– Sul boom delle diagnosi – Dsa, Adhd e compagnia – il ravennate Andrea Canevaro, docente di Pedagogia all’Università di Bologna e padre del sostegno scolastico, ha un’idea precisa: “Abbiamo tutti una diagnosi. Io, per esempio, ho problemi di equilibrio. E stare al cellulare mi causa dolori. Ma non mi fermo. E provo a stare bene”.

Il docente, che (tra le altre cose) a gennaio 2017 ha tenuto l’incontro “Questione di sguardi” per il ciclo “Confronti educativi” organizzati da “L’isola di Peter Pan” di Cesena (via Orsini 22/24), sa che guardare i bambini fuori dalle gabbie mentali che, sul loro conto, ci siamo costruiti, per gli adulti è una sfida enorme: “Anche prima che vengano al mondo, ci creiamo delle aspettative che, per quanto umane, rischiano di essere troppo rigide. La capacità di accogliere l’inaspettato è un’occasione fondamentale, da non perdere. Ci può restituire solo cose belle”.

Un discorso che, a suo dire, non vale solo per la disabilità: “Un certificato o un’idea troppo fissa di quello che, quel bambino o quella bambina, sarà, sono controproducenti. I più piccoli hanno bisogno, fondamentalmente, di due cose: essere stimati da qualcuno che, possibilmente, apprezza il bello e avere delle basi sicure, quindi allargabili all’esterno. Tutto questo serve ad andare avanti, a vedere in quel bambino un futuro”.

Un esempio? La sindrome di Down: “Conosco almeno quaranta persone che ce l’hanno. Ma sono diversissime l’una dall’altra. Se pensassi, come lo stereotipo vuole, che quelli con la sindrome di Down sono paffutelli e sempre sorridenti, sbaglierei: ce ne sono altrettanti magri, irritabili e permalosi. La diagnosi è solo un punto di partenza, il resto è tutto da esplorare e da capire. Lo sguardo dev’essere bifocale: guardare il punto in cui sono e l’orizzonte, al tempo stesso. Per chi ha a che fare con chi deve crescere, è fondamentale”.

Ci vorrebbe, ragionando per assurdo, uno zio materno: “Nella cultura subsahariana è colui che ci rivela ciò che non riusciamo a vedere, che entra in scena a farci vedere il bello. Perché alla fine, quello che succede non corrisponde mai esattamente a quello che avremmo pensato”.

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