di Daniele Checchi e Maria De Paola, La Voce.info, 26.2.2019

– La misurazione delle competenze degli studenti è uno strumento di conoscenza molto utile. Permette per esempio di evidenziare le differenze territoriali, sociali e di genere che caratterizzano la scuola italiana. Molti però sembrano volerne fare a meno.

La scuola italiana tra differenze territoriali, sociali e di genere

Circa due mesi fa è apparso su La Repubblica un pezzo di Chiara Saraceno che discuteva dell’importanza dei test Invalsi come strumento di conoscenza. Si può dibattere – e lo si è già fatto a lungo – sui pro e sui contro di questo tipo di test, resta però il fatto che i dati che ne sono derivati hanno contribuito a una migliore comprensione della scuola italiana. Resta anche che la conoscenza non ha ispirato azioni correttive mirate o adeguate. Non un buon motivo per metterli da parte.

I dati Invalsi, così come i dati Pisa (Programme for International Student Assessment), e la loro disponibilità per un arco temporale più che decennale, hanno permesso di avere un quadro ricco di molti particolari del nostro sistema scolastico e di seguirne l’evoluzione nel tempo. Grazie alla loro disponibilità, abbiamo potuto avere contezza delle differenze territoriali che contraddistinguono il nostro sistema. Tutti ormai sanno che gli studenti nel Mezzogiorno conseguono risultati peggiori rispetto agli studenti che vivono nelle regioni del Nord; forse non tutti, ma tanti sanno che molti ragazzi meridionali non riescono a raggiungere nemmeno il livello di competenze minime necessarie per esercitare i normali diritti di cittadinanza.

Altrettanto note, grazie alle analisi svolte sui dati Invalsi, sono le differenze di censo: i risultati ottenuti dagli studenti, siano essi misurati dalla performance ai test Invalsi o dalle valutazioni espresse dai docenti, sono fortemente influenzati dalla provenienza socio-economica. Non solo, l’impatto esercitato dalle condizioni di origine anziché ridursi tende ad ampliarsi nel corso della carriera scolastica, indicando un fallimento particolarmente grave del nostro sistema scolastico: quello di non aiutare chi parte da condizioni svantaggiate a ottenere gli stessi risultati raggiungibili da coloro che partono da condizioni migliori.

L’uso di questo tipo di dati permette anche di analizzare congiuntamente le due dimensioni, domandandosi se e in che misura il divario territoriale sia il riflesso del divario socio-economico tra le aree del paese. Per esempio, nel grafico 1 riportiamo i risultati nella lettura dell’indagine Pisa, svolta sui quindicenni ogni tre anni dall’Ocse. In essa si nota come dopo dieci anni di carriera scolastica il divario in competenze di lettura tra le due principali regioni italiane, Lombardia e Campania, raggiunga un’entità equivalente a quella di quasi un anno di scolarità. Ma l’aspetto più interessante è analizzare come cambi il divario Lombardia-Campania al variare delle condizioni socio-economiche della famiglia di provenienza (misurate da istruzione, prestigio occupazionale e possesso di risorse culturali).

Grafico 1

Se le due rette si avvicinassero tra loro al crescere dello status socio-economico, si potrebbe sostenere che una parte del divario sia imputabile al divario economico tra le due regioni. Invece, colpisce come il divario rimanga costante lungo l’intera dimensione delle origini sociali, a indicare come lo svantaggio sia pervasivo attraverso tutte le classi sociali. Siamo quindi in presenza di un problema strutturale del processo formativo, che neppure la famiglia riesce a compensare.

I test Pisa e Invalsi ci hanno rivelato impietosi una scuola diseguale anche per genere. Se già i primi collocavano l’Italia tra i paesi con il più elevato gender gap a favore dei maschi nelle competenze matematiche, i dati Invalsi hanno permesso di mostrare che il divario compare già dalla seconda elementare (primo anno per cui si dispone dei dati Invalsi) e che tende a crescere con l’età, in particolare dalla seconda alla quinta elementare e poi di nuovo alle scuole superiori.

La questione interessante è perché l’opinione pubblica di fronte a diseguaglianze così forti non reagisca con il dovuto vigore, perché non costringa la classe politica a intraprendere azioni che vadano nella direzione di colmarli. Cos’è che rende invisibili o sopportabili queste ingiustizie? Molte sono le questioni che hanno spostato la nostra attenzione su altri problemi, dalla stabilizzazione di oltre 100 mila insegnanti attuata con la Buona scuola all’accorciamento sperimentale di un anno della scuola secondaria di secondo grado, dalla valorizzazione del merito degli insegnanti ai concorsi per l’assunzione dei dirigenti scolastici. Ma la misurazione delle competenze degli studenti ci riporta implacabilmente all’esistenza di divari che non dovrebbero esserci. Tanto più quando ci troviamo alla vigilia di trasformazioni importanti, quali la regionalizzazione del sistema scolastico che l’autonomia rafforzata potrebbe comportare. Se anche i servizi di rilevazione delle competenze venissero regionalizzati, il problema dei divari regionali risulterebbe definitivamente risolto: ciascuna regione nella propria autonomia potrebbe definire obiettivi formativi e modalità di misurazione localmente validi, ma per costruzione non comparabili. Niente più fastidiose differenze territoriali di cui occuparci: occhio che non vede, cuore che non duole. Un danno non minore si produrrebbe se i test Invalsi cessassero di essere rilevati in modalità censuaria (come accadrà quest’anno per il neo-introdotto test in quinta superiore, dove la partecipazione individuale sarà facoltativa), dato che presumibilmente solo gli studenti più capaci si sottoporrebbero alla prova: l’Italia finirebbe così col privarsi dell’unico strumento di monitoraggio efficace del proprio sistema scolastico.

Il difficile rapporto tra politica e ricercatori

Vi è infine un’ultima questione che riguarda il difficile rapporto che c’è in Italia tra politica e ricercatori. I test Invalsi infatti sono stati utilizzati non solo per dare un quadro del nostro sistema di istruzione, ma anche per cercare di capire quali strumenti siano più efficaci per migliorare le competenze dei nostri studenti. Vi sono studi che hanno indagato l’effetto di diversi input scolastici, ad esempio il numero di studenti per classe, la lunghezza dell’orario scolastico, la qualità dei dirigenti scolastici, l’esistenza di attrezzature informatiche, la formazione degli insegnanti, l’introduzione di borse di studio e così via. La politica non ha fatto grande uso dei risultati, come non si è data troppo da fare per intervenire laddove gli andamenti scolastici si rivelavano particolarmente deludenti. Non averlo fatto, però, non significa che non era necessario farlo o che non dovremmo provare a farlo in futuro. Rinunciare a misure comparabili di performance significa rinunciare a uno strumento di informazione cruciale per le azioni di governo, sia nella fase di definizione degli interventi che in quella della loro valutazione.

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Chi ha paura dei dati Invalsi? ultima modifica: 2019-02-27T04:33:59+01:00 da
Gilda Venezia

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