Autonomia, nasce la scuola lombardo-veneta (ma non emiliana): 200mila prof e 8 miliardi passeranno alle Regioni

Fatto_lofo15di Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 14.2.2019 

– Con il rafforzamento delle competenze Veneto e Lombardia avranno un’istruzione con programmi differenziali, concorsi locali, docenti regionali. E risorse economiche proprie.

Un pezzo di scuola italiana si staccherà dal ministero (e quindi dallo Stato) per finire alle Regioni del Nord. Come aveva anticipato a ottobre ilfattoquotidiano.it, presto Lombardia e Veneto (ma non l’Emilia Romagna) avranno una loro scuola, se non proprio diversa almeno autonoma da quella del resto del Paese, con programmi differenziati, concorsi locali, soprattutto docenti regionali. E ovviamente risorse proprie.

Non è più solo un progetto, ora è tutto nero su bianco nelle bozze d’intesa fra Stato e Regioni sul regionalismo differenziatoche verranno approvate a breve (forse già in settimana) dal consiglio dei ministri. Il testo conferma tutte le indiscrezioni: Veneto e Lombardia otterranno la “potestà legislativa in materia di norme generali sull’istruzione”. E questo rappresenterà una rivoluzione per tutto il comparto, in particolare per la scuola dove ci saranno grandi novità, meno per l’università dove i pilastri del sistema accademico non saranno toccati.

200mila docenti (e 8 miliardi) passeranno alle Regioni

I governatori Luca Zaia e Attilio Fontana sono riusciti ad ottenere ciò che più gli stava a cuore: professori locali, dipendenti delle Regioni e non dello Stato, che non possano più“scappare” al Sud alla prima occasione di trasferimento. Questo è il passaggio chiave della riforma: è stabilito che “la Regione definisce annualmente il fabbisogno di personale docentee indice periodicamente procedure concorsuali”. Significa che Lombardia e Veneto non dovranno più aspettare i tempi e le esigenze del ministero, ma potranno farsi i loro bandi, e assumere i loro insegnanti. E per farlo, riceveranno dal Miur tutte le risorse spese fino ad oggi a tale scopo dallo Stato. A regime si tratta di trasferire alle Regioni circa 200mila maestri e professori (un quarto circa del totale del Paese); in più passerebbero da subito alle Regioni anche i presidi, con un nuovo ruolo ad hoc. Il quotidiano il Messaggero stima in circa 8 miliardi di euro il travaso di risorse necessarie.

Il processo sarà però graduale e sono comunque previsti dei paracadute: ad esempio, soltanto i neoassunti diventeranno automaticamente dipendenti regionali. Tutti quelli già in ruolo potranno decidere a quale ente far capo, e contrariamente alle previsioni è stato ribaltato il meccanismo di scelta, cioè si dovrà fare apposita richiesta di passaggio alla Regione altrimenti si resta al ministero. Inoltre, dal fabbisogno regionale dovranno essere stornate delle quote riservate alla mobilità di docenti provenienti da altre Regioni, dunque Veneto e Lombardia non saranno proprio dei comparti a tenuta stagna.

Nasce la scuola lombardo-veneta (ma non emiliana)

Per marcare la differenza rispetto agli altri docenti italiani, i nuovi insegnanti regionali potranno avere un contratto integrativo, e quindi magari anche uno stipendio maggiore (fermi restando però i diritti stabiliti dal contratto collettivo nazionale): le prime stime parlano di un incentivo al trasferimento di circa 400 euro al mese in più. Con l’autonomia differenziata passano poi alle Regioni anche il “sistema di valutazione”, la “programmazione dei percorsi di alternanza scuola-lavoro” e “dell’offerta di istruzione” (cioè i programmi di studio).

Così nascerà la “scuola lombardo-veneta“. Non quella dell’Emilia Romagna: l’intesa con la Regione del governatore Pd Stefano Bonaccini è molto più blanda, prevede solo un “piano pluriennale per la definizione degli organici e dell’autonomia scolastica su base regionale”, ma senza intaccare l’ordinamento statale. Praticamente un ulteriore potenziamento di quello già introdotto dalla “Buona Scuola” del governo Renzi. La vera autonomia è solo per il profondo Nord.

Università, nessuna rivoluzione

Decisamente meno invasivo l’intervento sull’università. Dalla partita, infatti, sembra rimanere fuori il Fondo di funzionamento ordinario, il famoso “Ffo” che regola la distribuzione dei fondi a tutti gli atenei del Paese e che nel testo non è mai nemmeno citato. Del resto la “regionalizzazione” del mondo accademico è resa più complicata anche dal fatto che l’autonomia dei singoli atenei è garantita dalla Costituzione, e dunque per modificare programmi, offerta formativa e organici bisognerà stringere accordi con presidi e rettori. Le bozze, così, si limitano a prevedere la competenza regionale sui fondi per il diritto allo studio (universitario e delle residenze), nonché l’attivazione di “percorsi universitari” e “progetti di ricerca” che siano “coerenti con le esigenze espresse dal contesto economico, produttivo e sociale del territorio”.

Twitter: @lVendemiale

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