Il dualismo italiano e la valutazione oggettiva al tramonto della maturità

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Astolfo sulla luna, 11.7.2017

– Ancora impegnato nel rito degli esami, mi accorgo improvvisamente della ratio che ha guidato governo e Fedeli nel disegnare il futuro Esame di stato. Premetto che non ho nessuna intenzione di commentare il progetto di riforma che è stato ampiamente descritto dai mezzi di comunicazione; dico solo che trovo quanto meno sospetto che la sua entrata in vigore sia stata rinviata, ufficialmente per dare tempo alle scuole di prepararsi, all’estate 2019. Soltanto, nel corso dell’analisi dell’attuale esame di Stato che mi accingo a compiere, appariranno alcuni modesti suggerimenti al legislatore.

Per condurre il ragionamento, mi rifaccio ad una riflessione dello scorso settembre, all’inizio dell’ormai concluso anno scolastico, quando preannunciavo l’introduzione del test Invalsi anche alla fine del ciclo di studi di secondo grado. Allora mi chiedevo se il gioco dell’ingente impegno finanziario nell’allestimento del test valesse la candela della congetturata valutazione del merito dei docenti, osservando che si stesse esagerando nella retorica della misurazione delle competenze tirando in ballo addirittura una  supposta promozione della cittadinanza grazie all’introduzione dei test medesimi.

Ora capisco che la logica dell’autopromozione ha conquistato il corpo docente, attraverso l’azione sistematica di lobbying che commissari interni ben organizzati compiono nei confronti di eterogenei membri esterni sotto gli occhi di presidenti attenti solo alla regolarità formale delle prove d’esame.

D’altronde è interesse diretto dei docenti, come di ogni altro lavoratore, conservare la propria occupazione, perciò, quale azione più opportuna se non quella di cercare di ottenere la valutazione migliore per i propri studenti?

Ma vediamo analiticamente come possa concretarsi tale azione promozionale.

In primo luogo, si tratta di largheggiare nei voti delle prove scritte al momento della correzione, complice il fatto che sempre meno tali prove vengono corrette collegialmente, in ciò aiutati dalla normativa che vieta di correggere gli scritti prima che l’ultimo di essi venga terminato. Ovvio che di regola avere un giorno a disposizione per classe nel quale correggere sei scritti (le prime due prove più le quattro che compongono la terza prova nelle tipologie a e b) spinge sei membri di una commissione a lavorare individualmente, con buona pace della fumosa distinzione in aree disciplinari. Ciò considerato, per impedire tale prassi la normativa dovrebbe concedere più tempo per la correzione delle più complesse prima e seconda prova (come accadeva quando fu introdotta questa formula d’esame); altrimenti dovrebbero essere adottate soluzioni più radicali, tipo eliminare una prova.

In secondo luogo, meglio in linea di massima concordare con i propri studenti gli argomenti su cui preparare la terza prova. Prendo in considerazione questo aspetto ora, anche se esso precede cronologicamente il primo, perché è probabilmente meno frequente e riguarda solo una parte dei docenti, che per ragioni diverse ritiene corretto procedere in tal modo. In ogni caso si tratta di una pratica di cui, per evidenti motivi, è difficile stimare la diffusione, ma che – per quanto verrà detto più avanti – non è escludibile a priori. La normativa, per evitare tale comportamento, si limita a prevedere la predisposizione di due terze prove per ciascuna disciplina, lasciando “al caso” la scelta della prova A o della prova B. Può valer la pena notare che ormai è consuetudine demandare tale scelta ai singoli docenti estensori della terza prova. Evidentemente un buon motivo, fra gli altri, per eliminare la terza prova dai futuri esami di stato.

Considerando la normativa vigente, il convergere delle due pratiche ha come obiettivo quello di far raggiungere almeno il punteggio di 40 nel totale delle tre prove scritte,  che – dati i 30 punti disponibili nel colloquio – permette ad un candidato con una carriera scolastica non disastrosa[1] di sperare in un “bonus” fino a 5 punti per “particolari meriti”[2]. È appena il caso di osservare che la previsione di questo “bonus” a discrezione della commissione d’esame, si presta ad attribuzioni piuttosto casuali: quali ulteriori elementi possono avere commissari esterni che non conoscono i candidati, aldilà dei buoni auspici dei non disinteressati membri interni, per evitare di rendere l’attribuzione di un bonus del tutto autoreferenziale rispetto a prove d’esame già soggette ad analitica valutazione? È come dare una valutazione della valutazione, una valutazione al quadrato, del tutto autoreferenziale, appunto.

Procedendo nell’analisi dell’azione promozionale da parte dei membri interni di commissione, le loro capacità organizzative a fronte di commissari esterni inevitabilmente eterogenei per provenienza e impostazione metodologica si rivelano nella gestione del colloquio: non è facile sintetizzare la varietà di comportamenti, atteggiamenti, ragionamenti tenuti dai docenti che valutano i loro maturandi in questa fase dell’esame. Essi vanno dal concordare ”sottobanco” col candidato in attesa le domande che gli verranno poste, all’allungamento della durata temporale del colloquio per la parte di propria competenza. La prima strategia sarebbe da considerarsi deontologicamente scorretta mentre la seconda appare del tutto legittima. Ciò che le accomuna è il tentativo di mettere in luce positivamente il proprio studente, nel secondo caso meglio se “di luce riflessa”. Da un punto di vista funzionale, vale a dire in relazione all’obiettivo di ottenere per i propri studenti la miglior valutazione possibile, le due strategie si equivalgono, nonostante in apparenza la prima sembri migliore: esse vanno però giudicate in relazione all’attribuzione del voto complessivo del colloquio. Si deve infatti partire dall’ipotesi che nessuno dei sei docenti che fanno parte della commissione d’esame possieda una conoscenza interdisciplinare, di tipo enciclopedico. Pertanto, a prescindere dalla reale attenzione che ognuno di essi può dedicare allo svolgimento del colloquio stesso, il giudizio sulle conoscenze e competenze dimostrate dal maturando in una certa disciplina è affidato al relativo docente. Teoricamente potrebbe darsi il caso in cui un dato docente padroneggi una disciplina “affine” (penso all’area disciplinare delle materie di indirizzo, per esempio diritto ed economia aziendale), tuttavia di regola egli non si permetterà di sollevare questioni di merito nel momento dell’attribuzione del punteggio. Tale prassi è confermata da un ragionamento molto diffuso in sede di selezione dei membri interni di commissione: considerando un docente che “ha due materie” (storia e filosofia, diritto ed economia politica), si tende ad escludere il caso in cui, in presenza di un commissario esterno poniamo di diritto, venga nominato come membro interno, in questo caso di economia politica, il collega omologo della scuola ospitante. Il ragionamento sottostante riguarda il disagio che verrebbe a crearsi fra un “controllore” ed un “controllato”. Dunque, se l’ipotesi appena avanzata regge, lo scopo del docente interno è quello di “mettere in mostra” il suo allievo: da qui il tentativo di far durare il più possibile la passerella alla “sfilata del sapere”.

A questo punto si deve considerare il ruolo dell’arbitro del gioco, il presidente di commissione: rappresenta ormai l’eccezione alla regola il caso in cui costui segua attentamente lo svolgimento del colloquio – magari ponendo qualche quesito – e contribuisca attivamente all’assegnazione del punteggio. A norma infatti egli si deve limitare a raccogliere le proposte di valutazione dei diversi docenti, cercando di farle convergere su un unico valore, in modo da ottenere la preziosa condizione di unanimità, che lo mette al riparo da possibili ricorsi. Nel caso di valutazioni divergenti, la nota procedura di messa al voto a partire da quella più alta, risulta già di per sé promozionale nei confronti del candidato. D’altronde, per non turbare il delicato equilibrio della commissione d’esame, nella situazione non infrequente di parità, il presidente tende a votare a favore del maturando; solo quando uno o più commissari esterni si prendono la briga di sollevare obiezioni riguardo alla performance del candidato e/o alla procedura di valutazione adottata oppure su altre questioni di forma o di sostanza, allora il presidente dovrà riconsiderare la sua posizione. Per semplificare ho ipotizzato che le due parti della commissione siano come due battaglioni contrapposti, uno a difesa del prestigio della scuola, l’altro alla ricerca di solide prove riguardo agli effetti sui singoli candidati di tale supposto prestigio: ovviamente sono possibili altri schieramenti, e può accadere  che per qualche candidato i commissari esterni manifestino maggior apprezzamento degli interni, ma nella media la configurazione tipica è quella ipotizzata.

Mi sono dilungato nell’analisi dello svolgimento del colloquio con lo scopo di evidenziare il fatto che l’apparente equilibrio nella composizione della commissione nella realtà rappresenta un buon punto di partenza per il candidato: nel caso al lettore resti ancora qualche dubbio, basterà che dia un’occhiata alle pagine di cronaca locale dei quotidiani di questi giorni, nelle quali sono riportati gli elenchi degli studenti maturi, con le foto dei “centini”. I docenti incaricati dell’orientamento in entrata esibiranno così un ottimo “biglietto da visita” per la scuola, possibilmente “personalizzato” a favore di un dato indirizzo di studi particolarmente innovativo.

A riguardo, pare che la commissione d’esame resterà invariata: a questo punto, considerata anche la redistribuzione dei punteggi prevista dal progetto di riforma[3], tanto vale tornare all’economica “soluzione Moratti” della commissione fatta in casa. Certo è che, a prescindere dalla futura composizione della commissione, gli studenti dovranno rinunciare al “bonus” in punteggio aggiuntivo accontentandosi di quello monetario che spetta loro in quanto diciottenni elettori.

Chiacchierando in questi giorni fra colleghi, ho trovato interessante l’opinione secondo la quale la sostituzione della terza prova con il quizzone nazionale priva le scuole della loro autonomia didattica, sancita da un decreto di venti anni fa. A parte il fatto che di qui al 2019 il ministero potrebbe affidare alle scuole l’elaborazione dei testi delle prime due prove, mi sembra esagerato etichettare come autonomia didattica la formulazione di quattro o cinque quesiti da 10 righe ciascuno[4]!

Termino queste tristi considerazioni facendo riferimento alla polemica dell’estate 2016 sul dualismo del nostro sistema scolastico, riportata nel mio articoletto del settembre scorso: è vero che nel nostro Mezzogiorno le scuole sono più avanti nell’applicare le tecniche di autopromozione descritte sopra, ma, se volessimo guardare un po’ più in la per scorgere la ragion d’essere di un sistema di istruzione, dovremmo guadagnare un punto di vista più elevato. Non sarà certo introducendo la prova nazionale Invalsi come requisito di ammissione alla maturità che le sorti del nostro sistema scolastico verranno modificate, spargendo qui e là qualche incentivo ad una classe insegnante ormai umiliata e deresponsabilizzata.

Per esempio si potrebbe cominciare a pensare il dualismo territoriale come risultato di un dualismo culturale; le due opere letterarie su cui si sono formate generazioni di italiani furono scritte prima dell’unificazione: perché dopo che è stata fatta l’Italia non si è riusciti a trovarne una terza che rappresentasse unanimemente il nostro popolo? Se l’unica memoria realmente condivisa fra gli italiani è la prima guerra mondiale, forse avremmo dovuto cercarla fra le tante opere che hanno descritto questo evento tanto celebrato, per metterla poi a fianco di Divina Commedia e Promessi Sposi. Tuttavia, in questa operazione dovremmo ricordarci che colui che guidò il nostro paese nelle scelte fondamentali dopo la seconda guerra mondiale, Alcide De Gasperi, visse la prima parte della propria vita da cittadino dell’Impero Asburgico e la seconda parte da oppositore del fascismo. E non dovremmo nemmeno dimenticare che alcune scelte del primo capo del governo repubblicano furono duramente osteggiate, mentre non fu adottata una soluzione che aveva caldeggiato, l’adozione di una forma di Stato federale, che meglio avrebbe interpretato le profonde differenze culturali allora esistenti nel nostro territorio.

Ma ormai viviamo in un pianeta globalizzato e tutti sono impegnati a soddisfare i propri clienti, nel nostro caso a maturarli a pieni voti, designandoli efficienti lavoratori ed eccellenti consumatori.

11 lug. 17

Astolfo sulla Luna


[1] Corrispondente ad un totale nel triennio di almeno 15 punti di credito scolastico, ad es. 4+5+6 ossia una media dei voti nello scrutinio finale intorno al 6 e mezzo;

[2] Quali ad es. una o più prove d’esame “brillanti”, una “fulgida” carriera scolastica e consimili;

[3] La carriera scolastica peserà per il 40 %, quasi il doppio di adesso, di conseguenza l’importanza delle prove d’esame verrà ridimensionata, in particolare il colloquio, il cui peso verrà ridotto di 1/3;

[4] Mi riferisco alla tipologia B, ma l’osservazione vale anche per la tipologia A, mentre non varrebbe per le tipologie E – analisi di casi, ed F – sviluppo di progetti;

 

 

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Il dualismo italiano e la valutazione oggettiva al tramonto della maturità ultima modifica: 2017-07-11T07:13:07+02:00 da
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