La scuola del terzo millennio ovvero che senso ha oggi insegnare?

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Astolfo sulla luna, 26.6.2017

– Peregrinazioni mentali di un insegnante medio.

Spiego subito il sottotitolo: appartengo alla media degli insegnanti, nel senso che non svolgo incarichi particolari nella mia scuola né altrove, non ho cariche istituzionali, semplicemente mi limito a cercare di fare bene il mio mestiere, che consiste fondamentalmente nell’in-contrare quotidianamente adolescenti del nostro tempo. In più, appartengo a quella fascia d’età che per tanti anni ha rappresentato l’età media del corpo docente nazionale.

A proposito, ero tentato nel titolo di chiedere se ha ancora senso insegnare, ma poi ho preferito una versione del quesito meno pessimistica, però più impegnativa. Mi scuso fin d’ora se non riuscirò a dare risposte soddisfacenti ma, come ho riscontrato nel mio mestiere, è molto più interessante e anche più divertente insegnare a fare domande che preparare a fornire risposte più o meno preconfezionate su un dato argomento. Sempre a proposito del titolo – ho imparato dai giornalisti che è il titolo che spinge a leggere – “la scuola del terzo millennio” è un titolo volutamente pretenzioso, mentre qui sotto si troveranno solo alcune riflessioni del tutto personali su come vedo io oggi la scuola e la nostra società, riflessioni che soprattutto per i giovani colleghi (ho svelato sopra la mia età anagrafica) potranno apparire datate, e me ne scuso.

Se non avete ancora perso la voglia di leggere, ecco la mia tesi: la crisi della didattica dell’economia è il cuore della crisi della scuola. La tesi viene argomentata in tre punti, a partire dalla constatazione che la scuola oggi non raggiunge più i suoi obiettivi che sono stati in passato soprattutto i seguenti:

  • formare la classe dirigente
  • dare una base professionalizzante
  • educare alla cittadinanza nazionale.

Le cause dell’incapacità da parte dell’istituzione scolastica di raggiungere tali obiettivi dipende da alcuni fattori concomitanti; io ne ho individuati tre:

  • la scolarizzazione di massa
  • lo svuotamento delle cosiddette discipline di indirizzo
  • la molteplicità delle “agenzie” formative.

So benissimo che ce ne sono molti altri, ma nella mia scelta e nell’ordine in cui li ho presentati sono stato suggestionato dalla simmetria che trovo fra gli antichi obiettivi della scuola e i suoi attuali fattori disgreganti: per la prima coppia di obiettivi/fattori sono debitore del’eccelso filosofo Friedrich Nietzsche, che tanti anni fa scrisse un meraviglioso libriccino sul futuro della scuola.

La seconda coppia di obiettivi/fattori è legata all’impatto della tecnoscienza sulla domanda di lavoro: nel nostro paese l’onda d’urto, manifestatati negli anni ’80 del secolo scorso, è diventata dirompente nei ’90; l’offerta si è rimodulata con un certo ritardo a tale mutamento, quando le famiglie – accorgendosi che l’istruzione tecnica non dava più sbocchi professionali – hanno voluto per i figli l’istruzione liceale che ora è di gran lunga il settore scolastico più importante. Vedendo la cosa dall’interno del mondo della scuola posso fare un paio di esempi: l’insegnamento di “elettrotecnica” negli ITI e quello di “ragioneria” negli ITC han dovuto cedere il passo alle applicazioni specialistiche di tali discipline nel settore industriale e/o d’ufficio, dalle macchine a controllo numerico ai software per la tenuta della contabilità.  Ora, in base ad una “legge economica” scoperta dagli economisti classici, l’investimento in tecnologia riduce per l’imprenditore la necessità di forza lavoro: di conseguenza, per continuare l’esempio, nel reparto dove ci volevano 10 periti elettrotecnici ora ne basta 1, mentre in ufficio si è passati da 15 a 2 ragionieri.

La terza coppia obiettivi/fattori è più complessa, e richiede una breve premessa storica con riferimento al nostro paese: dalla famosa frase abbiam fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani, pronunciata da un appartenente alla classe dirigente scolarizzata in uno stato preunitario, all’esclamazione finalmente l’azienda entra a scuola! che esce di bocca ai fautori della “buona scuola”, il paradigma formativo è radicalmente mutato, passando per decenni (si direbbe, per scomodare il grande Hobsbawm, un .. secolo breve) di assoluto predominio del modello gentiliano. Con i paradigmi formativi sono cambiati gli obiettivi “di cittadinanza” della scuola, intesa come istituzione dello stato preposta all’istruzione/educazione delle giovani generazioni.

Per l’oggi va ricordata la molteplicità di attori pubblici, privati o del “terzo settore” che a vario titolo “offrono” alle scuole progetti formativi, anche di ottima qualità, che di fatto contribuiscono all’educazione alla cittadinanza (che ora non è più solo nazionale, ma, all’insù, europea, planetaria, e, all’ingiù, regionale, locale; in una parola: plurale), o all’educazione sessuale, affettiva, sanitaria, alimentare, sportiva, socio-relazionale, religiosa, legalitaria, finanziaria, digitale, linguistica.. Sicuramente avrò dimenticato diversi ambiti di azione, ma il nesso è dimostrato: la scuola non è più in grado di formare nei giovani la coscienza di appartenere ad una comunità nazionale, forse perché gli “operatori scolastici” non ritengono più questo come un loro obiettivo, ma soprattutto perché sono in aperta concorrenza con altre “agenzie formative” che hanno scopi ben precisi.

Se siete arrivati fin qui, posso concludere l’argomentazione della mia tesi, esponendo il terzo punto, che riguarda la profonda crisi che attraversa la didattica della disciplina che insegno, l’economia politica; anche qui ho individuato tre aspetti, che elenco:

  • l’inefficacia dei tradizionali strumenti di politica economica
  • il distacco delle “nuove professioni” dai contenuti disciplinari
  • i conflitti strutturali insiti nella cittadinanza plurale.

Il primo aspetto riguarda l’incapacità mostrata dalla gran parte degli economisti di professione di “dare consigli” per uscire dalla crisi globale che si trascina ormai da dieci anni. Naturalmente il problema è profondo, a livello di analisi economica: le conseguenze sulla didattica sono di carattere derivato, e sono evidenti quando, a partire dalla terza classe, si iniziano a studiare le teorie economiche con l’intento di applicarle alla realtà, che però sfugge: per semplificare, mentre per certi versi essa risponde a teorie di stampo liberista, per altri versi si adatta a teorie interventiste e non è facile sapere in anticipo quale sarà l’evoluzione del sistema economico nel breve periodo. Di qui l’incertezza sugli effetti delle scelte di politica economica, incertezza che rimane anche dopo che essi si sono realizzati, vedi polemica sugli effetti dei “bonus” sulla distribuzione della ricchezza.

Il secondo aspetto è la diretta conseguenza del primo: non si parla qui della professione di economista, esclusiva di pochi “privilegiati”, ma dei mestieri “emergenti” del mondo della finanza; tramontata assieme a quella del ragioniere anche la figura del bancario, oggi si cercano promotori finanziari, analisti di mercato, consulenti per gli investimenti e una miriade di micro-specialisti per i quali non serve conoscere le teorie dell’oligopolio o della domanda globale, ma casomai alcune applicazioni di un modello di Tobin piuttosto che di Modigliani (nessuna parentela con il noto artista). Tanto quello che conta non è comprendere il funzionamento dei meccanismi socio-economici, quanto saper ricavare velocemente il massimo risultato da un preciso insieme di dati. Se si riflette un po’, questo sminuzzamento delle professioni economico-finanziarie è strettamente collegato a quel fenomeno già indicato a proposito del secondo fattore di crisi della scuola, l’irrompere della tecnoscienza nella struttura economica del nostro paese, ma in questo caso esso è enormemente amplificato dalla globalizzazione finanziaria e riguarda quindi tutto il pianeta.

Quanto infine al terzo aspetto, anch’esso dipende in un certo senso dal primo: bisogna però essere convinti che l’economia politica, nonostante la crisi in cui versa, serva ancora a capire il mondo. Ma non secondo il significato banale per cui tutto ha ormai un prezzo, bensì osservando che i modi di produzione condizionano ancora il livello di soddisfacimento dei bisogni essenziali; e questo avviene in qualsiasi parte del globo, nella metropoli avveniristica come nella campagna arretrata, nella megalopoli caotica come nelle colture supertecnologiche: i termini medi di questa proporzione corrispondono a quei 4/5 di umanità che versa in gravi condizioni di malnutrizione, gli estremi alla restante parte che può godere di un tenore di vita soddisfacente. Ora, il decennio di crisi globale che stiamo vivendo ha visto peggiorare gli indici di distribuzione della ricchezza, e ciò nonostante il mondo sia apparentemente connesso dalla rete informativa che lo avvolge. Sta in ciò infatti la profonda contraddizione del mondo contemporaneo, nel fatto che il ragazzino disperso nel Sahara può conoscere esattamente quello che succede ora a Milano o in qualsiasi altra città europea.

Ecco perché ritengo che l’economia politica, nonostante ciò appaia in contraddizione con quanto ho argomentato finora, abbia un enorme potenziale formativo, solo che non si perda di vista la sua originaria funzione, che era quella di aiutare a comprendere il mondo, non di insegnare un mestiere. Ciò necessita di un ripensamento sulla didattica dell’economia, sui modi con cui proporre ai giovani di oggi i contenuti economici, che sono fondamentalmente gli stessi fin da Adam Smith. Non ci sono ricette universali, chi ha buone idee le sperimenti, poi magari si potrebbero far circolare. Per quanto mi riguarda, è con questa consapevolezza che vado incontro ogni giorno ai miei studenti.

26 giu. ’17

                                                                                                                                 Astolfo sulla Luna

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La scuola del terzo millennio ovvero che senso ha oggi insegnare? ultima modifica: 2017-06-26T21:47:39+02:00 da
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