Arturo Marcello Allega, ItaliaOggi 29.3.2016
– La validità dei percorsi lavorativi rischia di essere una chimera e di disorientare ragazzi e genitori.
L’alternanza scuola-lavoro per essere reale richiede la contestuale presenza delle seguenti due proprietà: quella quantitativa e quella qualitativa (e non sempre le due caratteristiche viaggiano insieme, spesso invece, l’esagerazione della prima penalizza la seconda). Con i grandi numeri coinvolti di studenti, circa 500 mila solo per l’anno in corso, e aziende dalla legge n. 107/15, la seconda potrebbe soccombere rispetto alla prima. Nel senso che le scuole saranno costrette ad accettare ripieghi obbligati per far fare esperienze lavorative ai propri studenti, come la collaborazione con “Peppe lo zozzo” (pizzaiolo vicino la scuola) o considerare l’uso di un cronometro professionale, in una corsa al parco, attività lavorativa. In questo modo si rischierebbe di generare una gran confusione sia nello studente che nel genitore, in merito alla “cultura del lavoro” che passerebbe attraverso le vie dell’istruzione.
Per garantire un minimo di qualità, la struttura dei percorsi di alternanza dovrà essere organizzata nel seguente modo (le % sono indicative e ovviamente dipendenti dal percorso costruito in alternanza): 60% a scuola con la flessibilità in orario curricolare dove ogni disciplina si occuperà delle correlazioni con i propri contenuti del percorso progettato; 20% in azienda con attività specifiche ed, infine, il restante 20% presso strutture affini per conoscere il funzionamento di altre realtà o a convegni o in seminari dedicati. Percentuali a cui si arriva attraverso le buone pratiche fatte, ma su cui il ministero nulla dice nelle linee guida e neppure nel decreto sui diritti-doveri degli studenti in corso di emanazione (si vedano le anticipazioni di ItaliaOggi di martedì scorso).
Si ricorda che la Guida Operativa del Miur, al capitolo 5, definisce il partner dell’alternanza superando la nozione ristretta di azienda: Imprese e rispettive associazioni di rappresentanza; Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; enti pubblici e privati, ivi incluse quelli del terzo settore; ordini professionali; musei e altri istituti pubblici e privati operanti nei settori del patrimonio e delle attività culturali, artistiche e musicali; enti che svolgono attività afferenti al patrimonio ambientale; enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni.
In un istituto tecnico o professionale si tratta di circa 133 ore annue (secondo la ripartizione appena fatta, si tratterebbe di, circa, 80-27-26, modulabili secondo il percorso che, ad esempio, potrebbe essere anche 70-40-23). In un liceo l’impegno è limitato a sole circa 66 ore, con una ripartizione decisamente più contenuta (i politici, poi, ci spiegheranno perché al liceo si è destinato la metà delle ore con un finanziamento maggiore per classe a parità di studenti). La riduzione eccessiva delle ore in azienda sarebbe pericolosa (oltre un certo limite, sotto il 20%) perché verrebbe meno l’apprendimento della cultura del lavoro, traducendosi in una “cultura del pressappoco”.
Un eccesso di ore in azienda sarebbe altrettanto pericoloso: oltre il 60% si finirebbe nell’emulare l’apprendistato (che orientativamente è sull’80%) con una influenza delle logiche aziendali invasive rispetto alla formazione sulla “cultura” del lavoro. Nei casi più vantaggiosi di disponibilità aziendale, il 40% di cui sopra potrebbe essere tutto svolto in azienda, con un aggiuntivo 10% tra visite, convegni o seminari. Il 60% destinato alla scuola deve essere ben strutturato per non gravare sui pochi (del consiglio di classe) e, soprattutto, non escludere nessun docente e relativa disciplina dalla “cultura” del lavoro e della scelta futura.
Non c’è apprendimento culturale senza la copresenza delle discipline. Ogni disciplina ha il suo valore aggiunto su ogni possibile tema di alternanza. Intanto, il 60% su dieci discipline consiste in un 10% a disciplina (più o meno 8 ore), il che significa che uno spaccato di otto ore sul tema è possibile e auspicabile affinché si possa mostrare quanto ogni disciplina è foriera di apertura e crescita nella valorizzazione del tema per la sua visione prospettica specifica. Queste ore devono essere definite nel curriculo di ogni disciplina e quindi sono parte integrante della programmazione didattica del docente. In questo modo la flessibilità didattica e curricolare si porta a sistema ed è governata dall’intero consiglio di classe sull’intero triennio.
Il percorso deve essere co-progettato da scuola e azienda fissando i suddetti paletti percentuali all’interno dei quali prevedere momenti di scambio e confronto tra una realtà e l’altra (per evitare la creazione di compartimenti stagni tra scuola e azienda) rispetto al fine comune che resta quello di educare lo studente a comprendere che le competenze non sono altra cosa, soprattutto ostile, alle conoscenze ma che l’una – il solving – è l’altra faccia del knowing. Nel corso del triennio non si esclude che un percorso possa avvilupparsi, integrarsi e scambiarsi con un altro mescolando gli studenti delle diverse classi a seconda della loro scelta motivazionale e professionale (di qui la rilevanza del Curriculum dello studente o Portfolio), operando infine un ‘orientamento al lavoro’ appropriato all’autovalutazione dello studente.
Alternanza, scuole lasciate da sole a caccia di imprese Per 500mila studenti-lavoratori nessuna garanzia di qualità ultima modifica: 2016-03-29T09:10:42+02:00 da