Avv. Piero Gurrieri, Studio Rando Gurrieri, 15.4.2018
– “Non hai scarpe e vestiti firmati, sei un poveraccio”. Sembra fantasia ma è la realtà. Triste, cruda. Una umiliazione a tutti gli effetti, quella subita da un ragazzino di appena 12 anni, che non poteva permettersi al pari di molti altri suoi coetanei, di sfoggiare nella propria scuola abiti firmati, scarpe da 200 euro, accessori in linea con le più sfrenate tendenze della “meglio gioventù” italiana. Quella che può permettersi determinate spese senza alcun problema. Quella che può farlo perchè ha la fortuna di crescere all´interno di nuclei familiari nei quali i genitori magari non seguono i figli, magari considerano una perdita di tempo o poco più insegnare loro l´educazione o le regole del vivere civile ma che possono spendere. Perché hanno i portafogli pieni. insomma, parliamo della generazione dei cosiddetti figli di papà. Che spesso si trasformano in bulli.
Siamo partiti da un fatto di cronaca, uno dei tantissimi, forse migliaia l´anno, che poco più di un anno fa è stato ripreso dalla grande stampa perché qualcuno, semplicemente, ha fatto trapelare la notizia. Che invece, di regola, non passa. Non passa, innanzitutto, perché sono le famiglie a stendere un velo di silenzio sul fatto che tuo figlio non può vestire come gli altri per la semplice ragione che tu non puoi permettertelo come gli altri. Ma non passa, anche e forse soprattutto, per la responsabilità e la profonda dignità, dei bambini e dei ragazzi in difficoltà economica. Essi sono non di rado i primi a dimostrarsi più maturi di tanti adulti. Capiscono bene le difficoltà dei genitori e, lungi dal pretendere, sopportano. Non protestano e spesso neppure parlano a casa dei bulli che, all´età di 12 anni, vestono alla moda e sfottono anche in maniera dura chi alla moda non veste perché non può vestire. Che li sfottono quando sono da soli e quando sono in dolce compagnia, con le coetanee i coetanei. Perché, per questa becera cultura del possedere e non dell´essere,stare con uno sfigato/a non è un buon affare anche per il partner. Meglio lasciarlo per uno figo/a.
Così la scuola pubblica, quella di tutti, quella che nei progetti dei padri costituenti avrebbe dovuto, in linea con l´articolo 3 della Costituzione, abbattere le barriere sociali e di censo e rimuovere tutte le disuguaglianze di una società, appunto, diseguale, lungi dall´essere il terreno della parità, ha educato ed educa alla differenza e alla discriminazione. Sì, perché in Italia, salvo rare eccezioni, il modello non è quello a cui si ispirano altri paesi, a partire dalla Spagna. Nei quali, al contrario, la regola è la divisa. Uguale per tutti. Obbligatoria. Perché nessuno possa andare a scuola griffato ed altri siano costretti a farlo con i vestiti molto ordinari di una famiglia umile o semplicemente senza grandi risorse economiche. La scuola è di tutti, e i ragazzi devono essere educati alla parità. Altrimenti, cresceranno dei mostri. All´estero lo hanno capito, in Italia no.
Mentre i ministri, anche quando sono sindacalisti e di sinistra, tacciono, nicchiano, e dimostrano totale indifferenza al problema, è dai territori che si levano delle voci di dissenso. Un articolo su un periodico online sardo, Cubbedduonline, di pochi giorni fa ha pubblicato una lettera bellissima, significativa. Se si facesse una petizione, nascerebbe una rivoluzione. L´autore dell´articolo, Paolo Rapeanu, ha scritto: “I bambini di Cagliari – molti – non utilizzano divisa o grembiule per la scuola, ma abiti normali. O quasi. Trionfano capi molto costosi”. Cagliari, dunque, Italia e se qualcuno pensa ancora che il paese viaggi a due velocità, queste considerazioni sono lì per smentirlo. Le cattive abitudini, come l´incultura e l´ignoranza, regnano dovunque, dalla Sardegna alla Lombardia passando per la Toscana. E si potrebbe continuare.
Ma, appunto, è dai territori che nasce il dissenso, come denunciato da un papà titolare di un market a Castello, Alessio Belfiori: “A Cagliari bimbi di 10 anni a scuola con vestiti da 1500 euro: torniamo alle divise”. Il dibattito sulla questione cresce, e porta molti lettori a pronunciarsi, ed è lo stesso autore dell´articolo a darne atto: “La questione porta anche Silvia Nieddu a dire la sua: cinquantotto anni, è casalinga e vive a Quartu e ha tre figlie. Una di loro, 23 anni, vive da tempo a Valencia, in Spagna: “Mia figlia vive a Valencia e tutti, dico tutti i ragazzi, dalla scuola materna e fino alle superiori, hanno la divisa. Cambia solo il colore a seconda della scuola. Troppo belli. Anche in Venezuela. Mio genero ha confermato. È una questione di decoro, buongusto. Non una sfilata di moda o una gara tra chi è più firmato”.
Il dibattito è quindi aperto. La nostra domanda: non c´è qualche ministro che invece di proporre riforme di cattiva scuola, ne può fare una, elementare, per ripristinare le divise nella scuola dell´obbligo? Saremmo in molti a dirgli grazie.
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