di Maurizio Tucci, Il Corriere della sera, 12.4.2020
– La mia rivincita contro il collega «babbione» –
Un e-book di Maurizio Tucci racconta storie di adolescenti e di professori alle prese con la didattica a distanza. «Temevamo la guerra, è arrivato il virus»
Sedici racconti, sedici storie di vita al tempo del Coronavirus, ambientate a Milano, che interpretano le speranze, i sogni, gli incubi, la volontà di rinascita di tutti noi, dando voce a persone di ogni generazione e condizione che affrontano il lock-down. «Sapessi com’è strano», con chiaro riferimento alla vecchia canzone di Ornella Vanoni, è il titolo dell’e-book firmato da Maurizio Tucci il cui ricavato sarà interamente devoluto al Fondo di Mutuo Soccorso per il Coronavirus del Comune di Milano. L’e-book – disponibile in rete, su tutti i principali portali dedicati alla vendita di libri (questo il link per scaricarlo ) è pubblicato da Tralerighe, giovane casa editrice indipendente milanese e dalla Associazione Laboratorio Adolescenza. Ecco due racconti.
Voglio 9 in filosofia
Ieri mi ha telefonato un giornalista per un’intervista. Wow, intervistata. No, scherzo. Cioè no, non scherzo, mi ha telefonato davvero. È un giornalista che ho conosciuto a scuola per un lavoro che abbiamo fatto quest’anno sul rispetto tra i generi. A scuola… quando ancora andavamo a scuola. Comunque vabbé, mi ha chiamata per una cosa che stava scrivendo e abbiamo parlato di come noi ragazzi stiamo vivendo questa vicenda.
Poi però mi ha fatto una domanda che mi ha un po’ spiazzata: «Se due mesi fa avessi dovuto pensare a qualcosa che avrebbe potuto metterci tutti contemporaneamente in pericolo, a cosa avresti pensato?».
Ci ho pensato un attimo: a un virus certamente no e anche quando si è cominciato a parlare del virus in Cina l’avevo sempre considerato un virus dall’altra parte del mondo. «A una guerra», ho risposto.
Basta, un po’ di altre chiacchiere e «intervista» finita.
Ma poi dopo, a quella domanda, ho continuato a pensare e ancora ci penso. Una guerra? Ok, in teoria sì, ma tra chi e chi? Sì, guerre purtroppo ce ne sono tante nel mondo, anche vicinissime. In Siria. In Curdia? (forse si dice in un altro modo), ma lui mi aveva chiesto una cosa che riguardasse me, noi. È un po’ tanto improbabile che quel tipo di guerra possa arrivare qui. E allora? Il terrorismo? Certo, può colpire chiunque e dovunque, ma non tutta una nazione contemporaneamente. Una catastrofe naturale tipo terremoto, o tzunami? Sì, ma anche in questo caso a essere colpita è una zona. Non è che da un momento all’altro può sprofondare tutta l’Italia. E allora? Più ci penso e più mi accorgo che non so rispondere. Ma allora faccio un’altra riflessione – raga, sto diventando un vulcano: e se non ci fosse stato niente altro che avrebbe potuto creare una situazione come questa? Ma per «logica» non è possibile, altrimenti dovremmo negare anche questa. Ok, voglio nove in filosofia. Mi fermo qui, perché oltre non ci arrivo, ma forse una cosa l’ho imparata. Non dare mai niente per scontato. Vale per tragedie come questa, ma penso che debba valere anche per le piccole cose.
Mi spieghi come si fa
«Mi spieghi come si fa?».
«Grazie, sei bravissima».
«Meno male che ci sei tu».
Ecco, me le vorrei registrare. Passo cinque ore al giorno al computer nella classe virtuale che ho messo su per i miei studenti e altre cinque ore al telefono a spiegare ai colleghi come si fa. L’idea di poter affiancare esperienze di didattica online alle normali lezioni a scuola è una mia fissa da sempre. E nella mia scuola ci avevo provato in tutti i modi ad avviare una sperimentazione. La mia richiesta era perennemente all’ultimo punto dell’ordine del giorno dei vari collegi docenti, a quell’ultimo punto a cui naturalmente non si arriva mai e si rimanda all’incontro successivo. Al collegio di dicembre, ironia della sorte, avevo chiesto con una certa veemenza che si discutesse la mia proposta, ormai in attesa da mesi, ma prima che la dirigente potesse aprire bocca il docente di italiano e latino della sezione più prestigiosa e «icona» della scuola, si alza e mi apostrofa: «Collega, per carità, rassegnati. La scuola, per fortuna, è fatta di banchi, lavagna e gesso. Dacci tregua. Capisco la tua passione, ma forse hai sbagliato mestiere. Manda un curriculum alla Microsoft così facciamo la loro, la tua e la nostra felicità». Risata generale.
A fine collegio la dirigente mi ha chiamata per mostrarmi, almeno, la sua solidarietà: «Le chiedo scusa io a nome del collega. La sua proposta a me piace, la condivido, ma non si può andare controcorrente. Il novanta per cento dei docenti non la pensa così e non possiamo imporla». E adesso quel novanta per cento sta facendo la fila al telefono per chiedermi come muoversi tra piattaforme, tablet e computer, per tirare avanti alla meno peggio un anno scolastico che chissà come finirà.
La mia «vendetta» è l’affabilità con cui rispondo a tutti. Certo, la tentazione di rimandarli ai loro banchi, gessi e lavagne c’è stata, ma alla fine è più divertente così. Molti hanno anche l’accortezza di scusarsi per il passato e, almeno nelle conversazioni con me, l’icona della scuola è diventato un vecchio rincoglionito che speriamo se ne vada finalmente in pensione.
Certo, quella che stiamo vivendo è un’emergenza senza precedenti; non si può dall’oggi al domani ribaltare l’insegnamento e trasferirlo in rete e anche se si potesse, non avrebbe comunque senso. I banchi, la lavagna e il gesso servono eccome; la scuola è anche interazione sociale, per i ragazzi.
A loro – lo percepisco benissimo in questi giorni – la scuola manca perché, a quell’età, è l’essenza della loro vita. Ma spero che tutta questa drammatica vicenda aiuterà noi insegnanti a capire che servono entrambe le cose; serve anche iniziare a utilizzare, con il dovuto dosaggio, nuovi strumenti e nuovi metodi didattici. Ma non deve essere una guerra di religione: o da una parte o dall’altra. Non è una sfida tra l’ex-icona-neo-rincoglionito e me, che non ho sbagliato mestiere e non ho nessuna intenzione di andare a lavorare alla Microsoft, ma una ragionevole considerazione: negli ultimi decenni tutto è cambiato, non è possibile che solo la scuola sia rimasta la stessa del secolo scorso e che i prof siano suppergiù quelli di Amarcord di Fellini. Mio nonno era un colonnello dei carabinieri: «Fedele nei secoli», diceva sempre riferendosi all’Arma. Ecco, forse il coronavirus servirà almeno a far capire che la scuola deve mantenersi fedele nei secoli nella sua missione educativa, ma non nei metodi e negli strumenti.
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Maurizio Tucci, Laboratorio Adolescenza Milano
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