I migliori maestri di “problem solving”? Omero e Ungaretti

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Corrado Bagnoli risponde a Fabrizio Rozzi,  il Sussidiario, 6.12.2017

– Risolvere problemi è fondamentale, ma siamo sicuri che sia il “problem solving collaborativo” di cui parla Ocse-Pisa sia la strada giusta?

Qualche giorno fa Fabrizio Rozzi, su queste stesse pagine, concludeva il suo articolo sul problem solving collaborativo con queste sacrosante osservazioni sul valore dei dati e sulla loro importanza per il legislatore che deve proporre soluzioni efficaci e lungimiranti per la scuola italiana:

“I dati, dunque, pur con i loro limiti riduzionistici, consegnano informazioni preziose e la possibilità di comprendere meglio la realtà; richiamano l’importanza di ricondurre il dibattito ad informazioni precise, circostanziate e condivise… Solo con i dati si può avere una comprensione di sistemi caratterizzati da un elevatissimo livello di complessità, per la numerosità degli attori e delle variabili coinvolte. E la comprensione è la premessa necessaria perché la responsabilità del decidere e dell’agire possa essere assunta dai decisori politici con efficacia e lungimiranza, in un’ottica di reale progresso per il nostro Paese”.

Ora, c’è qualcuno che potrebbe mettere in discussione tali affermazioni? No, ma verrebbe da dire che la montagna ha partorito il topolino. Oppure il contrario: che il topolino ha partorito la montagna. Non so, cominciamo dall’inizio: legislatori, sappiate che come dice Ocse-Pisa i quindicenni italiani non hanno competenze in ordine al problem solving collaborativo. In sostanza, i giovanotti e le signorine di terza media o prima superiore non saprebbero per prima cosa raccogliere informazioni su un problema; non saprebbero poi rappresentare un problema e le relative variabili in tabelle, grafici, parole chiave o altre rappresentazioni grafiche; definire una strategia per la soluzione e portarla avanti e infine assicurarsi che la strategia venga realmente seguita e reagire in modo efficace alle sollecitazioni durante il percorso che porta alla risoluzione del problema. Che sono cose che riguardano solo il solving, a cui quello collaborativo aggiunge almeno altre tre abilità in cui i bimbi italiani sono altrettanto negletti: la capacità di stabilire e mantenere processi di condivisione di conoscenza; avere un ruolo appropriato entro il gruppo nella soluzione del problema; stabilire e mantenere l’organizzazione del gruppo.

E’ perlomeno curioso però che mamma Ocse-Pisa rilasci prove per valutare capacità di collaborazione in team in un ambiente simulato digitale in cui del team… non si senta neanche l’odore. Ma tant’è, l’autore del pezzo ci informa rassicurandoci che “si presuppone che le competenze relative al lavoro collaborativo espresse dallo studente nell’ambiente virtuale, rispecchino anche quelle nell’ambiente reale: tale assunto è stato confermato da uno specifico studio, condotto appositamente per la rilevazione internazionale. Lo studente risponde ai dialoghi, alle sollecitazioni ed ai comportamenti posti dai suoi colleghi, scegliendo tra quattro possibili opzioni. Le risposte date tracciano il profilo di competenza dello studente”.

Insomma, l’Ocse se la suona e se la canta, e alla fine tira le sue belle conclusioni. Oh, che pirla: e io che pensavo l’altro giorno — quando in una terza media ci siamo messi davanti a Ungaretti che in bianco e nero leggeva il suo “San Martino del Carso” — che il lavoro di analisi prima, di scrittura personale poi di un testo che rispondesse alla domanda: che paese sono io?; che la raccolta dei testi, la progettazione della loro presentazione ai piccoli futuri utenti della scuola in un prossimo open day potesse essere una cosa seria, problematica e collaborativa. No, dovevo fare un questionario con quattro domande, con quattro possibili risposte, impacchettare il tutto e dire che gli studenti italiani non sanno fare il problem solving. Osservare e registrare poi, ancora una volta, come fa l’autore del pezzo, che il sud sta indietro, che quelli ricchi stanno avanti, che quelli che stanno ore ai videogiochi arrancano e che addirittura quelli che faranno il liceo otterranno risultati migliori. Come dire: amici, abbiamo scoperto l’acqua calda.

Ma quello che è chiaro oggi, dopo l’indagine Ocse-Pisa è che se vogliono davvero fare qualcosa di buono nella scuola, oggi i legislatori sanno come fare, raccogliendo e facendo fruttare questi dati. Che sono però gli stessi, o quasi, se si escludono i videogiochi, che aveva Gentile quando ha fatto la riforma della scuola, o prima ancora di lui, quelli del governo Giolitti. Ma vuoi mettere oggi quali vantaggi abbiamo? Amici professori, amici legislatori, ammazzateli di compiti di realtà collaborativi, di finte casistiche virtuali, non lasciateli nell’ignoranza. Come accade per tutti i tipi di scuola ancora oggi, ma a quanto sembra, anche all’Ocse, non nel liceo. Che, è risaputo, è l’unico luogo in cui gli studenti hanno ore e giornate intere a disposizione per fare il problem solving collaborativo!

Via, non prendiamoci in giro: quelli del liceo sanno fare il problem solving collaborativo perché sanno cos’è un dato, cos’è un problema e un teorema, un’ipotesi e sanno risolvere operazioni con integrali e derivate, o tradurre Cicerone e Omero e si passano le versioni, le mettono in comune e ciascuno sa benissimo qual è il suo ruolo all’interno del gruppo. Così come quelli che giocano a pallanuoto hanno alle spalle grandi nuotate in vasche lunghe, solitarie e faticose. Via, non prendiamoci in giro, l’autore di quell’articolo sa bene e lo dice in un suo passaggio che le cose complicate non si risolvono semplicemente. E la scuola italiana è il problema più complicato che c’è in giro oggi in Italia, insieme all’attacco alla democrazia da parte dei poterissimi che giocano a delegittimare i partiti e la rappresentanza politica. Ma forse anche questo non lo risolveranno i professori e i legislatori italiani. Sarà un qualsiasi Ocse-Pisa a dirci quello che dovremo fare, sarà una qualsiasi autorità europea a imporci strategie e soluzioni.

Del resto come potrebbe essere altrimenti? Qui da noi non sappiamo fare il problem solving. Tanto meno quello collaborativo. A parte quelli che hanno fatto il liceo. Che, nonostante tutti gli attacchi concentrici — come quelli della grande finanza al popolo che ancora s’intestardisce a votare — continua a rimanere in piedi e a esserci invidiato. Ma durerà poco: orde di giovani virgulti allevati in università tre più due, in aule attrezzate con lim e pc, in corsi Tfa o simili, convinti a suon di dati e rilevazioni Ocse-Pisa, riusciranno ad imporre il problem solving sui banchi della scuola. E non ci sarà più sud e nord, non ci saranno più ricchi e poveri, né tecnici, professionali o liceali. Ma un’unica, indistinta e omologata armata di bravi interpreti del ruolo che il grande fratello, certamente straniero, avrà loro assegnato.

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I migliori maestri di “problem solving”? Omero e Ungaretti ultima modifica: 2017-12-06T06:19:03+01:00 da
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