Un lucido attacco alla libertà d’insegnamento: sul piano di formazione obbligatoria dei docenti italiani

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di Giovanni Carosotti, Roars, 28.10.2016

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– Il documento pubblicato dal MIUR il 3 ottobre scorso, intitolato «Piano per la Formazione dei Docenti 2016 2019» è destinato a stravolgere nei suoi fondamenti la professione docente, e rappresenta l’atto conclusivo di un processo di delegittimazione della stessa. Un documento la cui pericolosità sta nell’annullare in via definitiva la libertà d’insegnamento ancora garantita dalla Costituzione, un proposito mascherato nel documento da una serie di argomentazioni retoriche e pseudo scientifiche. Innanzitutto, l’intero bagaglio culturale professionale guadagnato dai docenti in servizio in decenni di carriera viene considerato inservibile rispetto alle presunte nuove finalità dell’istruzione. Per esempio, in merito all’ambito dedicato alla educazione digitale, il documento sostiene che l’utilizzo del mezzo informatico sia più importante degli stessi contenuti disciplinari. Oppure, per quanto riguarda l’area linguistica, corsi vengono  intesi quali propedeutici alla metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning), una inconsistente pratica che riduce il sapere disciplinare a puro pretesto per acquisizioni lessicali di dubbia utilità. È previsto un asfissiante sistema di controllo: quanto appreso attraverso i corsi dovrà essere immediatamente attuato (e tale attuazione andrà in qualche modo verificata) nella pratica didattica quotidiana. La carriera dei Dirigenti Scolastici, la loro possibile rimozione o sanzione, passerà dalle loro capacità di imporre al proprio corpo docente tutte le prescrizioni volute dal ministero. Se un Dirigente dovesse scegliere un docente di Storia e Filosofia, o di Matematica e Fisica, sarà tenuto a motivare la sua decisione non a partire dalle competenze disciplinari, bensì dalle certificazioni linguistiche e informatiche, o da altre priorità suggerite nel piano.

Il documento pubblicato dal MIUR il 3 ottobre scorso[1], intitolato «Piano per la Formazione dei Docenti 2016 2019», finalizzato a rendere la formazione un diritto-dovere, ovvero un’attività obbligatoria per qualsiasi insegnante, rappresenta sicuramente l’atto finale –o comunque il più significativo- riguardo la volontà di concretizzare in tempi rapidi quanto previsto dalla Legge 107; e di rendere allo stesso tempo irreversibile tale mutamento. Il documento è destinato a stravolgere nei suoi fondamenti la professione docente, e rappresenta l’atto conclusivo di un processo di delegittimazione della stessa, come del resto testimoniano le brutali dichiarazioni del ministro Giannini[2]. Delegittimazione resa tanto più efficace dall’immobilismo della categoria, a seguito dello scoramento seguito all’approvazione della legge attraverso il voto di fiducia, nonostante l’ampio schieramento contrario dei docenti. Tale sentimento ha fatto perdere forse l’ultima occasione, lo scorso anno, per difendere un modello d’istruzione fondato sulle centralità della cultura e delle discipline, attraverso la creazione di una rete dal basso che si opponesse alle linee guida dei vari decreti attuativi e concordasse principi condivisi nella scrittura dei diversi PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa). Principi alternativi alla fantomatica “didattica delle competenze”, al centro dell’ultimo sconvolgente provvedimento.

La cui pericolosità sta nell’annullare in via definitiva la libertà d’insegnamento ancora garantita dalla Costituzione. Questo proposito, evidentemente di assoluta gravità, viene mascherato nel documento da una serie di argomentazioni retoriche e pseudo scientifiche, che dei lavoratori intellettuali –quali ancora sono gli insegnanti- non dovrebbero fare fatica a smascherare. Entriamo direttamente nel merito e cerchiamo di comprendere l’orwelliano sistema di controllo sull’attività docente previsto dal piano. Innanzitutto –e questo è forse uno degli aspetti più eclatanti – il documento propone un attacco alla categoria senza mediazioni, dimostrando di essere consapevole dell’azione di forza che è in grado di scatenare su dei lavoratori disorientati: l’intero bagaglio culturale professionale guadagnato dai docenti in servizio in decenni di carriera viene considerato inservibile rispetto alle presunte nuove finalità dell’istruzione. Il documento stabilisce infatti diverse aree di intervento sulle quali è necessario investire per rinnovare la professionalità docente: la didattica per competenze, le competenze digitali, le competenze linguistiche in vista dell’acquisizione della metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning), la didattica dell’inclusione, le attività organizzative, gli obiettivi relativi all’educazione alla Cittadinanza e, in particolare, alla Cittadinanza globale, l’Alternanza scuola-lavoro, nonché la Valutazione, da declinare però rispetto agli ambiti di cui sopra. Come si nota, non c’è alcun riferimento alle discipline insegnate, di cui si dichiara l’irrilevanza[3], così come la loro riduzione strumentale all’acquisizione di metodologie e competenze di ordine generale. Questo è il motivo per cui il concetto di «formazione» viene esplicitamente opposto a quello di «aggiornamento»[4]. Quest’ultimo infatti sarebbe finalizzato al miglioramento ulteriore di una professionalità maturata negli anni attraverso lo studio della propria disciplina; la prima invece indica un dover “ricominciare da capo” da parte dei docenti, un resettare completamente la loro disposizione intellettuale, per imparare a fare tutt’altro.

Rispetto a tali ambiti, il concetto di Didattica delle competenze assume un ruolo centrale, perché piega a sé tutti gli altri (di per sé il riferimento all’educazione alla cittadinanza, o quello all’inclusione, potrebbe sembrare ragionevole, ma il suo approccio attraverso il criterio delle competenze ne cambia definitivamente i contenuti). Per esempio, in merito all’ambito dedicato alla educazione digitale, il documento non auspica un’acquisizione da parte dei docenti delle tecnologie informatiche più avanzate, da adottare liberamente nelle situazioni ritenute più opportune; ma sostiene che l’utilizzo del mezzo informatico sia più importante degli stessi contenuti disciplinari, destinato a cambiare il paradigma della comunicazione pedagogica[5]. Oppure, per quanto riguarda l’area linguistica, agli insegnanti non viene proposta la frequentazione di un corso di lingue per poter accedere a contenuti importanti inerenti la loro disciplina: tali corsi vengono invece intesi quali propedeutici alla metodologia CLIL, una grottesca quanto inconsistente pratica che riduce il sapere disciplinare a puro pretesto per acquisizioni lessicali di dubbia utilità[6]. Ancora sconvolgente è il tono da ricatto morale relativo all’ambito dell’inclusione, un tema eticamente sensibile su cui gli insegnanti si interrogano e si attivano in modo assai problematico, laddove è effettivamente possibile riuscire a far guadagnare positivi contenuti culturali attraverso strategie compensative e alternative efficaci. Nelle righe del documento si nota in modo evidente quanto questo tema, piuttosto che essere valorizzato in sé, diventa strumento per costringere al cambiamento della metodologia didattica nel segno delle competenze, con la scusa che l’attuale approccio sarebbe discriminatorio e quindi negatore di diritti. Per cui le misure compensative non diventano strategie individualizzanti rivolte ad accogliere e a risolvere specifiche problematiche, quanto modalità di lavoro da estendere all’intera popolazione scolastica[7], con un pesantissimo arretramento dei contenuti culturali, delle possibilità d’impegno e di applicazione.

La centralità delle competenze, fondamento di un imperativo assoluto che impone il rinnovamento gestaltico delle tecniche d’insegnamento, delegittima il documento sul piano epistemologico, nel momento stesso in cui vorrebbe presentare i suoi contenuti come il risultato di ormai definitive acquisizioni scientifiche.
Come si sa, la “didattica delle competenze” è da decenni contestata dalla migliore letteratura pedagogica e denunciata per la mancanza di fondamenti certi, a partire dalle acquisizioni dello stesso cognitivismo (una serie di teorie scientifiche concorrenti dalle quali risulta impossibile far scaturire una strategia didattica coerente). Il documento –come però tutta la letteratura dello stesso tenore- ignora totalmente queste autorevoli obiezioni, come se non esistessero. Ben altro tenore e validità avrebbe avuto, se avesse contestato nel merito tali posizioni critiche, citandole e facendo emergere, in questo contraddittorio, l’attualità e la validità dei propria assunti. Non poteva farlo: perché si tratta di presupposti pseudo-scientifici, ad alto contenuto ideologico, la cui legittimità può fondarsi unicamente sull’ignorare in modo voluto i dati falsificanti e presentando se stessa secondo una strategia comunicativa assolutamente autoreferenziale.
Il linguaggio del documento è, come i tutti i precedenti relativi alla cosiddetta «Buona Scuola», volutamente ostile a qualsiasi cedimento intellettuale. Vi prevalgono gli anglicismi, gli acronimi, le formulazioni ad effetto prive di effettivi rimandi empirici e completamente estranee a qualsiasi concreta esperienza di insegnamento in classe. Non prevedendo contraddittori, il documento elabora teorie, metodologie e pratiche avviluppandosi su se stesso a partire da presupposti inesistenti, che pretenderebbero essere il risultato indubitabile della più innovativa scienza cognitiva.

Tale astrattezza non implica però l’impossibilità di realizzare un’azione invasiva sull’attività dei docenti; il documento prevede infatti un asfissiante sistema di controllo, destinato a pesare sull’azione didattica quotidiana. Apparentemente si dichiara che la libertà d’insegnamento non verrà minimamente compromessa; nello stesso tempo, essa deve tenere conto di alcune necessità e priorità assolute del nostro paese –di carattere principalmente economico e riferentesi all’ambito lavorativo- che obbligano a ripensare radicalmente le stesse finalità dell’insegnamento: manco a dire, le competenze digitali e quelle linguistiche. Senza però spiegare il motivo per cui l’acquisizione di tali competenze debba comportare un mutamento drastico di paradigma nella metodologia didattica[8]. Da tali necessità deriverebbe la scelta delle aree cui abbiamo fatto cenno: a custodire severamente tale patrimonio formativo e a verificarne l’attuazione saranno gli Uffici Scolastici Regionali. Le scuole dovranno organizzarsi in reti, a capo delle quali ci sarà una «scuola polo» che presiederà all’organizzazione di corsi relativi a tutte le aree. Le singole scuole, per ogni ambito, dovranno programmare la partecipazione di un numero definito di docenti partecipanti il cui compito –è ipotizzabile- sarà poi quello di formare a loro volta i colleghi del proprio istituto. Altro strumento di controllo avverrà attraverso i Dirigenti Scolastici; il documento in esame fa solo un breve cenno ai criteri di valutazione dei DS ormai in atto, cenno che potrebbe sfuggire, ma che è di vitale importanza. La carriera dei Dirigenti Scolastici, la loro possibile rimozione o sanzione, passerà dalle loro capacità di imporre al proprio corpo docente tutte le prescrizioni volute dal ministero. Non tanto quindi un «Preside padrone», quando un soggetto sul quale esercitare una forte pressione affinché con rigore imponga le nuove metodologie didattiche volute dal MIUR.
Si parla poi di un monitoraggio diretto sui docenti, nell’idea che quanto da loro appreso attraverso i corsi dovrà essere immediatamente attuato (e tale attuazione andrà in qualche modo verificata) nella pratica didattica quotidiana. Nulla di più è detto, ma è probabile che gli insegnanti dovranno dimostrare, ad esempio, di realizzare frequenti laboratori, di far elaborare mappe concettuali o Power Point ai loro alunni sui diversi argomenti del programma, di ridurre conseguentemente al minimo la lezione frontale[9], e su tali aspetti condurre la valutazione (le attuali modalità di valutazione delle conoscenze[10] e delle capacità conseguite grazie a queste ultime non sono previste). Tutto ciò dovrà essere riportato su un documento digitale (il «Portfolio del docente») che ne costituirà il curriculum, e in cui già ora possono inserirsi le passate esperienze professionali, culturali e di formazione. Tale documento, decisivo dunque per il controllo della didattica individuale di ogni insegnante –ben più dei possibili riconoscimenti di alunni o genitori- viene presentato come un’opportunità di valorizzazione di sé rispetto all’uniformità antimeritocratica che regnerebbe nella scuola pubblica. Non a caso, il documento mette direttamente in relazione tale portfolio con la principale novità della Legge 107 (essa stessa in sé capace di minacciare la “libertà d’insegnamento”), ovvero la «chiamata diretta» dei docenti da parte del Dirigente Scolastico. Tale portfolio garantirebbe l’interesse delle due parti perché realizzerebbe un incontro virtuoso tra «domanda e offerta». Peccato che l’offerta dei migliori insegnanti non coinciderà mai con la domanda; perché il loro sapere pregresso (competenza disciplinare, magari arricchita da dottorati, pubblicazioni; anzianità ed esperienza di servizio, riconoscimento personale di alunni e genitori che nessuna prova INVALSI sarà in grado di certificare) non servirà più a nulla, non farà parte di ciò che i Dirigenti Scolastici saranno obbligati a richiedere in base alle imposizioni ministeriali, sotto lo sguardo vigile dei vari USR. I docenti dovranno abbandonare l’approfondimento e lo studio delle loro discipline, dedicarsi a diventare bravi informatici o competenti in lingua straniera –anche se insegnano latino e italiano-, nella preoccupazione che, senza tali certificazioni, potrebbero perdere il loro posto o essere trasferiti in una delle scuole della rete più distanti dalla loro sede (l’ambito territoriale e la rete non sono stati concepiti in vista di una collaborazione dal basso, ma potenzialmente per gestire in modo autocratico l’organico). Se un Dirigente dovesse scegliere un docente di Storia e Filosofia, o di Matematica e Fisica, sarà tenuto a motivare la sua decisione non a partire dalle competenze disciplinari, bensì dalle certificazioni linguistiche e informatiche, o da altre priorità suggerite nel piano[11]; un bravissimo docente esperto, con minori certificazioni, rischierebbe di essere sostituto.
Al di là delle legittime preoccupazioni personali dei docenti, gli effetti nefasti sulla preparazione intellettuale delle future generazioni, il loro essere totalmente private di qualsiasi possibilità di sviluppare il pensiero critico, ed anche la loro possibilità di essere effettivamente competitivi nel mercato globale, è facilmente immaginabile.

Difficile pensare strategie di resistenza. Bisognerebbe ricostituire una rete dal basso, concordare fra quanti più collegi docenti possibili una linea didattico-culturale comune da far approvare in contrasto con le linee di questo documento e della intera Legge 107. Facendo altresì pressione sulle rispettive organizzazioni sindacali di appartenenza, affinché non si appassionino solo all’aspetto contrattuale dell’orario, ma difendano nello specifico la professionalità docente. Tre punti essenziali potrebbero essere deliberati dai Collegi e, soprattutto, precisati nel PTOF:

  1. mantenere un’alta percentuale di corsi di aggiornamento dedicati allo specifico disciplinare;
  2. pretendere che i formatori tengano le loro lezioni a scuola e non seguire i corsi on line. Ciò permetterebbe di interloquire criticamente con formatori non preparati, incalzandoli sui fondamenti delle loro nozioni, e rendendo di nuovo protagonista a scuola l’onestà intellettuale;
  3. cercare il più possibile di organizzare corsi di formazione con personale interno, in coerenza con le linee culturali del proprio PTOF.

Questa strategia di resistenza presuppone un ampio dispendio di tempo, ben al di là dell’orario di lavoro dei docenti. Poiché però tale quadro orario è già alterato da una serie di attività cui gli insegnanti sono di fatto obbligati, e che poco hanno a che vedere con la didattica, un sacrificio per rivendicare la dignità professionale e intellettuale dei docenti italiani diventa auspicabile.

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[1] Il documento è leggibile al seguente link: http://www.orizzontescuola.it/wp-content/uploads/2016/10/pianoformazione3ott-161003140622.pdf

[2] Formazione. Giannini: docenti a lezione per imparare nuovi metodi didattici, in http://www.orizzontescuola.it/formazione-giannini-docenti-a-lezione-per-imparare-nuovi-metodi-didattici/

[3] «Tali inserimenti vanno accompagnati da una specifica attenzione formativa, che vada oltre le conoscenze disciplinari e che sia orientata alla preparazio­ne di figure di docenti con particolari funzioni che sono correlate a “profili professionali”», a pag.27 del documento.

[4] «Il senso e la cura della propria formazione in servizio, come previsto dalla legge 107/2015, non possono essere interpretati come una generica e ripetitiva “partecipazione a corsi di aggiornamento”, spesso caratterizzata solamente da iniziative frontali, talvolta anche non connessi con le pratiche scolastiche», a pag. 12 del documento.

[5] «L’informatica, quindi, non sarà una materia a sé stante, ma integrata negli insegnamenti e che riguarderà tutti gli insegnanti», in http://www.orizzontescuola.it/formazione-obbligatoria-tutti-i-docenti-dovranno-insegnare-informatica-il-piano/ .

[6] Mi permetto di segnalare in proposito un mio intervento esplicitamente dedicato al tema: G.Carosotti, La Buona Suola è quella italiana?, in L‘Acropoli, 3\maggio 2015, pp.299-310. Molto efficace l’intervento sul Corriere della Sera, 27 gennaio 2016, di Adolfo Scotto di Luzio, Lo sforzo autolesionista di demolire la nostra lingua.

[7] «essere capaci di fronteggiarla [la disabilità, n.d’A], disponendo di adeguate competenze nelle strategie didattiche inclusive, risponde non solo ai bisogni degli alunni disabili o con Disturbi Specifichi di Appren­dimento, con altre difficoltà o disturbi evolutivi e con svantaggio sociale e culturale, ma innalza la qualità dell’apprendimento di tutti gli alunni. L’obiettivo quindi è ripensare la progettazione curricolare come flessibile e aperta a differenti abilità, attenta all’accrescimento di competenze com­plementari sviluppate che concorrono al percorso educativo personalizzato degli studenti», a pag. 38 del Documento.

[8] Sull’incosistenza e strumentalità in merito a tali valutazioni di ordine economicistico, rimando a Anna Angelucci, OCSE PISA e INVALSI: una prospettiva europea, al link http://www.roars.it/online/ocse-pisa-e-invalsi-una-prospettiva-europea/ .

[9] A tale proposito, il ministro ha dichiarato: «Ancora troppi docenti applicano il vecchio modello di insegnamento: io sto in cattedra, spiego e voi ascoltate»; cfr. http://www.tecnicadellascuola.it/item/24374-formazione-obbligatoria-giannini-i-docenti-tornino-a-scuola-basta-col-modello-io-spiego-voi-ascoltate.html

[10] Tra i tanti interventi, scegliamo quello di Salvatore Settis, al seguente link: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/07/salvatore-settis-la-buona-scuola-non-e-buona-e-le-competenze-non-servo/29179/

[11] Riportiamo, a titolo di esempio, un passo tratto da pag.30 del documento, dove vengono descritte le parole chiave delle nuove competenze sui cui i docenti dovranno informarsi: «passaggio dai modelli di certificazione delle competenze alla programmazione “a ritroso”; progressione degli apprendimenti; compiti di realtà e apprendimento efficace; imparare ad imparare: per un apprendimento permanente; metodologie: project-based learning, cooperative learning, peer teaching e peer tutoring, mentoring, learning by doing, flipped classroom, didattica attiva; peer observation; ambienti di apprendimento formali e informali; rubriche valutative.»

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Un lucido attacco alla libertà d’insegnamento: sul piano di formazione obbligatoria dei docenti italiani ultima modifica: 2016-10-29T18:18:27+02:00 da
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