Siamo ossessionati dalle pensioni perché non crediamo più nel nostro futuro

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di John Barleycorn,  Linkiesta,   27.10.2017

– La polemica sull’allungamento dell’aspettativa di vita (e quindi del periodo in cui finire di lavorare) lo dimostra. Le pensioni degli anziani sono anche un paracadute sociale per giovani disoccupati, mantenuti dai nonni. Chi lavora spera di ritirarsi presto fregandosene delle generazioni future.

Ha ragione il direttore Cancellato quando dice che sotto elezioni l’Italia è governata da un “monoblocco conservatore”: il Partito dei Vecchi. Ma siccome la politica sfocia sempre più spesso nella commedia, si può dire che quanto più ci si avvicina alle urne, tanto più l’Italia sembra diventata il gigantesco set di “Andiamo a quel paese”, il gustoso film di Ficarra e Picone nel quale tutti si affannano alla ricerca spasmodica dell’unico, vero, definitivo, elisir di felicità: una buona e sicura pensione.

Siamo un Paese ossessionato dalle pensioni. Pensateci un attimo: lo “scandalo” provocato in questi giorni dal fatto che l’Istat ha certificato che l’aspettativa di vita si è allungata e per questo –secondo quanto prevede la legge, banalmente – si andrà in pensione più tardi, non è che l’ultimo capitolo di una lunga saga (ri-)cominciata in estate. A luglio per qualche giorno imperversò sui quotidiani il dibattito sul riscatto gratuito della laurea, nato da un coordinamento di giovani evidentemente ansiosi di avere certezze sul proprio destino pensionistico. Ed eravamo ancora sotto l’ombrellone quando a inizio agosto Sacconi e Damiano, da opposti schieramenti, proposero un rinvio dell’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, proposta che all’epoca il governo ebbe la forza di bloccare sul nascere, col vice ministro Morando che saggiamente sottolineava che la priorità andava data al lavoro giovanile. Ma non facevamo in tempo a tirare un sospiro di sollievo che subito si avviava una nuova querelle. Ottima cosa se in manovra destiniamo le poche risorse che abbiamo ad aiutare i giovani, ma bisogna tener conto anche degli anziani. Ed è così che se il Governo studiava forme di decontribuzione per il lavoro giovanile (una misura che gira e rigira ha anch’essa a che fare indirettamente con le pensioni), il PD chiedeva che allo stesso tempo si garantissero risorse anche agli anziani (che ricordiamolo, furono i principali beneficiari delle risorse delle manovre del 2015 e del 2016).

Ecco quindi che da quando ci siamo lasciati alle spalle gli anni più bui della crisi finanziaria pian piano si è fatta strada questa ossessione ogni volta che si parla di politiche economiche. Ma perché? A nostro avviso, vi sono diverse risposte, tutte plausibili, alcune forse più superficiali, altre meno. La risposta più ovvia: siamo un Paese che invecchia rapidamente e inesorabilmente. Se nel 2002 l’indice di vecchiaia (ovvero il rapporto tra ultrasessantacinquenni e giovani sotto i 15 anni) ci diceva che c’erano 131 anziani ogni 100 giovani, nel 2017 il rapporto è passato a 165. È quindi comprensibile che la politica tenga conto degli interessi e delle esigenze di una fascia di elettorato sempre più rilevante.

In un Paese con elevata disoccupazione giovanile e un sistema inefficace di formazione e inserimento nel mercato del lavoro, ci si aspetterebbe che i giovani avvertano altre urgenze. Ampie fasce della popolazione più giovane vivono nell’insicurezza e cercano certezze economiche in un mondo che proprio non ne può dare. Senza contare la funzione di paracadute sociale che le pensioni degli anziani di oggi svolgono per giovani disoccupati o con lavori precari. Una sorta di reddito di cittadinanza, insomma, per chi ha la fortuna di avere dei nonni in vita, molto iniquo (per i nonni e per chi non ce li ha) e inefficiente.

L’invecchiamento della popolazione però non spiega perché mai in Italia anche i giovani siano così interessati al dibattito sulla pensione. In un Paese con elevata disoccupazione giovanile e un sistema inefficace di formazione e inserimento nel mercato del lavoro, ci si aspetterebbe che i giovani avvertano altre urgenze. Ecco quindi che una seconda risposta al nostro quesito viene dall’insicurezza di ampie fasce della popolazione più giovane e dalla ricerca di certezze economiche in un mondo che proprio non ne può dare. C’è poi un ulteriore elemento ed è nella funzione di paracadute sociale che le pensioni degli anziani di oggi svolgono per giovani disoccupati o con lavori precari. Una sorta di reddito di cittadinanza, insomma, per chi ha la fortuna di avere dei nonni in vita, molto iniquo (per i nonni e per chi non ce li ha) e inefficiente.

Infine, l’ultima spiegazione, quella che forse racchiude anche le altre e che dovrebbe forse allarmarci, è che se si parla di pensioni, vuol dire che il Paese ha smesso di credere nel proprio futuro. Se gli elettori, e quelli giovani in particolare, invece di chiedere alla politica investimenti o politiche per favorire l’occupazione, rivendicano soltanto risorse di tipo assistenzialistico, vuol dire che hanno smesso di investire nella propria carriera lavorativa. Più semplicemente, sperano di arrivare a una pensione dignitosa, senza chiedersi come sarà il mondo tra qualche anno e cosa lasceremo alle future generazioni. Tutto ciò mentre al di fuori della nostra anziana Italia è in corso un grande dibattito su come immaginare nuovi mestieri e occupazioni nell’epoca dei robot e quali saranno le competenze necessarie per svolgerli. E’ un dibattito che parte dalle scuole, mettendo addirittura in dubbio il paradigma che tutti debbano avere un’istruzione elevata, per arrivare alle implicazioni in termini di tenuta delle nostre democrazie liberali di economie fondate sulla tecnica, con bassa crescita economica e distribuzione diseguale dei suoi frutti.

Ma di tutto ciò in Italia non si parla. Ci si trastulla con il Consultellum o con le elezioni in Sicilia. E allora hanno ragione Ficarra e Picone: forse è meglio se “andiamo a quel Paese”.

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