Contro il binomio autonomia-valutazione

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di Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, Roars, 7.4.2021.

Nell’ultimo contributo dedicato all’idea di scuola di cui si fa interprete il nuovo ministro dell’Istruzione, ci concentriamo sulla coppia concettuale a nostro parere più rappresentativa: il binomio “autonomia” – “valutazione”. Tale accostamento non è una novità di oggi, ma si salda e si va progressivamente consolidando a partire da elaborazioni teoriche che datano agli anni Novanta. Fu allora che si pose e si formulò come ovvio quel legame scuola-società-economia su cui doveva essere rifondato per intero il paradigma dell’istruzione. L’analisi  che proponiamo, che mette a confronto i documenti di allora e quelli attuali, analizzati più ampiamente nel contributo precedente, ci sembra lo dimostri con poche possibilità di fraintendimento. È presente però un elemento all’apparenza nuovo nei documenti recenti. L’idea di scuola e di società vengono presentate con modalità linguistiche di carattere etico-sociale che le rendono indiscutibili, se non a costo di porre a rischio l’avvenire delle future generazioni. Lo scopo è quello di imporre una sorta di “vincolo deontologico” alle scuole e a chi in esse lavora. Tale strategia linguistica, tipica della cultura e dell’ideologia neoliberale, che ha trasformato lo spazio pubblico e si è consolidata nel corso di trent’anni, capita oggi in un momento assai propizio. Con una soggettività docente logorata da decenni di delegittimazione, che ha spesso interiorizzato questa comunicazione “eticamente intimidatoria”; con scuole che hanno metabolizzato una logica economico-competitiva e che parlano la lingua del management e della promozione aziendale. Tutti segni, questi, che il binomio autonomia-valutazione, lungi dall’esser stato tradito o inapplicato, ha lavorato bene e in profondità, in  questi decenni. E che quindi la sola reale novità sarebbe rompere quest’incantesimo.

Gilda Venezia
 

Siamo dunque alla fine del percorso di analisi dedicato al progetto di trasformazione dell’istruzione elaborato dalla commissione ministeriale presieduta da Patrizio Bianchi e presentato anche nel suo libro Nello Specchio della Scuola (qui il primo contributo di questa serie di approfondimenti; qui il secondo).

È giunto dunque il momento di sottoporre a critica il nucleo centrale di quel progetto, che si può sintetizzare in due parole chiave: autonomia e valutazione.

Questo binomio inscindibile, a partire dagli anni 90, ha rappresentato il filo rosso tra tutti gli interventi di riforma del nostro sistema di istruzione, muovendo da esigenze di tipo amministrativo- economico-sociale, ben collocate su un terreno internazionale, poi assorbite e metabolizzate dall’istituzione scolastica.

È il 1990 quando Sabino Cassese, scrive, in occasione della Conferenza Nazionale per la Scuola organizzata dal Ministero della Pubblica Istruzione, anticipando quelle che sarebbero state le principali direttrici della politica scolastica successiva, che:

col mutare del rapporto tra Stato e società e di quello tra scuola e Stato, ci si è andati lentamente rendendo conto che lo Stato non può essere responsabile dell’istruzione. Lo è la scuola, in quanto corpo dotato di autonomia. [..] La scuola non serve allo Stato, non ne è organo, né può essere organo della regione, della provincia o del comune, ma serve a una funzione, quella dell’istruzione, di cui è responsabile”.

Il principio affermato in quella sede diventa poi elemento essenziale di un ampio Rapporto sulle condizioni delle Pubbliche Amministrazionidel 1993, coordinato dallo stesso Cassese, governo Ciampi, che inserisce l’istruzione nel quadro di una ristrutturazione generale del sistema di amministrazione del Paese, di cui la prima tappa è la legge 29/1993, con cui si privatizza  il rapporto di impiego pubblico, trasformando lo status giuridico degli insegnanti in quello di lavoratori subordinati,  con diretto  superiore gerarchico. Si affermano i principi di trasparenza, qualità, soddisfazione dell’utenza, controllo dei risultati; si denuncia, nel sistema di istruzione, una carenza della “cultura della valutazione” necessaria per la sua modernizzazione.

Nei pochi anni che seguono si attua una vera e propria rivoluzione dell’assetto del sistema scolastico.

IL 24 Settembre 1996, nel  Patto per il Lavoro tra Governo Prodi e Parti sociali si conviene che :

L’assenza nel nostro Paese di un’offerta sufficientemente dimensionata e articolata di professionalizzazione per giovani ed adulti per un verso, la rigidità e impermeabilità della scuola dell’altro, hanno determinato una grande dispersione di risorse umane, una frattura fra sistema formativo e lavoro che rischia di avere ricadute negative sul nostro sistema produttivo.[..] In questo contesto l’autonomia consentirà alle istituzioni scolastiche di dialogare efficacemente con tutti i soggetti interessati, sociali e istituzionali, e di rendere flessibile e personalizzare il percorso formativo. [..]

E’ necessario [..] attivare un sistema di ricognizione permanente della quantità/qualità dell’offerta formativa che ne verifichi la coerenza con gli effettivi fabbisogni della domanda di lavoro richiesta dal sistema produttivo anche settoriale; [..] riordinare l’assetto complessivo del sistema scolastico. Rivedere e riqualificare i programmi scolastici anche attraverso l’introduzione di metodologie didattiche idonee ad attivare abilità e a valorizzare propensioni in un rapporto costruttivo e dinamico con il mondo del lavoro.

[..] La possibilità di aggiornare e modificare conoscenze e abilità anche professionali deve essere agevolata dall’adozione di un sistema di crediti formativi, secondo la logica proposta dai più recenti orientamenti dell’Unione Europea. Il sistema di istruzione e di formazione, anche di livello universitario, va collocato in questa prospettiva, e diviene la base su cui innestare proficuamente interventi di formazione continua e di educazione degli adulti.”

Tra le riforme Bassanini del 1997, in particolare la legge 59, all’art. 21  istituisce l’autonomia delle scuole, cui seguono la legge sulla parità scolastica voluta dal ministro Berlinguer (legge 62/2000)- ovvero la fungibilità tra scuole statali e paritarie –  e la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che richiama esplicitamente l’autonomia delle istituzioni scolastiche nella definizione del riparto di competenze legislative Stato- Regioni.

Uno dei documenti più significativi di quegli anni di grande trasformazione, che permette bene di cogliere la cornice culturale in cui collocare quell’autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche – didattica, organizzativa e di ricerca – regolata con decreto nel 1999,  è rappresentato dalle “Linee guida per la diffusione della qualità nella scuola” del 2001, del Ministro Tullio De Mauro. Ne riportiamo di seguito la premessa e pochi passaggi chiave.

Come è noto, da più anni il Ministero della Pubblica Istruzione e Confindustria hanno instaurato sistematici e proficui rapporti di collaborazione, finalizzati all’innalzamento della qualità e dell’efficienza del sistema dell’istruzione, all’ampliamento dell’offerta formativa, alla realizzazione di organici e puntuali raccordi e interazioni tra scuola e mondo della produzione e del lavoro, al costante adeguamento e miglioramento dei livelli di istruzione, in sintonia con i rapidi e continui processi di trasformazione che caratterizzano la società in cui viviamo. [..]

Sono stati stipulati tre protocolli d’intesa sottoscritti rispettivamente: il 18 luglio 1990, il 19 aprile 1994, il 16 marzo 1998. I citati protocolli, con i quali si è dato senso e rilevanza istituzionale a forme di cooperazione tra il sistema scolastico e il sistema imprenditoriale, per il passato sperimentate solo in maniera episodica ed occasionale, hanno trovato fondamento nella consapevolezza, ormai matura e diffusa, che la scuola, per rispondere nella maniera più idonea alle attese e aspettative della società civile, non può essere lasciata sola, ma va adeguatamente sostenuta, indirizzata e incentivata.. Si è superato così, e non solo sul piano formale, un vecchio luogo comune secondo cui la scuola doveva interessarsi e farsi carico solo dell’istruzione, mentre l’impresa doveva preoccuparsi solo di produrre beni e servizi  [..]

In tale ottica nasce e prende consistenza la “Qualità dell’istruzione”[..]

L’autonomia, ponendo le istituzioni scolastiche al centro dell’impianto educativo e formativo, ha operato una vera e propria rivoluzione nella cultura e nel modo di essere e di funzionare del sistema scolastico.

[..]

È noto che la scuola dell’autonomia, ispirandosi nelle sue azioni ai canoni e alle regole della “Qualità”, si propone come un soggetto culturale che attende al proprio ruolo e ai propri compiti con mentalità imprenditoriale, capacità progettuale, spirito di iniziativa e senso di responsabilità, razionalizzando e ottimizzando le proprie risorse e facendo sì che i risultati siano coerenti con gli obiettivi prefissati.”

L’autonomia scolastica, interpretata e salutata dalle scuole di quegli anni come foriera di un rinnovato spazio di elaborazione culturale, come occasione di autogoverno e culmine di una stagione di profonda partecipazione, cominciata negli anni 70, aveva dunque una sua matrice culturale ben delineata e dichiarata.

Sta qui la reale rivoluzione, che segna un cambio di passo: trasformare la scuola in un soggetto culturale che attende al proprio ruolo con mentalità imprenditoriale; inserire nel vocabolario e nell’immaginario scolastico i principi di ottimizzazione e razionalizzazione, di gestione e promozione tipici del management aziendale.

La “qualità” istituisce il nesso autonomia-valutazione, per cui risulta naturale dichiarare, come si scrive oggi, nel Rapporto Finale della task force presieduta dal ministro Bianchi che:

L’autonomia scolastica si accompagna necessariamente al processo di valutazione del sistema. Nel ridisegnare la nuova scuola la valutazione deve essere potenziata e percepita dalle stesse istituzioni scolastiche come atto di responsabilità necessario.”

E per valutazione si intende, ovviamente ed in perfetta continuità con la china riformista che ci accompagna da allora:

-“definizione di forme di valutazione/apprezzamento dell’insegnamento, nonché di feed-back circa la sua qualità”,

il che sarebbe il fondamento di quella che oggi si definisce didattica inclusiva, in quanto:

«[una didattica inclusiva necessita anche di] dimostrazione di efficacia (i risultati dell’insegnamento devono essere dimostrati e non soltanto affermati)”.

E ancora:

[definizione degli] standard da raggiungere in tutto il paese.. rilancio del Sistema nazionale di valutazione (SNV), indispensabile per permettere a ogni istituzione di verificare e migliorare il proprio posizionamento”.

Gli anni 1990-2000 sono anche quelli in cui si avvia la costruzione di uno “spazio internazionale dell’educazione“ e prende forma a livello comunitario la cosiddetta Strategia di Lisbona che si impegna a “rendere l’Europa la società basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo”, o, come si va immediatamente traducendo,  con significativo slittamento semantico, una “economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica al mondo”.

Questa iniziale sovrapposizione delle categorie “società- economia” sarà destinata progressivamente a crescere, fino a giungere a definitiva integrazione nei decenni successivi[1]. Si apre quella che una letteratura interdisciplinare ormai consolidata individua come fase di trasformazione neoliberale dello spazio pubblico.  Le istituzioni educative non si sottraggono a tale radicale metamorfosi.

Non a caso, è nel 2000 che nasce la prima indagine standardizzata su scala internazionale delle competenze dei 15-enni preparata dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE). Il Programma Internazionale per la valutazione degli Studenti (PISA, Program of International Student Assessment) diverrà, come a distanza di oltre 20 anni sappiamo, uno strumento di governo e di indirizzo delle politiche educative[2] e delle pratiche scolastiche dei sistemi di istruzione dei paesi aderenti.

Nel Memorandum europeo sull’istruzione e la formazione permanente del 2000 si dichiarano apertamente le linee di riforma scolastica che gli Stati membri saranno chiamati ad implementare, ribadite poi nelle numerose comunicazioni e raccomandazioni[3]  successive.

È interessante rileggere alcuni dei documenti di quegli anni, per almeno due motivi. Da un lato, la prosa che oggi ci appare chiara e lineare, non ancora deformata dall’enfasi retorica e dalle forzature linguistiche che hanno caratterizzato i documenti istituzionali successivi, rende evidenti le premesse, i nessi e le finalità; dall’altro, le riforme e le intenzioni dichiarate in quegli anni consentono di riposizionare e storicizzare ciò che oggi ci viene proposto come “innovazione”, esigenza “necessaria”, addirittura come unico esito socialmente  possibile dopo l’attuale crisi pandemica.

Segnaliamo per punti gli elementi a nostro parere più significativi[4] che l’Europa indirizzava agli Stati Membri:

  • I sistemi di apprendimento devono adattarsi agli odierni stili di vita e alla nuova impostazione dell’esistenza;
  • Imparare ad apprendere, sapersi adattare al cambiamento e gestire i grandi flussi d’informazione sono le competenze generali di cui ciascuno di noi oggigiorno dovrebbe disporre. I datori di lavoro esigono sempre più dalla manodopera la capacità di apprendere, di assimilare rapidamente le nuove competenze e di adattarsi alle nuove sfide e situazioni;
  • Si possono acquisire conoscenze utili in maniera piacevole anche nell’ambito della famiglia, durante il tempo libero, in seno alla collettività locale e il proprio lavoro quotidiano;
  • Si propone di trasformare le scuole e i centri di formazione in centri locali polivalenti di acquisizione delle conoscenze, dotati di collegamento a Internet e accessibile ai cittadini di ogni età;
  • Partenariati non restrittivi e approcci integrati consentono di raggiungere i (potenziali) utenti e di rispondere in maniera coerente ai loro bisogni e alle loro esigenze in materia di apprendimento; Tali partenariati beneficiano innanzitutto della partecipazione attiva degli organismi locali e regionali e delle organizzazioni della società civile, che sono prestatarie di servizi vicini ai cittadini e che meglio rispondono ai bisogni specifici delle comunità locali;
  • Bisogna innanzitutto procedere ad una revisione e ad una riforma minuziosa della formazione iniziale e permanente degli insegnanti [..] Il profilo professionale del docente cambierà sostanzialmente nei prossimi decenni: insegnanti e formatori diventeranno consulenti, tutori e mediatori. [..]metodi didattici basati sulle TIC, miglioramento e innovazione di metodi pedagogici [..];
  • La domanda crescente di manodopera qualificata da parte dei datori di lavoro e l’intensificazione della concorrenza [..necessitano di..] forme innovative di certificazione dell’apprendimento non formale al fine di allargare lo spettro del riconoscimento delle qualifiche;
  • Vanno precisati il ruolo e l’impegno dei diversi protagonisti sul mercato della formazione (le imprese commerciali, le ONG, gli organismi professionali, le autorità locali, lo stato e, ovviamente, i singoli interessati). [..]
  • Con il prender forma di un mercato dell’istruzione e della formazione, è necessario raccogliere informazioni sui prestatori e sulle componenti economiche…sui costi e sulla disponibilità dell’offerta.

Se proviamo, anche solo come esercizio teorico, a confrontare l’elenco di proposte qui richiamate con quelle ben individuabili dalle pagine della documentazione istituzionale più recente (vedi secondo contributo ) o dalla bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza [5], è immediato cogliere la sostanziale sovrapponibilità di idee e di indirizzi: riforma della carriera docenti, da trasformare progressivamente in “tutori” e “consulenti”; scuole come “centri polivalenti” del territorio (i “Patti di comunità”); costruzione graduale di un mercato dell’istruzione e della formazione.

Ciò che rende marcatamente differente i testi degli anni 90 da quelli prodotti dalla commissione Bianchi oppure, ancor più, dalle tavole rotonde o dibattiti attuali è una sorta di nuovo galateo linguistico, che utilizza categorie concettuali e lessico eticamente “intimidatori”, facendo largo uso di parole semanticamente riconfigurate, dunque ormai completamente vuote.

Così, nei documenti di oggi la parola autonomia è sempre “cooperativa” o “solidale”; la valutazione diventa “responsabilità”; il controllo, “trasparenza”; la concorrenza, “miglioramento”, la subordinazione gerarchica, “valorizzazione dei profili”, la povertà è quasi sempre “educativa” e mai materiale;  l’equità è la costruzione di standard uguali per tutti. Il capitale è spesso “umano”, ma soprattutto “sociale” o “culturale”. Si predilige oggi la categoria di “sviluppo umano”, in cui le “capacità”, al posto delle skills rendono il lavoratore/consumatore, “persona”.

Insomma, siamo ancora nel bel mezzo di una controrivoluzione culturale, che in 30 anni ci ha convinti che gli obiettivi della società potessero coincidere con obiettivi di natura puramente economica e che la cultura d’impresa, i suoi standard e la sua organizzazione, potessero essere applicati  anche all’educazione e all’istruzione.

Marco D’Eramo, fisico e sociologo, nel suo ultimo libro, “Dominio”, ci ricorda che in “quella che al pari di tutte le ideologie, si presenta come non-ideologica, a-ideologica e scientifica, a colpi di equazioni e formule matematiche” giochiamo una “partita truccata”.  Con quest’immagine si riferisce alla capacità dell’ideologia neoliberale di servirsi di sempre nuove categorie concettuali, di un lessico e di una simbologia che rendono sostanzialmente illeggibili le fondamenta del progetto di riforma dello spazio pubblico.

Incredibile, ad esempio, sentire oggi una vera e propria “litania sulla crescita delle disuguaglianze”, ma contemporaneamente anche una sua “totale sconnessione” dal problema del “dominio”. Porsi questo problema significa chiamare in causa i rapporti di forza in gioco, anche in campo globale.

Significa storicizzare e politicizzare i processi e le scelte, sottraendoli alla dimensione del “mito”  e dell’inevitabilità; notare le incredibili  convergenze attorno alle proposte culturali e ai principi – come è possibile che  oggi la  Fondazione Agnelli, il Consiglio Nazionale delle scuole della CEI, ConfindustriaINVALSI e tutte le forze politiche in campo condividano lo stesso progetto di riforma educativa?

Significa, ancora, rilevare lo stato drammatico della nostra informazione, in cui la concentrazione di potere ed interessi è ormai palese; o il livello del dibattito politico e pubblico insussistente. La “lotta all’eufemismo”, che sta alla base di quella che D’Eramo, gramscianamente, considera il primo passo del processo di ricostruzione culturale di una contro-egemonia (una “battaglia delle idee”, perché “le idee sono armi”) deve dunque partire dalla minuziosa analisi delle proposte concrete dei progetti di riforma e delle loro azioni, ripulite dal substrato retorico linguistico che le promuove. Sono tali azioni che, lungi dall’essere simboliche, produrranno materialissime conseguenze.

E se è vero che non esistono ancora proposte formalizzate dal nuovo Ministro Bianchi e dal governo Draghi, è altrettanto vero che molte possibili formulazioni sono già disponibili all’analisi. È per questo che abbiamo ritenuto fondamentale sottoporre ad attento approfondimento i documenti istituzionali e le tesi proposte nel libro del Ministro, nei contributi precedenti.

Ci chiediamo, allora [6]:

come è possibile, riproporre, oggi, lo stesso paradigma di riforma dell’istruzione, fondato sul binomio autonomia-valutazione?

La constatazione del declino culturale generalizzato  – corroborato, come piace adesso, dalle statistiche internazionali e nazionali -la constatazione dell’aumento dei divari e delle differenze Nord- Sud, o aree interne-periferiche e grandi centri cittadini; la polarizzazione sociale, la frammentazione schizofrenica della gestione pandemica; lo stato in cui versa il sistema sanitario nazionale, trasformato in un insieme di aziende territoriali in concorrenza gestite con criteri manageriali e largamente privatizzato non sono forse conseguenze empiriche sufficientemente evidenti da indurre ad una messa in discussione del modello di riforma?

Ad oltre 20 anni dalla sua formulazione, non è giunto il momento di aprire un ampio, plurale e partecipato dibattito pubblico sul principio autonomistico, applicato a tutti i livelli istituzionali, ed in particolare all’istruzione?

Ancora: qual è il nesso – chiediamo al Ministro Patrizio Bianchi – tra l’autonomia radicale prospettata come principio di riforma e l’autonomia differenziata in campo scolastico delineata dalle richieste avanzate da regioni come Veneto, Lombardia e, in particolare, dalla “sua” Emilia-Romagna?

Non ci convince la valutazione che sia nel testo di Bianchi che nel Rapporto tecnico della task force si dà sulla mancata applicazione e compiuta realizzazione dell’autonomia scolastica da parte di una scuola inerte, immobile e autoreferenziale, che non sa e non intende rinnovarsi.

Noi crediamo che, lungi dall’essere stata “insabbiata” o tradita, la cultura dell’autonomia e della valutazione abbiano profondamente trasformato la scuola, il suo assetto di governo, la sua organizzazione, i suoi linguaggi.

Si tratta di trasformazioni molecolari, apparentemente poco visibili a chi ne osserva dall’esterno la sua forma e la sua ritualità a prima vista immutabili.

È possibile affermare che le notevoli criticità della scuola italiana si siano decisamente amplificate proprio a partire da queste trasformazioni?  A nostro parere questa è un’evidenza concreta difficilmente contestabile.

Tuttavia, questa constatazione viene letteralmente ignorata. Non mancano interventi e analisi che individuano proprio negli ultimi decenni un progressivo intensificarsi di tali criticità. Di recente,  Alessandro Rosina, in un articolo sul Sole 24 Ore dichiara che:

il “disastro” da cui oggi dobbiamo risollevarci non è solo quello provocato dalla pandemia, ma ancor più quello a cui ci hanno portato decenni di scelte deboli e inefficaci, il cui riscontro più eclatante sono proprio i valori degli indicatori che misurano la qualità dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni, da leggere in modo sistemico con quelli dello sviluppo competitivo del Paese.”

Dunque, sebbene tanto sia stato fatto su scuola, università e mercato del lavoro, si preferisce credere che ciò non sia sufficiente o non ancora abbastanza, piuttosto che prendere in considerazione la più logica delle conseguenze: e cioè che sia proprio quel modello di riforma introdotto in questi ultimi decenni ad avere causato la decadenza denunciata, cosa non viene neanche mai contemplata.

In pieno “realismo capitalista”, è più facile immaginare la fine del mondo che quella dell’eterno presente neoliberale in cui viviamo e moriamo.

Inoltre, è bene ricordarlo, le criticità denunciate non si rivelano in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, ma manifestano differenze strutturali e di opportunità che non vedono certo nella scuola la causa principale. Tale particolare viene sì ricordato, ma senza trarne le conseguenze dovute, come ad esempio una concentrazione degli investimenti e delle risorse  proprio in tali aree. SI preferisce invece strumentalmente utilizzarlo per una critica radicale della scuola nel suo complesso, come pretesto per scardinare l’intero sistema, in base a interessi che abbiamo richiamato, e che nulla hanno a che fare con la possibile risoluzione di questi drammatici problemi territoriali.

Queste due “immagini” della scuola di oggi, parlano da sole:

 

 

Queste foto – tratte dai siti istituzionali di due qualsiasi scuole del Paese, e rappresentanti, rispettivamente,  un “atto di indirizzo” emanato dai dirigenti scolastici italiani per la definizione del “piano dell’offerta formativa triennale”, o le “campagne di marketing” con cui gli istituti si promuovono nei periodi di nuove iscrizioni  – restituiscono il senso concreto delle trasformazioni reali che la scuola ha vissuto, cui spesso ci si riferisce coi termini di  burocratizzazione,  aziendalizzazione,  concorrenza generalizzata.

La scuola di oggi parla, pensa, organizza e promuove se stessa con la lingua dell’autonomia, della valutazione e della qualità, che è la lingua di un’istituzione che concepisce se stessa e lo spazio pubblico come un luogo pubblico di interessi privati.

Non pensiamo sia un azzardo interpretare questo modo di comunicare da parte delle istituzioni formative come un segno tangibile di decadenza culturale e civile: l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere un atteggiamento realmente inclusivo e solidale.Il fatto che molte scuole abbiano interiorizzato questa logica e questo linguaggio, mortificando la loro autentica funzione formativa, volta all’emancipazione intellettuale, civile e politica di chi le frequenta, per renderle invece soggettività subordinate, diventa l’esemplare specchio dei tempi a cui risulta doveroso reagire.


[1] Vedi saggio di Andrea Cerroni: “Per una scuola di qualità: l’europardismo e la brezza di Ventotene”, nel volume “Il contributo dell’orientamento e del counselling all’agenda 2030, a cura di Soresi, Nota, Santilli, 2019.

[2] V. Rossella Latempa, “La valutazione totalitaria”, in La scuola dell’ignoranza, Mimesis, 2019.

[3] Cfr.  nota 2 o i tanti contributi dell’associazione belga “APED”, coordinata dal fisico e ricercatore indipendente Nico Hirtt: https://www.skolo.org/ .

[4] Tutte le citazioni sono tratte dal Memorandum europeo nel link del testo.

[5] La bozza a cui ci riferiamo sembra essere stata confermata nelle sue linee di intervento dall’attuale Ministro Bianchi, espressosi in audizione al Senato, il 16 Marzo 2021 https://www.youtube.com/watch?v=2MALos6Wb8Y .

[6] Sia Nel libro Nello Specchio della Scuola che nel Rapporto Finale riteniamo importante il riconoscimento del sottofinanziamento strutturale e decennale alla radice delle problematiche scolastiche.

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