Artini (ANP). Formazione: non siano collegi a decidere

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di Vincenzo Brancatisano, Orizzonte Scuola, 10.5.2019 

– Perché formazione obbligatoria per medici e avvocati e non per docenti?

– “Formazione e aggiornamento, prima che un obbligo, sono una condizione di necessità che caratterizza il lavoro professionale. Medici, avvocati, ingegneri e tanti altri professionisti accolgono un certo numero annuale di ore di formazione, che, se ben organizzata, risponde a esigenze effettive. Perché per gli insegnanti non è così?”

La constatazione e il quesito sono di Alessandro Artini, Dirigente scolastico dell’Itis Galilei di Arezzo e presidente dell’Anp della Toscana. Che insiste: “La perentorietà e la continuità della formazione avrebbero dovuto trovare un riconoscimento nel Ccnl 2016/18’ con la definizione di un monte ore atto a soddisfare l’obbligo. Ovviamente, da parte sindacale, ci si è guardati bene dal sottoscrivere un accordo in merito e si è preferito demandare la questione alle singole scuole”.

Eppure, il comma 124 dell’articolo 1 della Legge 107/2015 ha espressamente previsto che la formazione sia obbligatoria, permanente e strutturale. “La conseguenza – insiste Artini – è stata del tutto logica: l’obbligo è sostanzialmente decaduto, a fronte di una mancata quantificazione dell’orario oppure di una sua definizione minimale. Perché mai i collegi avrebbero dovuto autoimporsi una formazione che, per alcuni docenti, rappresenta un dovere irrisorio? Considerato il regresso imminente e inevitabile delle attività di formazione, la prima osservazione è che una tale materia non sarebbe dovuta essere demandata ai collegi, se non altro per evitare il conflitto di interessi – si veda l’articolo 6 del Codice di comportamento adottato dal Miur – tra il soggetto deliberante e quello destinatario dell’obbligo in questione”.

Ma la domanda di fondo, secondo il dirigente Artini, è se sia “plausibile che una categoria di lavoratori, quella degli insegnanti, che fonda la propria professionalità sul sapere, eluda, nei fatti, un’attività intimamente connessa al sapere e alle modalità della sua trasmissione, come quella dell’aggiornamento e della formazione”.

E, se è così, chiediamoci come si sia potuti arrivare a questo. Secondo Artini, “l’alleanza di genitori e docenti, in vista dell’educazione dei figli-alunni, che fino a qualche decennio fa improntava la scuola, oggi pare essere il vestigio di un’altra era geologica”. Il ruolo dei docenti “viene contestato in primis dai genitori, talvolta anche in maniera violenta”.

L’opinione pubblica, inoltre, “nutre malanimo verso una categoria che, secondo lo stereotipo, lavora poche ore settimanali. Economicamente, infine, gli stipendi sembrano riflettere l’esiguità del prestigio professionale”. Comprensibile, quindi, che i sindacati reagiscano a questa situazione proteggendo la categoria da un aumento di impegni come quelli della formazione.

Comprensibile, ma non giustificabile”, precisa Artini. “Senza formazione, infatti, i docenti non assumono la veste di professionisti, ma quella di semplici lavoratori. La difesa sindacale, pertanto, induce un’ulteriore caduta di prestigio cui segue, in un circolo vizioso, l’inadeguatezza degli stipendi. Forse i sindacati dovrebbero riflettere sulle loro politiche e sugli insuccessi che esse hanno provocato, negli anni, all’intera categoria”.

Professor Alessandro Artini, è davvero così poco sentito dai docenti italiani il legame tra formazione e professionalità?

Il problema della formazione si connette a quello della professionalità. Io ho presente la definizione della professionalità data dai sociologi funzionalisti alcuni anni orsono. Secondo loro, affinché si possa parlare di professionalità devono ricorrere tre condizioni: che si presti un servizio per la comunità, che ci siano un codice deontologico e un sapere specializzato. E queste tre condizioni per i docenti sussistono, anche se il codice deontologico attende una elaborazione formale: per questo, a mio avviso, il lavoro dei docenti è un lavoro professionale. A lato di questi elementi, ci sono dei doveri di natura burocratica, che contrastano con l’autonomia dei professionisti: tenere in ordine il registro, avere un numero congruo di interrogazioni e di verifiche scritte, ottemperare al dovere di consegnare i documenti al termine dell’anno scolastico. Tutti aspetti burocratici che, peraltro, sussistono nell’attività di altre figure professionali. Si hanno quindi, in atto, due tendenze diverse: una va verso la professionalizzazione dell’insegnamento, l’altra, invece, si orienta a de-professionalizzare l’insegnamento in un’ottica di egualitarismo: gli insegnanti sarebbero tutti quanti dei lavoratori, simili a impiegati. Questa seconda tendenza è stata supportata dalle tante immissioni in ruolo avvenute ope legis, senza una procedura concorsuale vera e propria. Allora io mi sto chiedendo come mai, nel corso dei decenni, le politiche scolastiche non abbiano comportato un’adeguata valorizzazione del corpo docenti, come avviene in altri Paesi, dove si riscontra che il sapere specialistico è estremamente coltivato e sottoposto a numerose ed efficaci valutazioni. Questo, peraltro, è un requisito che consente, in altre nazioni, di accedere a una carriera professionale, che pone una distinzione netta tra chi intende percorrere questo iter di carriera e altri che non vogliono, magari sfruttando il tempo libero per dedicarsi ad altro nella vita. La mancanza di una carriera produce un abbattimento della professionalità dei docenti. La possibilità di definire la carriera stessa dovrebbe fondarsi su aggiornamento e formazione, sullo studio e sulla dimostrazione di possedere un sapere specialistico che altri non possiedono e che rende unica la categoria dei docenti. Io lego a tutto ciò la possibilità di trovare delle gratificazioni – non solo di natura economica – che ora non registro: anzi, vedo una somma di insoddisfazioni tra gli insegnanti. Essa potrebbe trovare un superamento nell’ottica della professionalizzazione e ciò non può prescindere dalla formazione e dall’aggiornamento. Capisco perché i sindacati non abbiano voluto questo. Ma penso che avere trascurato questa attività vada nella direzione opposta a quella attesa. Aggiornamento, formazione sono le condizioni di base per restituire ai docenti la loro professionalità”.

Lei parla di conflitto di interessi tra il soggetto deliberante e quello destinatario dell’obbligo in questione.

Io non ho fatto una ricerca. ma sarebbe interessante verificare in che misura, nei recenti Ptof deliberati dalle scuole, sia stata quantificata la formazione. Ho idea che sia avvenuto in termini minimali. E lo comprendo, alcuni docenti dicono che è frustrante e si chiedono: perché devo fare anche questo? A me sembra che sia necessario, invece, perché la professionalità è una condizione anche per il riconoscimento economico. La definizione della professionalità docente è complessa. Secondo Schoen, essa deve andare nella direzione della riflessività. Il docente dovrebbe continuamente ricalibrare il proprio lavoro in funzione delle esigenze che insorgono nella vita scolastica ed essere capace, in tempi rapidi, di reagire ai feedback che si attivano nella classe. Si deve sviluppare una capacità riflessiva, che è fortemente caratterizzante. Io penso che la professionalità docente sia una delle più elevate e il fatto che in alcune nazioni essa venga riconosciuta e in Italia no dovrebbe porre dei quesiti in merito alle scelte scolastiche fatte negli anni. Ed è opportuno che da parte dei sindacati ci si interroghi se sia corretta la prospettiva o no, poiché si sta andando verso una direzione opposta a quella della valorizzazione del ruolo docente. Intendo parlare non solo di una valorizzazione economica, ma anche di prestigio sociale. Il problema si manifesta a livello globale, ma in Italia è particolarmente acuto”.

I docenti sostengono che la formazione dovrebbe essere retribuita o quanto meno svolta in orario di lavoro

Sinceramente non mi sembra ci siano, in merito, riscontri in altri ambiti professionali. Talvolta ci sono dei corsi organizzati e gratuiti, come quelli promossi dall’Ordine degli avvocati e da altre associazioni di professionisti, con fondi pagati, comunque, dagli stessi iscritti con le proprie quote. In altri casi, i corsi sono offerti a pagamento dalle università. Io personalmente penso che, più che pagare la formazione, debbano essere incrementati gli stipendi dei docenti. Rispetto ad altre nazioni, noi siamo sotto la media, soprattutto al termine della carriera: se compariamo gli stipendi italiani nel fine carriera con quelli delle altre nazioni troviamo un gap rilevante, che penalizza gli italiani. Ciò deve essere rivisto, ma alla luce della professionalizzazione dell’insegnamento. Temo, tuttavia, che a breve saranno privilegiate le immissioni in ruolo massicce, basate sul possesso di titoli che dicono poco sulle capacità effettive dei docenti. Numerose ricerche stabiliscono che la qualità della formazione degli alunni è strettamente correlata alla qualità della docenza. Anche per questo la formazione è fondamentale. I docenti hanno delle responsabilità che lo Stato deve riconoscere. Se lei legge l’art 27 del CCNL della scuola per il triennio 2016-18, troverà che ci sono altissimi riconoscimenti alla dimensione di studio e di professionalità dei docenti, ma contraddittoriamente non si parla di formazione”. Citiamo: Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche,organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica. I contenuti della prestazione professionale del personale docente si definiscono nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione e nel rispetto degli indirizzi delineati nel piano dell’offerta formativa della scuola.

E’ da sottolineare la tendenza dei docenti a formarsi sulla didattica e sull’inclusione, e molto meno sui contenuti della propria disciplina, quasi che una volta laureati serva meno studiare e aggiornarsi sui contenuti da trasferire agli studenti

La conoscenza deve essere approfondita e mantenuta all’altezza dei tempi, costantemente. Ma anche il tema dell’innovazione didattica è importante. Il problema è che, nella scuola italiana, il versante dell’innovazione didattica non è adeguatamente trattato. Alcune innovazioni vengono presentate con termini inglesi, che testimoniano la provenienza da realtà straniere. Flipped classroom, cooperative learning, service learning, debate… Debate, cioè “dibattito”. Ma gli inventori del dibattito siamo stati noi, in Magna Grecia, poi sono venuti i latini con la disputatio, mentre oggi i debate sono praticati soprattutto negli Usa, dove sono una materia vera e propria. Ci sono dei campionati di “debate”. Io sto pensando alla funzione che potrebbe avere il dibattito nel momento in cui si reintroduce l’Educazione civica. Penso alla capacità di un ragazzo il cui ruolo è quello di sostenere una tesi opposta alle proprie convinzioni, che si mette nei panni altrui per comprenderne la posizione. Il sociologo Alessandro Cavalli spiega che, tramite il “debate” si educano i ragazzi alla “controversia civile”, per evitare che si contrappongano tra loro in maniera aggressiva. Tutte queste innovazioni, che promanano purtroppo dallestero, dovrebbero trovare radicamento in Italia. Linnovazione dei metodi fa parte della formazione, così come laggiornamento sulla disciplina, come dice lei giustamente. Ma se cade tutto questo, si alimenteranno dei circoli viziosi perché a mano a mano che ci si de-professionalizza si hanno meno argomenti per rivendicare gli attesi riconoscimenti. Solo ricostituendo il prestigio della categoria, si ha titolo per rivendicare con più forza le legittime richieste dei docenti”.

Veniamo agli episodi di violenza. Lei dice che il ruolo dei docenti viene contestato in primis dai genitori, talvolta anche in maniera violenta. Le aggressioni, che ormai sono all’ordine del giorno, possono davvero essere legate a questa caduta di prestigio della professione?”.

I fatti mettono in gioco delle tendenze di fondo della società e del lavoro professionale. Non si tratta solo di inciviltà, che c’è sempre stata. La diffusione di questi fenomeni mette in luce l’immagine professionale dei docenti, attribuita loro dall’opinione pubblica. Io credo che una parte di questi comportamenti, giustamente stigmatizzati anche da Anp, che ha espresso solidarietà a chi ne è stato colpito, abbia a che fare anche con la caduta di prestigio dei docenti. Quarant’anni fa, l’aggressività verso i docenti era inconcepibile. I miei genitori creavano un’alleanza con gli insegnanti, non una contrapposizione. Io non voglio fare una facile sociologia, ma vedo che la caduta del prestigio è un elemento che ha consentito a varie persone di dare sfogo ai propri istinti, anche nel mondo scolastico. Ovviamente, la violenza si fonda su specifiche strutture della personalità individuale, che trovano radice nella biografia personale. Ma le pulsioni violente possono essere temperate o frenate dalla cultura civica diffusa nell’intera società. In tal senso, il rafforzamento del prestigio dovrebbe consentire un maggior rispetto verso i docenti anche da parte dei genitori”.

Ha anche lei l’impressione che questo prestigio, questa considerazione invece siano ben presenti nei genitori degli alunni immigrati? Forse perché vedono nell’insegnante un valido, forse l’unico grimaldello per crescere e affermarsi socialmente.

Condivido questa constatazione. I genitori stranieri sono attenti alle funzioni educative e si aspettano che la scuola svolga il proprio ruolo con determinazione. Hanno anche una sorta di fiducia che deriva dal Paese di provenienza, poiché in certe nazioni la scolarizzazione di massa sta avvenendo adesso. L’attribuzione di una centralità all’educazione e al rispetto verso gli insegnanti è un elemento comune a molte etnie e comunità. Anni fa ho ascoltato la conferenza di un giurista belga che raccontava come il termine burocrate abbia una valenza negativa a livello mondiale, salvo in quei paesi dove il sistema statale si viene affermando. Proprio in essi si riscontra l’affermarsi della Pubblica Amministrazione, con i relativi benefici sul piano del servizio offerto alla cittadinanza, mentre la mancanza di essa e l’assenza dello Stato ponevano le persone in balia di singoli soggetti, spesso poco raccomandabili. Proprio per questo, le domande che gli immigrati ci pongono vanno nella direzione di creare un’identità forte della scuola e del corpo docente. Anche ragionando sul piano dell’inclusione, occorre rafforzare la categoria dei docenti mediante la professionalità, mentre l’egualitarismo dominante non dà forza, né prestigio ai docenti. Anzi, porta nella direzione opposta”.

La legge 107 ha cercato di promuovere la professionalità e il merito introducendo il bonus premiale in denaro che, se da un lato ha sollevato il problema della formazione e della professionalità, dall’altro ha creato gelosie e incattivito i docenti.

Corrisponde al vero. Secondo me l’affermazione della carriera docente dovrebbe fondarsi su percorsi di esami e valutazioni, sostenuti di fronte ad apposite commissioni. Il percorso dovrebbe essere di natura diversa, rispetto a quello attuale. La legge 107 ha cercato di introdurre delle innovazioni ed è stata positiva, ma il compito non sempre è stato svolto con adeguata competenza. Quanto meno, la Legge 107 ha sollevato dei problemi. Ma le critiche ad essa non dovrebbero portarci indietro, verso l’appiattimento. Occorre notare, inoltre, che l’iniziativa del bonus ha trovato una immediata reazione negativa, da parte dei sindacati, che ha influenzato i docenti. All’opposizione sindacale verso il bonus, poi, non è seguita la parte propositiva. Si dovrebbe avere il coraggio di dire chiaramente che non si vuole la carriera e non si vogliono cambiamenti in merito alle funzioni dei docenti. Se, invece, si accetta la carriera, occorre ragionare sui meccanismi per il suo sviluppo. Va da sé che alcune prerogative non possono non essere concesse ai dirigenti, che dovrebbero usare la premialità come leva evolutiva del sistema scolastico”.

Però bisogna ammettere che il sistema ci mette anche del proprio. Non è raro che i docenti siano chiamati, grazie ai meccanismi delle classi di concorso a insegnare discipline che hanno poco a che fare con quanto hanno studiato.

Penso che, proprio per questo, l’aggiornamento e la formazione siano essenziali. Un docente non può ritenere esaustiva la propria formazione, conseguita con la laurea. La formazione, davvero, è continua. Anche i confini disciplinari tra una materia e un’altra si vanno attenuando. Questo accade perché noi dovremmo ragionare in termini di competenze. Le conoscenze e le abilità dovrebbero essere mobilitate verso le competenze, nella prospettiva del problem solving. Ciò comporta il superamento della rigidità disciplinare. Con tutta probabilità anche l’insegnamento universitario dovrebbe andare in questa direzione. I professori accademici dovrebbero essere “chiamati” verso questi nuovi orientamenti. Non dobbiamo confidare unicamente sulle specializzazioni, perché esse sono sempre più raffinate e confinate su settori specifici del sapere. Queste specializzazioni, essenziali nel campo della ricerca, a scuola dovrebbero invece essere ampliate, poiché è essenziale la capacità di insegnare a ragionare a tutto campo. Spesso le domande utili allo sviluppo della ricerca nascono esternamente. Sono i sindacati a definire i curricoli a collezione, al cui interno ciascuna disciplina occupa un comparto stagno. Gli stessi professionisti docenti debbono essere educati a spaziare. L’idea del professionista riflessivo trae spunto anche da questo”.

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Artini (ANP). Formazione: non siano collegi a decidere ultima modifica: 2019-05-10T14:38:35+02:00 da
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