Bonus: parola da eliminare dal lessico della retribuzione e della comunicazione

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Anna Maria Bellesia,  La Tecnica della scuola  5.9.2017

– Mai una parola è stata così fastidiosamente inflazionata quanto il termine bonus, divenuto il marchio della politica e della comunicazione renziana.

Di per sé la parola non ha alcuna connotazione che la renda antipatica. Anzi, indica un incentivo, una gratifica, un premio.

Forse per questo, e in funzione di una comunicazione accattivante, il termine è stato lanciato alla grande dall’ex premier Renzi col famoso bonus degli 80 euro, elargito alla vigilia delle elezioni europee del 2014 a 11 milioni di italiani. Un successone, come le liberalitates degli imperatori romani. Peccato che, in seguito, quasi due milioni di beneficiari abbiano dovuto restituirlo in tutto o in parte. Poco carino.

Poi il bonus diciottenni alla vigilia del referendum. Peccato che poi i giovani non abbiano votato secondo le aspettative.

Di bonus in bonus se ne contano almeno una dozzina, basta cliccare in internet, per una spesa pubblica che sfiora i 50 miliardi di euro.

È arrivato così anche “il simpatico bonus” dato ai pensionati che hanno subìto il blocco dell’adeguamento delle pensioni al costo della vita, deciso col decreto “Salva Italia” di Monti-Fornero, ma dichiarato poi illegittimo dalla Corte costituzionale. Una sommetta una tantum di 500 euroassegnata al posto di un legittimo rimborso ai pensionati sotto i 3.200 euro lordi di pensione. Agli altri nulla, perché lo Stato non ha da restituire i soldi illegittimamente sottratti.

Da allora gli italiani hanno cominciato a fiutare aria di presa per i fondelli sotto la comunicazione scoppiettante a suon di bonus.

Per i docenti i bonus sono addirittura due: i 500 euro per l’aggiornamento e il bonus merito. Si sa che per l’ex premier Renzi la scuola è sempre stata la priorità. Peccato che i docenti l’abbiano presa così male, la sua riforma.

Il bonus merito non è mai andato giù, per tutta una serie di motivi, ma soprattutto perché non si può avere uno stipendio bloccato al livello minimo per anni e anni, compiti e responsabilità sempre più pesanti, ed essere gratificati e valorizzati con una sommetta dai 300 ai 500 euro all’anno assegnata dal dirigente scolastico sulla base di criteri piuttosto discrezionali.

Il bonus merito ha natura di “retribuzione accessoria”, come dice la legge 107. Il trattamento economico del dipendente pubblico, composto dalla parte fondamentale e da quella accessoria, “è definito dai contratti collettivi”, come dice il Testo unico sul Pubblico impiego. Le riforme degli ultimi anni hanno introdotto, è vero, le parole “performance”, “merito” e “premialità” di cui la contrattazione deve tenere conto. Ma non la parola bonus (D.lvo 165/2001, aggiornato al  2017).

E allora finiamola di chiamarlo bonus! Pare recentemente che anche la ministra Fedeli veda nel bonus “più ombre che luci” ed ha cominciato a parlare piuttosto di “riconoscimento” sociale e economico per i docenti. Un passo avanti, perché il linguaggio della comunicazione conta. Continua invece a difendere la “cultura dei bonus” la Malpezzi, nominata da Renzi come responsabile Scuola del PD.  Ma è chiaramente arrivato il momento di voltare pagina.

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