La scuola è a livello comatoso

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– Questa la diagnosi implacabile di Paolo Isotta, uno dei più lucidi intellettuali italiani. 
Avvitamento culturale e boom delle conoscenze scientifiche.

«Se ricordo la nostra precedente intervista di due anni fa? Rammento che venne bene. Ricordo che le dissi come il suo nome mi riportasse al grande filologo classico e dantista Ermenegildo Pistelli». Parlare con Paolo Isotta (Napoli, 1950), musicologo e critico musicale, è sempre una gioia, per la quantità dei rimandi culturali che scaturiscono dalla conversazione.

Dopo una lunga, esaltante ma anche burrascosa carriera sulle pagine del Corriere, dove le sue stroncature gli attirarono qualche antipatia, oggi Isotta si concede qualche articolo su Il Fatto quotidiano, che poi raccoglie nel suo blog paoloisotta.it.

Domanda. Isotta, prima di chiamarla, rileggevo appunto la nostra conversazione di due anni fa, dopo l’uscita di Altri canti di Marte per Marsilio. Una bellissima chiacchierata fra giornalismo, politica e cultura. Era tempo di rifarne un’altra.
Risposta. Eh, Tempora mutantur et nos mutamur in illis.

D. Oddio, lei comincia subito col caro latino: I tempi cambiano e noi cambiamo con essi
R. È Ovidio e lei ricorda quanto sia importante per me Ovidio.

D. Leggevo, in uno dei suoi ultimi articoli, che lei diceva di un attore con sarcasmo: «Certo, non si può pretendere che conosca Ovidio».
R. Di Ovidio quest’anno cade il bimillenario della morte, ma per questo grande poeta la Patria non ha fatto nulla, nul-la!

D. Forse arriverà un disegno di legge che istituisce l’Anno ovidiano, praticamente a tempo scaduto
R. Finora se la sono cavata con un convegno di filologi classici a Sulmona (Aq): han creduto di salvarsi l’anima così. Ma Ovidio ha avuto influenza enormi in tutta la cultura: mi accorgo che i libretti d’opera del Cinque, Sei e Settecento sono in gran parte cavati dalla sua poesia

D. Per non dire?
R. Per non dire di Bernini, con Apollo e Dafne, la più bella versione figurativa di un mito delle Metamorfosi. E la pittura? Tiziano e Carracci mutuano tantissimo dal Sulmonese. Mi sono messo a studiare il tema di Ovidio e la musica. Anzi, spero di riuscire a farne un «saggetto»: non lo ha fatto nessuno, tenterò io, in mancanza di chi sia più dotto di me.

D. Che cosa ci leggeremo?
R. Anche questo: Ovidio ha ricevuto la stessa errata valutazione da parte della critica che ebbe Gabriele D’Annunzio.

D. Un altro grande abruzzese.
R. Si disse infatti che fossero poeti «musicali ma non profondi».

D. E, viceversa, lo sono?
R. Vede, la musica del metro, del verso, il ritmo delle immagini, sono considerati quasi una colpa per un poeta. In realtà queste sono valutazioni che partono da un’incapacità culturale oltre che poetica, a capire questi due grandissimi. Ovidio è uno dei più grandi rielaboratori, ri-pensatori del mito che ci siano stati e ciò non è compreso da tutti. Rifondatore del mito in quanto tale. E dunque, anche poeta-filosofo. Allo stesso modo, D’Annunzio è un poeta il quale ha alle spalle cultura classica, talmente profonda, che non so quanti altri posseggano. Lo si è paragonato a Friedrich Hölderlin, ma la sua musica è ancor superiore.

D. Ovidio, l’abbiamo un po’ trascurato.
R. E perché Tito Livio, mi scusi? Quest’anno è il bimillenario della morte. Stiamo parlando di uno dei colossi della letteratura mondiale. E a Padova che cosa hanno fatto? E la Patria? Un francobollo? Non credo. Torno a una mia idea di sempre, che non è mia, ma di grandi che mi hanno preceduto.

D. Ossia?
R. Che se una nazione non ha la memoria storica è finita, in quanto nazione.

D. Dura sentenza.
R. Sono veramente desolato. E potrei fare un aggancio alla musica, che mi fa ripetere che per me è stata una fortuna, aver lasciato la critica musicale.

D. La fermo: e perché una fortuna?
R. Perché non potevo continuare ad andare a seguire e ascoltare cose che provocavano il mio disprezzo, la mia condanna. Alla fine, se lei non fa che dire che, questo e quello, sono fatti male, in maniera deplorevole, finisce col diventare un personaggio pittoresco. No, meglio non farlo più. Adesso ho la fortuna di poter studiare, leggere per diletto, e persino scrivere. In due anni il mio catalogo s’è assai incrementato, e fra pochi giorni esce un nuovo libro.

D. Le ho fatto fare una digressione, vada avanti.
R. Il discorso è parallelo: mai come in questo momento vedo massacrata la musica italiana. In Italia e all’estero, non molta differenza, ormai siamo al melting pot, e la questione è identica da noi, in Germania, in Gran Bretagna.

D. Massacrata in che senso?
R. Sono arrivato a 67 anni per capire che un direttore di orchestra, con una purché minima tecnica, se la cava con Wagner, Strauss, con Mahler, con molta musica del ‘900. L’asino casca con Beethoven, Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi, Puccini e con gli italiani del ‘900.

D. Questi autori sono la prova del nove?
R. Mai come questo momento, da parte di quasi tutti è massacrata lettera e spirito dei compositori italiani: del Seicento, del Settecento e soprattutto dell’Ottocento.

D. Che idea s’è fatto, Isotta?
R. Stiamo andando verso una specie inabissamento culturale. A cominciare dalla rovina della scuola. Ci sono fenomeni paralleli, di globalizzazione, che lo dimostrano. Ora, non sono un sociologo, uno storico della politica, non voglio fare il «tuttologo», ma vedo gli effetti. Per tentar di comprendere globalmente un fenomeno storico, Goethe conia il concetto di Zeitgeist, lo Spirito del Tempo.

D. Da cosa sono segnati i tempi che viviamo?
R. L’inabissamento culturale procede di pari passo con un incremento conoscenza scientifica.

D. Beh, almeno questo
R. Sì certo, quest’ultimo aspetto, potrebbe indurre a un po’ di ottimismo, e tuttavia le ricordo che i veri astri della conoscenza scientifica, da Galileo a Newton a Einstein, erano sommi umanisti. Per loro, l’incremento della conoscenza scientifica è un incremento della cultura tout court oltre che conoscenza scientifica settoriale. Io temo

D. Lei teme?
R. Temo l’incremento straordinario, e per certi versi meraviglioso, della scienza disgiunto dalla sua unità con cultura. Vale a dire: che così non sia poi fomite di un progresso generale.

D. La sento meno assertivo di qualche anno fa, Isotta, o mi sbaglio?
R. Le citavo Ovidio per quello, poc’anzi. Faccio fra poco 67 anni, come le dicevo. E comprendo vieppiù che, fra le grandi fortune che mi sono capitate, c’è quella di cambiare idea, di disdirmi.

D. Sulla scuola non mi pare che abbia cambiato idea.
R. Una catastrofe ormai spaventosa. Lei prenda un 30enne medio, di oggi: non ha il minimo senso della storia, ossia non sa cosa sia accaduto 20-30 anni fa. Io per fortuna ho smesso di insegnare, perché, dopo 2-3 minuti, vedevi la soglia di attenzione calare in maniera vertiginosa. Guardi, che è molto difficile a portare un 30enne a una elaborazione concettuale: i miei amici che insegnano all’università, che insegnano giurisprudenza, mi dicono che gli studenti di oggi non sono capaci non solo di comprendere il linguaggio del Codice, dei grandi testi di diritto, ma anche di svolgere il più semplice ragionamento per iscritto.

D. Di chi è la colpa?
R. Questo ci porta lontano, al Dopoguerra, quando le due grandi forze politiche, la Dc e il Pci, decisero che la scuola non dovesse essere più – secondo il loro linguaggio – nozionistica e selettiva. Da lì è cominciato tutto, dall’insegnamento praticato senza rigore e sempre più annacquato. Non so se, nell’altra intervista, le parlai di un figlio di amici, che seguivo?

D. Certo ci raccontò di Gaetanino, studente del classico, cui cercava di fare da precettore. Come è finita?
R. Che Tanino ha provato a fare Legge, ma poi ha rinunciato.

D. E dire che al liceo, lei ci disse, lo caricavano di compiti a casa.
R. Compiti inutili, coi quali gl’insegnanti si illudevano di sopperire alla loro incapacità. Ma non gli facevano leggere I Promessi sposi! Non vogliono la scuola nozionista, non vogliono la selezione ma, così ci rimettono le classi più deboli, perché quelle agiate, si capisce, in qualche modo si arrangiano. E dire che voleva fare il magistrato.

D. Che cosa farà?
R. Mi ha detto di volersi iscrivere a Psicologia. Una finta materia, che non esiste, il ricettacolo dei falliti. Esiste la Psichiatria, come branca della medicina: difficile, faticosa.

D. Sulla scuola, adesso, c’è un gran dibattito sugli smartphone, ha seguito?
R. Pistelli, non la sento (c’è effettivamente un grande abbaiare in sottofondo, ndr). Mi scusi ma è il mio bassotto Ochs, che, dal balcone, vede persone in giardino e le considera invasori del nostro territorio. Per lui è una lesione di status

D. Le stavo dicendo che il ministro Valeria Fedeli s’è detta possibilista circa l’uso degli smartphone in classe. Anche un suo concittadino, il professor Alfonso Scotto di Luzio, grande difensore del liceo classico, è insorto.
R. Anche io sarei un difensore del classico, se ce ne fosse ancora traccia. Ma, mi scusi, che cosa sono gli smartphone?

D. I cellulari che usano Internet.
R. Ah ecco. Su questo, ho un concetto. L’Internet è una cosa molto utile, per chi lo domini e lo sappia usare. E siamo in pochi. Se si diventa schiavi degli strumenti è pericoloso. E i ragazzi sono privi di spirito critico, temo che rinuncino alle forme autentiche di cultura, che restano i libri: da tenere in mano, da sfogliare, da divorare. Le faccio un altro esempio.

D. Prego.
R. Alla mia età e con la mia cultura, se leggo una voce della cosiddetta Wikipedia, mi posso accorgere di un errore. Un ragazzo se la beve per oro colato. D’altra parte, se ripenso a me 18enne, seppur per intelligenza e cultura superiore a un giovane di oggi, avendo potuto avere Wikipedia ne sarei stato dominato anch’io.

D. E dunque, che facciamo con gli smartphone a scuola?
R. Non saprei condannare il ministro Fedeli in maniera così recisa: c’è un notevole potenziale in questi strumenti ma per essere utile presupporrebbe uno spirito critico che l’adolescente, per sua natura, non possiede. Pensi all’adolescente odierno

D. Siamo già a parlare di politica e cultura. Rapporto decisivo, non le pare?
R. La cultura è una fondamentale guida alla comprensione del mondo è alla libertà. Chi la possiede può essere cittadino e non suddito. I rapporti fra i politici e gli uomini di cultura, sono altra cosa.

D. Vale a dire?
R. Per costituzione, il politico sente l’uomo di cultura suo naturale nemico, a meno che voglia fare il giullare o il servo. E questo lo si può vedere teorizzato in due fra i più grandi romanzi del Novecento: fra quelli a me più cari: Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov e La morte di Virgilio di Hermann Broch.

D. Certi intellettuali si compiacciono di servire la politica.
R. Su questo aiuta la vicenda umana di Leonardo Sciascia: ha attraversato formazioni politiche, ha cambiato idea molte volte, però c’era in lui, sempre, la ricerca della verità, appoggiata sopra un desiderio di libertà e una sterminata cultura, in lui cosa viva.

D. Fu nel Pci, da indipendente, e poi nei Radicali.
R. È sempre stato nemico del potere e il potere lo ha visto sempre come nemico, lo ha accettato finché gli serviva, o pensava gli servisse. Illuminante una sua paginetta, che ho letto recentemente, dedicata ai suoi rapporti con Sandro Pertini.

D. Celebratissimo presidente della repubblica.
R. Pertini invita Sciascia per sedurlo ma lo scrittore, tetragono, accetta di pranzare al Quirinale e porta il discorso solo e sempre su argomenti molto seri, lasciando cadere il resto. E questo infastidisce terribilmente Pertini.

D. Che al di là delle agiografie, qualche difettuccio ce l’aveva
R. Un egolatra, che aveva qualcosa di istrionico. E non sto a dirle qui cosa pensi di Giorgio Napolitano.

D. Suo concittadino.
R. Lasciamo perdere. Anzi, le dico una cosa che, qualche anno fa, non avrei neppure pensato: fu un male che Romano Prodi non fosse stato eletto capo dello stato.

D. Ah sì, e perché?
R. Perché Prodi veniva comunque dalla politica e, dinanzi al pericolo di forze demagogiche dell’antipolitica, avrebbe saputo essere più incisivo e potente.

D. Si riferisce al populismo?
R. Metto tutti assieme, Matteo Renzi, i Cinque stelle, lo stesso Luigi de Magistris qui a Napoli.

D. Anche Renzi?!
R. Renzi è effettivamente un po’ meglio. Ma partiamo dalla definizione storica: costoro vengono in qualche modo definiti tutti «populisti» ed è un errore. Il populismo fu una cosa precisa: nell’Ottocento in Russia, ebbe la luminosa missione di abolire la servitù della gleba. Questi sono demagoghi. I demagoghi fanno leva sui bassi istinti, si rivolgono alle frange escluse, illudendole.

D. Recentemente, su ItaliaOggi, lei ha definito Luigi Di Maio, fresco candidato M5s alla presidenza del consiglio, «studente intentato», anziché «studente fallito» per via della sua laurea mancata.
R. Di Maio sarà votato abbondantemente da quelli come lui, e non sono pochi.

D. Non passa giorno che qualche artista non timbri il cartellino del sostegno ai grillini, ultima è la cantautrice Gianna Nannini.

R. E poi c’è il rapper, come si chiama, Fedez. A Di Maio basterebbero i tatuaggi per essere come lui che, d’altronde, usa il congiuntivo come il vicepresidente della Camera. Ma siamo sempre lì

D. E cioè, dove, Isotta?
R. L’intellettuale pagherebbe per vendersi.

D. Bellissima.
R. Naturalmente non è mia ma di Gustave Flaubert. E alla fine l’intellettuale si vende per non ottenere quasi nulla. Bacia i piedi che lo calcano e calcheranno.

D. In 35 anni di lirica, chissà quanti personaggi librettistici le verrà di accostare alla politica.
R. Oh certo. La Tosca o Andrea Chenier ne forniscono di bellissimi.

D. Avanti.
R. C’è il Sacrestano della Tosca, per esempio, servile verso Cavaradossi, che odia e disprezza, ma finisce col farsi dare il canestro di cibo. Ma anche gli sbirri Spoletta e Sciarrone andrebbero benissimo, per i nostri tempi.

D. E in Chenier?
R. Beh, lì c’è l’Incredibile, che fa la spia. E quando lo chiamano spia, non si altera ma, freddamente, corregge: «Sono un osservatore dello spirito pubblico». Questo era quel genio di Luigi Illica, grande librettista.

D. Finiamo col ministro Dario Franceschini, che è un ministro della Cultura particolare, in quanto romanziere di un certo successo. Del suo ultimo libro stanno scrivendo meraviglie.
R. Glielo dicevo, pagherebbero per vendersi.

D. I recensori, lei dice. Ma di Franceschini che mi dice?
R. Mi fa tornare in mente Paolo Pietroni.

D. Grande giornalista e grande facitore di magazine, ma che c’entra?
R. Con lo psedonimo di Marco Parma, scrisse un romanzo, Sotto il vestito niente.

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La scuola è a livello comatoso ultima modifica: 2017-09-29T06:25:18+02:00 da
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