Spazi aperti e materiali didattici sono variabili da valutare anche più dei test.
Le priorità (a sorpresa) della presidente Invalsi: «Se funziona, molto meglio che sia vicina a casa»
di Orsola Riva, Il Corriere della Sera 22.6.2015.
«Non ha senso valutare una scuola solo sulla base dei suoi risultati Invalsi. Personalmente, se dovessi iscrivere mio figlio in prima elementare, non mi baserei certo solo su quello».
A parlare così non è uno dei tanti genitori diffidenti nei confronti delle prove standardizzate, e nemmeno uno dei tantissimi prof nemici della valutazione a mezzo test, ma — sorpresa, sorpresa — la presidente stessa dell’Invalsi, Anna Maria Ajello. Possibile?
«Naturalmente non sto dicendo che le prove Invalsi non servano — dice la professoressa Ajello —, ma che sono solo uno degli indicatori della qualità di una scuola. Dire, come ha fatto Roger Abravanel qualche giorno fa sulle colonne del Corriere , che rendere pubblici i test Invalsi servirebbe ad aiutare i genitori a scegliere la scuola migliore per i propri figli, significa attribuire all’Invalsi un ruolo che non ha. Le nostre prove servono a misurare le competenze dei ragazzi in due materie fondamentali come la matematica e l’italiano, ma da sole non bastano certo a valutare la complessa attività educativa dei singoli istituti dove si insegnano e si imparano anche molte altre cose».
Resta il fatto che i genitori sentono, oggi più che mai, il bisogno di mettere in sicurezza i propri figli a partire dalla scelta della scuola giusta. Ma il punto è: siamo sicuri che la scuola migliore con la emme maiuscola sia anche la migliore per i nostri ragazzi? Quanti adolescenti, soprattutto nel passaggio dalle medie alle superiori, sbagliano strada solo per assecondare le ambizioni dei genitori! La professoressa Ajello, da docente ordinario di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione qual è, prova a mettersi nei panni di un genitore alle prese con la scelta della scuola. «Se per esempio dovessi iscrivere mio figlio alla scuola primaria — dice — e fossi in dubbio tra un istituto con dei risultati Invalsi migliori, ma più lontano da casa, e quello sotto casa che è andato un po’ peggio nell’Invalsi, ma ha un bel giardino e ambienti ricchi di materiali didattici e che prende in carico con cura gli alunni che hanno specifiche difficoltà, io non esiterei a scegliere il secondo. Così mio figlio, crescendo, potrebbe andare a scuola da solo, sviluppare una maggiore autonomia, e al pomeriggio avrebbe più occasioni di incontrare i suoi compagni».
Già, ma il punto è proprio dove reperire queste informazioni. Finora ci si è sempre affidati al tam tam dei genitori, un sistema largamente imperfetto (perché in una stessa scuola la singola sezione e perfino il singolo prof possono fare la differenza, eccome!) e soprattutto ingiusto perché le famiglie svantaggiate, per non parlare degli immigrati, hanno più difficoltà ad attingere a questo genere di dati «sensibili».
«Ma da luglio le cose cambiano — dice Ajello —. Perché per la prima volta verrà pubblicato il rapporto di autovalutazione delle scuole, il cosiddetto Rav. Un documento che prevede 49 indicatori, uno dei quali è costituito dai risultati Invalsi, pesati però rispetto allo status socio-economico degli studenti e al contesto di provenienza. Perché non avrebbe senso confrontare la prestazione dei ragazzi di una scuola di Trento con quelli di Scampia. Io, per esempio, misuro un metro e sessanta: per gli standard scandinavi sono inesorabilmente bassa, ma in Messico sarei considerata alta. Una scuola va valutata per l’incremento che produce, non per il risultato puro e semplice».
A parte l’Invalsi, nel Rav i genitori possono trovare moltissime altre informazioni per orientarsi nella scelta. Per esempio se la scuola promuove la condivisione di regole di comportamento fra i ragazzi, il grado di coinvolgimento dei genitori, se gli insegnanti lavorano in gruppo e si confrontano fra loro, se i laboratori funzionano ad orari rigidi o sono sempre aperti, come la scuola si confronta con il mondo (dalle visite ai musei alle esperienze di volontariato e agli stage di lavoro), se vengono organizzati corsi di recupero e cosa si fa per l’inclusione dei ragazzi con disturbi specifici. E ancora: quali sono gli esiti dei ragazzi all’uscita, dalle medie alle superiori e dalle superiori all’università o al mondo del lavoro… Si potrebbe obiettare che affidare il giudizio su ogni scuola agli insegnanti che ci lavorano non sia il massimo dell’obiettività. Non si capisce perché un prof dovrebbe autodenunciare le proprie manchevolezze.
«È un’obiezione sensata — dice Ajello —. Ma facciamo il caso che io sia un docente che non usa mai i laboratori e dichiari il contrario. Magari da quel momento in poi inizio a confrontarmi con i colleghi su come utilizzarli di più e meglio. Il Rav serve ad accendere un riflettore…». Soprattutto ad aprire uno spazio di dibattito e di riflessione all’interno della scuola. Perché — fa capire la presidente dell’Invalsi — la valutazione non si fa contro i prof, ma con loro. E questo è un primo passo.