal titolo Quali skills per i giovani del XXI secolo? http://www.treellle.org/eventi

27 R. Casati “L’abbaglio della fine della scuola”, 2016, http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-05-14/l-abbaglio-fine-scuola-181747.shtml?uuid=ADALDKH .

28 Qualora la cosiddetta “chiamata diretta”, ovvero la facoltà del Dirigente Scolastico di selezionare il personale docente del proprio istituto in base a un giudizio sui curriculum degli stessi prevedesse –questa sembra essere la volontà dell’esecutivo- anche una sorta di “chiamata d’uscita”, ovvero la facoltà del Preside di decidere, in condizioni di sovrannumerarietà, quale docente allontanare dall’Istituto, allora si perderebbe qualsiasi possibilità di lavorare in modo libero e autonomo.

29 Cfr. inizio paragrafo 6.

30 Cfr. inizio paragrafo 7.

31 Queste ultime considerazioni sono contenute alla fine del documento, nel paragrafo 7.

[32] Nel Piano Nazionale della Scuola Digitale, citato nella nota 1, pag.31, già si affermava: “Occorre quindi vincere la sfida dell’accompagnamento di tutti i docenti nei nuovi paradigmi metodologici. I contributi dei docenti più innovatori servono invece a creare gli standard attraverso cui organizzare la formazione e, attraverso risorse certe e importanti, renderla capillare su tutto il territorio”; per poi rivolgere un invito ai Dirigenti Scolastici  a fare pressione sui loro docenti per adeguarsi alla nuova didattica: “Occorre infine riconoscere il ruolo di stimolo che deve essere proprio dei dirigenti scolastici e includere nelle azioni anche il resto del personale scolastico, troppo spesso non sufficientemente considerato nei piani di formazione […]” (ibid.)

33 https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/8117-renata-puleo-la-formazione-nell-era-del-merito.html

34 H.Giroux, “Educazione e crisi dei valori pubblici”, Editrice La Scuola, 2014, pag. 104 Più avanti lo studioso denuncia sia l’intenzionale “anti intellettualismo” della didattica innovativa (“considerare l’insegnamento e l’apprendimento come problemi di gestione aziendale distinti da questioni come l’agire, l’esperienza, l’etica, la teoria, la storia e la politica”), finalizzata unicamente a preoccupazioni di carattere economico (“riconfigurare l’istruzione in termini strumentalizzati limitando il senso dell’educazione a una ristretta e riduttiva domanda di sviluppo economico”).

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