La scuola pubblica è più di una posta contabile

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di Pierfranco Pellizzetti,  Il Fatto Quotidiano  31.7.2015

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Di questi tempi, impancati maestri di laicità/laicismo, magari in tonaca o clergyman, ci hanno bacchettato dai loro pulpiti nel momento in cui si è manifestato apprezzamento per la sentenza della Cassazione che – sciogliendo il nodo dalla ben nota causa avviata dal Comune livornese – sanciva l’obbligo per le scuole private di pagare l’IMU e l’ICI; come tutti gli altri abitatori di questa penisola. Ovviamente, andando a colpire i privilegi ecclesiastici, appurato che in Italia tali istituti sono per due terzi dichiaratamente di matrice religiosa. Oltre che intraprese a scopo di lucro, in cui l’allievo risulta prima di tutto un ‘cliente’; e – come tale – titolare di diritti/aspettative che oltrepassano anche in sede didattica le dirette valutazioni sui meriti e le competenze – producendo il cosiddetto “effetto diplomificio”.

In sostanza, cosa ci dicono i maestri bacchettatori della nostra laicistica soddisfazione (seppure con giudizio: ci vuol ben altro per scalfire il predominio vaticano!): “cretini, vi siete fatti un autogol”. E poi argomentano che le cosiddette paritarie, grazie all’esercizio delle loro funzioni sul territorio, sgraverebbero lo Stato italiano dall’impegno finanziario di svariati miliardi.

A parte il fatto che con gli svariati miliardi che lo Stato italiano eroga ai rappresentanti sul territorio italiano di uno Stato estero (il Vaticano), nonché agli aiuti già concessi e in via di essere concessi al cosiddetto sistema paritario, hai voglia se potresti incrementare e valorizzare la presenza pubblica in ambito scolastico, oggi abbastanza alla canna del gas. Ma non è questo calcolo ragionieristico il vero cuore del problema. Per cui vale la pena di ricordare ai propugnatori di una presunta laicità “rettamente intesa” (oltre che a noi stessi) come nella difesa della primazia del pubblico nell’istruzione sia in gioco ben altro. Del resto, quanto i nostri padri costituenti avevano perfettamente compreso.

La scuola pubblica (o “repubblicana” che dir si voglia) è prima di tutto magistero di democrazia. In almeno due sensi:

  1. producendo effetti di avvicinamento tra i figli di classi sociali diverse, affinché possano riconoscersi uguali nel processo formativo e riconoscersi affini nel prosieguo della vita. La rottura delle barriere censuarie per interiorizzare fino dalla più giovane età quel principio di eguaglianza che le rivoluzioni liberaldemocratiche del Settecento posero a fondamento della società. Per questo non si rimpiange mai abbastanza il vecchio istituto del grembiule, strumento sanamente pareggiatore e freno alla follia esibizionistica dei brand come certificazione del privilegio e della distinzione attraverso il possesso;
  2. liberando già la prima costruzione della personalità dalle influenze che condizionano l’acquisizione di un pensiero critico attraverso gli influssi oscurantistici di pregiudiziali giustificative del sistema delle disuguaglianze e/o della naturalità dell’ordine vigente: il riferimento (religioso, ideologico o comunque post-secolare) a una sua presunta“naturalità” (Foucault parlava del “potere che si fa verità”). Ossia, “l’uscita dalla minorità auto-imposta” teorizzata daImmanuel Kant. Per cui non si criticherà mai abbastanza l’esposizione nelle aule pubbliche di simboli che fanno riferimento a qualsivoglia credenza imposta come “vera”.

Insomma, valori ben più importanti di qualsivoglia monetizzazione per la crescita civile di ragazzi e ragazze, per la qualità civica del nostro convivere.

Un grande pensatore liberale di fine ‘900 – John Rawls – denunciava gli effetti della “lotteria delle nascite” (le differenze in materia di capitale economico, culturale e relazionale che producono l’ingiustizia delle differenti posizioni di partenza senza averne né meriti né demeriti) come la sfida da affrontare per una società giusta.

Un messaggio su cui riflettere anche per chi confonde laicità con ragioneria contabile.

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