Ptof e Rav, scartoffie inutili o documenti da salvare?

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di Pierluigi Castagneto, il Sussidiario, 8.8.2017

Pare sia tornato di moda il curricolo e la strada per un’efficace didattica d’istituto, dopo la sbornia delle competenze, ha allungato il suo percorso.

Nella scuola statale italiana c’è molta differenza tra teoria e pratica. Anzi la lontananza tra la cosiddetta scuola di carta e la pratica quotidiana sembra essere siderale. Da una parte ci sono i documenti ufficiali che ogni istituto ha l’obbligo di redigere, dall’altra le pratiche didattiche, le lezioni, i recuperi, le valutazioni e tutto quello di cui è fatto un anno scolastico. Chiunque desideri conoscere la fisionomia di un istituto, deve leggere il Piano triennale dell’offerta formativa, indicato con il cacofonico acronimo Ptof, che mette nero su bianco le caratteristiche organizzative, didattiche e procedurali di ogni istituto.

Poi deve passare al Rav (Rapporto di autovalutazione), costituito da cinque sezioni (contesto e risorse, esiti, processi, autovalutazione, priorità) che in base a indicatori generali e tenuto conto della situazione socio- economica degli studenti cerca di valutare le pratiche didattiche, l’inclusione, la progettualità, le risorse umane e indica gli obiettivi da raggiungere. Un documento dinamico che avrebbe il compito di analizzare positività e negatività di ogni scuola. In particolare sembra di estremo interesse la sezione “processi”, che tocca il cuore del curricolo e dell’offerta formativa, la progettazione didattica, la valutazione degli studenti, l’ambiente di apprendimento, l’inclusione e la differenziazione, il recupero e il potenziamento, la continuità, l’orientamento e soprattutto la leadership educativa del dirigente scolastico, le sue competenze manageriali, la valorizzazione delle risorse umane, la vocazione della scuola sul territorio e i rapporti con le famiglie.

È però lecito chiedersi, chi tra i docenti di una scuola, dopo la compilazione e la pubblicazione del Ptof e del Rav, oltre ai pochi addetti ai lavori a cui spetta il compito della revisione annuale, abbia ripreso il testo e tentato di mettere in pratica le sue indicazioni. Il loro numero sembra esiguo e l’andamento didattico, anno dopo anno, riprende il suo corso, strutturato tra lezioni frontali, verifiche orali e scritte, consigli di classe, recuperi, medie dei voti e scrutini. I dirigenti hanno sempre molto da fare e l’aspetto didattico, in moti casi, scivola sempre in fondo alla lista delle priorità e in genere viene delegato al Collegio docenti, organo che discute, decide, ma che raramente sa mettere in pratica le deliberazioni.

Cos’è allora che non va? Innanzitutto il metodo. Questi documenti sono imposti alla classe docente per legge, per cui obtorto collo ogni dirigente, convinto o non convinto, scarica il compito a qualche docente che si incarichi della redazione. E una volta approvato, nella maggior parte dei casi viene messo nel cassetto, per essere ritirato fuori l’anno successivo allo scopo di revisionarlo e aggiornarlo. Bisogna sempre salvare la forma, per non farsi trovare inadempienti. Non è detto che non ci siano scuole e presidi, nel “mondo” Italia, che non siano zelanti e che non tengano in conto quanto scritto, ma come è noto in classe ogni docente è libero (e per fortuna) di agire didatticamente come crede. Le belle parole stanno là, nell’ufficio del dirigente, o archiviate nel server della scuola, la didattica in classe è sempre un’altra storia.

Come uscirne? Come fare in modo che i docenti di una scuola lavorino all’unisono, abbiano obiettivi formativi comuni, criteri di valutazione che superino lo stretto ambito disciplinare? È possibile che i collegi docenti, riguardo alla didattica, dicano qualcosa in più rispetto ai valori della cittadinanza, dell’inclusione e della scuola digitale? C’è una possibilità che si affermino buone pratiche, più adeguate ai nativi digitali, che hanno ormai perso il contatto con la lettura, asse portante della struttura culturale che ha generato la civiltà occidentale?
Non ci sono ricette facili, anche se alcune semplici azioni possono essere messe in atto. Innanzitutto cambiando il metodo: l’esigenza di modificare l’azione didattica deve partire dal basso, dalle aree disciplinari e dai dipartimenti, adeguatamente sollecitati dalla necessità di essere più incisivi con studenti che hanno le soglie di attenzione sempre minori, che hanno perso confidenza con la sintassi, la comprensione del testo o l’abilità di calcolo, che appaiono sempre meno scolarizzati.

Bisogne essere consapevoli che sono le esigenze a mettere in moto, non le leggi e i doveri. Alcuni istituti secondari, partendo dalle difficoltà di tanti ragazzi che spesso escono dalle scuole medie come un libro intonso, hanno ricominciato a lavorare sul primo biennio, sulla programmazione didattica, sugli obiettivi disciplinari, intermedi e finali. Si sono rimesse a tema le abilità trasversali, l’organizzazione dei recuperi e anche una precoce azione di riorientamento. Inoltre è stata messa sotto osservazione la valutazione, che secondo alcuni, soprattutto in prima, deve sì essere legata alle specifiche conoscenze disciplinari, ma necessita anche di tutti quegli obiettivi trasversali di cui è costituito l’apprendimento.

Insomma pare sia tornato di moda il curricolo e la strada per una efficace didattica d’istituto, dopo la sbornia delle competenze, ha allungato il suo percorso. Un modo concreto di rendere vivi e operativi i documenti come Ptof e Rav, altrimenti destinati all’oblio.

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Ptof e Rav, scartoffie inutili o documenti da salvare? ultima modifica: 2017-08-08T06:27:38+02:00 da
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