Didattica inclusiva ed esclusione sociale. Analisi di un paradosso

roars_logodi Carlo Scognamiglio,  Roars, 25.2.2020

1.

Con una nota del 3 aprile scorso il Ministero dell’Istruzione (Miur) è tornato a richiamare l’attenzione dei docenti sulla complessa questione della didattica per gli alunni con bisogni educativi speciali (Bes). Per i non addetti ai lavori, si tratta di una macro-categoria, mediante la quale ci si riferisce ad aree di tutela differenziate – come l’ambito della disabilità (cui fa riferimento la legge 104/1992) l’area dei disturbi specifici dell’apprendimento (legge 170/2010), e a cui si aggiungono – in virtù di una direttiva del 2012[1] – tante altre situazioni di svantaggio o marginalità, alcune delle quali estranee a qualsiasi processo diagnostico, ma pure riferentisi ad allievi bisognosi di misure didattiche peculiari (ad esempio gli alunni provenienti da contesti degradati). Gli studenti in situazione di disabilità cui fa riferimento la legge 104 sono accompagnati nell’apprendimento e nell’integrazione sociale da insegnanti di sostegno (e spesso anche da assistenti educativi), che cooperano a diverso titolo con gli altri docenti, con la famiglia, con i medici e con eventuali strutture associative presenti sul territorio, nella definizione e realizzazione di un Piano educativo individualizzato (Pei). La legge 170 concerne invece le politiche di inclusione scolastica per gli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento (con particolare riferimento a dislessia, disgrafia e discalculia), per i quali non è prevista la presenza di insegnanti di sostegno, ma è riconosciuto il diritto a un Piano didattico personalizzato (Pdp), in cui siano esplicitate misure dispensative e strumenti compensativi, mirati a garantire il diritto all’istruzione. Analoga possibilità di ricorrere a un Pdp è prevista per altri casi di svantaggio, anche temporaneo (e qui il ventaglio della casistica è davvero ampio e sempre aperto a nuove situazioni critiche).

Secondo la nota definizione di Dario Ianes, «Bes è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in un funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il modello Icf dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata»[2].

Accade tuttavia che le politiche per l’inclusione stratificatesi negli ultimi anni, stanno rischiando di produrre un indesiderato e paradossale effetto di esclusione sociale. Un pericolo cui la nota ministeriale del 3 aprile intende offrire una prima risposta.

Non vi sono novità strutturali in quel testo, però il tono è significativo. In particolare, la nota ha il sapore di un serio richiamo rivolto a tutti gli insegnanti, con riferimento al rischio costante di incomprensione o distorsione delle finalità originarie della normativa recente in materia di inclusione. L’appunto ministeriale intende ribadire il significato originario del Pdp, uno strumento cui gli insegnanti sono tenuti a ricorrere per programmare in modo sistematico e condiviso le scelte didattiche relative agli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), ma che possono sottoscrivere anche in altri casi di «svantaggio», a seguito di una ponderata valutazione pedagogica. Sembra però che lo strumento, come forse era prevedibile, tenda a ridursi, nella quotidianità della sua replicazione, a uno stanco rituale burocratico: incapace di produrre effettivi passi avanti nell’apprendimento, e riducendosi a facile viatico per atteggiamenti liquidatori e pericolosi processi di etichettamento.

Il Pdp, viene ricordato, ha la funzione di dichiarare e sistematizzare gli interventi educativi e didattici: dichiarare, perché una prassi personalizzata, se implicita o spontanea, non garantisce sufficientemente l’alunno nel suo diritto alla mediazione di misure didattiche speciali, e al tempo stesso non attesta in alcun modo il «cosa» e il «come» di quell’attenzione pedagogica; sistematizzare, perché non è possibile affidarsi all’iniziativa saltuaria, parziale o personale di alcuni docenti, in particolari momenti dell’anno scolastico. Il Pdp deve infatti esplicitare le modalità con le quali vengono agite determinate scelte metodologiche di supporto al processo di apprendimento dell’alunno con bisogni speciali. Inoltre, aggiunge il Ministero, il Pdp deve servire anche a sollecitare un coinvolgimento attivo della famiglia, e garantire un controllo – o monitoraggio – del raggiungimento degli obiettivi. L’azione unilaterale della scuola è in certi casi possibile, ma non auspicabile. Con il Pdp la famiglia viene coinvolta in modo attivo, perché spesso in quella sede si assume anche degli impegni di lavoro coordinato con il corpo docente. Si tratta solo di uno strumento, certo, però importante: «È anche attraverso tale strumento che si realizza un sistema scolastico più equo e inclusivo, in cui la prospettiva pedagogica rivesta maggiore significatività di quella clinica. Non è pertanto la logica dell’adempimento burocratico a dover prevalere, quanto il principio della già citata “cura educativa”, fondato sulla responsabilità del docente – o meglio, del team docenti e dei consigli di classe – e sulla corresponsabilità dell’azione educativa»[3].

Questo è il passaggio chiave, dunque. Non si tratta di una mera prassi burocratica, ma neppure è legittimo articolare, neanche per leggerezza, tale procedura sulla falsariga di un protocollo sanitario. Il ricorso al modello diagnostico-clinico, che cerca l’etichetta sanitaria per attenuare l’ansia da insuccesso dell’insegnante, e che chiude ogni discorso assegnando una definizione medica al comportamento d’apprendimento dell’alunno, è frequente e rappresenta l’orizzonte problematico in cui stanno annaspando le politiche per l’inclusione. Per salvare il salvabile, il Miur ricorda agli insegnanti la maggiore significatività della prospettiva pedagogica su quella clinica e ancor di più su quella burocratica, ma occorrerebbe capire se non sia stato lo stesso Ministero a svuotare in parte quella sensibilità didattica, a tutto vantaggio di una semplificazione tecnicista. Lo stesso concetto di “cura educativa”, giocando sull’ambiguità semantica del sostantivo, strizza l’occhio al linguaggio medico.

Nella nota del 3 aprile il Miur aggiunge un passaggio non nuovo, ma che assume un significato importante: la questione dei cosiddetti «gifted children», i bambini con quoziente intellettivo superiore alla media, per i quali diventa spesso indispensabile predisporre un Pdp. Un tema, questo, sul quale è stato aperto un apposito tavolo tecnico ministeriale, mirato alla definizione di dettagliate linee guida. Non siamo di fronte a un disturbo clinicamente diagnosticabile come tale, ma in qualche modo si assiste a una deviazione dalla norma, dalla media. Ergo: didattica personalizzata. I bambini plus-dotati in alcuni casi danno segni di insofferenza nel contesto didattico ordinario, si annoiano, non si sentono compresi e talvolta sono isolati o stigmatizzati dai coetanei. In qualche caso, la manifestazione delle proprie frustrazioni assume forme che ne producono la confusione con la sindrome dell’Attention-Deficit/ Hyperactivity Disorder (Adhd), o con alcune varianti dello spettro autistico. Anche per i plus-dotati, dunque, occorre riconoscere l’esistenza di peculiari bisogni educativi, che eccedono la «normalità».

È indispensabile indagare, dunque, le vere ragioni di questa doppia distorsione: burocratica e riduzionista (in senso bio-medico).

2.

Dal punto di vista dell’individuo e della sua condizione psico-fisica, non esiste una correlazione automatica tra situazioni di disabilità e tipologie di svantaggio socio-economico, o di scarsa attitudine alla socializzazione. Ciononostante viene concepita una macro-categoria, quella dei Bes, in cui ricade di tutto. L’ambito dell’oscillazione viaggia da gravissime problematiche legate alla condizione di salute o ad alcune alterazioni del sistema neurologico, fino alle difficoltà di adattamento per ragioni economiche, sociali, linguistiche, psicologiche. Tuttavia – e questo complica il quadro da un punto di vista concettuale – su un piano sociologico la macro-categoria è giustificata, perché in tutti i casi la situazione di problematicità è il risultato dell’incontro tra gli individui e il modo in cui la società e le sue organizzazioni particolari si rivelano aperte o chiuse, producendo come effetto processi di inclusione o esclusione sociale. Il sopracitato esempio degli studenti talentuosi, per l’appunto, rientra nella casistica Bes solo in condizioni nelle quali la plus-dotazione genera uno stigma, o se è vissuta in modo particolarmente problematico dall’alunno, che ne risulta ostacolato sia nella vita scolastica che nell’integrazione sociale.

Se la macro-categoria ha dunque due estremi, oscillando dalla grave condizione di disabilità fisica e neurologica, fino alla provenienza da contesti sociali degradati, la dinamica dei processi reali non spinge le linee di intervento verso il secondo estremo dell’area di oscillazione, cioè verso una ristrutturazione sistemica del quadro sociale e organizzativo, per rendere aperta a tutti la scuola come altre istituzioni sociali. Al di là di ogni buona intenzione, accade l’esatto opposto, cioè il paradigma bio-medico fagocita tutto, anche ciò che gli è ontologicamente estraneo.

Si fa presto infatti a evocare un’indipendenza dall’eziologia, come pretende Dario Ianes (nella definizione dei Bes da cui siamo partiti), quando poi ci si riferisce al concetto di «funzionamento» nell’ambito della salute. Ianes cita infatti lo strumento che oggi ha determinato più di ogni altro una trasformazione profonda nella percezione dello svantaggio sociale, ricorrendo a un lessico nient’affatto neutrale. Tullio De Mauro, ragionando sui vari modi in cui ci riferiamo alle diverse sfere della disabilità, ripeteva che la discussione sulla terminologia in tale contesto incarna sempre una dura battaglia culturale e politica. E aveva ragione. Oggi ha prevalso, in modo radicale, il concetto di «funzionamento», mutuato appunto dall’Icf. Non c’è corso d’aggiornamento per insegnanti in cui i relatori non si esprimano ricorrendo a un lessico che riproduce la domanda sul «come funziona» un determinato individuo, o la sua mente. Non è solo una questione di parole. Chi controlla il linguaggio, diceva Gramsci, controlla la coscienza. E sul linguaggio si giocano le battaglie culturali più importanti.

Il concetto di funzionamento è palesemente mutuato dall’universo simbolico tecnologico-ingegneristico, che ha impresso la propria struttura logico-operativa alla ricerca bio-medica. Ci chiediamo ordinariamente come funziona un nuovo software o un elettrodomestico appena acquistato. Ce lo chiediamo perché assumiamo come implicito il fatto che esso abbia una o più funzioni definite, degli standard di efficienza, dei comportamenti attesi, rispetto ai quali lo strumento funziona o non funziona. Prevedibilmente, la trasposizione apparentemente innocua di questo lessico in campo antropologico produce effetti non sempre prevedibili. Lo schema è sempre lo stesso. Molto apprezzabile l’intuizione originaria che sta alla base dell’Icf: non classifichiamo o non etichettiamo il singolo, ma le sue dimensioni comportamentali o funzionali. L’Icf non è uno strumento classificatorio dei disturbi. Ma vengono ordinate tutte le funzioni e le disfunzioni, e quindi non ha direttamente a che fare con la disabilità, ma con gli schemi motori, cognitivi e comportamentali di ciascun essere umano. Si tratta dunque di uno strumento universale, che prescinde dalle condizioni di salute delle persone. Tralasciamo ogni considerazione sulla sua complessità o completezza. Ma l’effetto culturale è impossibile da gestire e si rivolta dialetticamente contro le intenzioni dei suoi artefici. La classificazione Icf, di fatto, disumanizza il soggetto. L’idea di aderire più o meno coerentemente a uno schema astratto di condotta normale riduce l’individuo a cosa.

Esiste una possibile comparazione con un altro fenomeno sociale, che può aiutarci a capire il sistema assiologico in cui ci muoviamo. Come gli studi critici sul tema delle disabilità stanno sempre più mettendo in evidenza, soprattutto negli Stati Uniti, esiste uno strettissimo legame tra razzismo e abilismo. Due costrutti analogamente mobili sul piano storico sociale, sono infatti quello di «razza» e quello di «deficit». Entrambi i costrutti contribuiscono parallelamente a forgiare il nostro concetto di normalità[4]. Ma occorre accortezza, perché qui il concetto di normalità non ha a che fare con la determinazione di ciò che è mediamente accettabile. La norma è il bene, è lo standard cui tutto deve tendere. L’essere umano normale è il bianco e atletico soggetto disegnato sulla tavola anatomica. Tutto ciò che si distanzia dal modello rientra nelle gradazioni della diversità. Questo vale sia da un punto di vista organico che cognitivo. Per tale ragione persino un quoziente intellettivo troppo elevato può essere considerato un problema, da trattare come caso clinico. L’approccio bio-medico interviene per spuntare le eccedenze, in qualsiasi forma esse si presentino. Ma non è un dato solo americano (negli Stati Uniti è tra l’altro impressionante la sovrapponibilità quasi totale delle diagnosi di disturbo e ritardo nell’apprendimento con l’appartenenza a gruppi sociali ispanici o afro-americani). Sappiamo fin troppo bene come, fino pochi decenni fa, i governi europei affrontavano, con politiche sanitarie senza dubbio criminali, il rapporto con le diversità[5]. Il problema dunque è al di qua della questione educativa, ed è quasi una pulsione pre-politica, fondata sul nostro bisogno di normalizzare qualunque aspetto della vita. Un approccio alla semplificazione e all’espulsione dell’eterogeneo, che è strettamente connaturato allo sviluppo del capitalismo, come suo principale precipitato culturale[6].

Nell’ultimo quarto di secolo l’insistenza sulla normalità, come contrapposta alla disabilità, si è avvinghiata al concetto di indipendenza, autonomia, diventando così la principale virtù della società liquida, nella quale i legami sociali sono precari e deboli, e in cui le vecchie reti di protezione sono scucite. Resta in piedi, come principale virtù dell’individuo monadico, l’autosufficienza. Il soggetto dipendente è senz’altro considerato, nella nostra società, meno desiderabile: «Tutto questo si traduce in situazioni scolastiche in cui il punto di partenza e, allo stesso tempo, l’obiettivo da raggiungere, è la norma, intesa quale spazio, ambito o distanza da compensare. Il processo di normalizzazione è frutto dell’accumulo di conoscenza attraverso l’osservazione, l’esame e la documentazione costanti che producono norme alle quali gli individui sono comparati e incoraggiati a conformarsi»[7].

3.

Assai complesso è il tema. Se per un verso il ricorso a meccanismi di etichettamento, specialmente se basati su un sistema di classificazione bio-medica, tende in qualche modo a disumanizzare la persona, nella sua non-conformità, rendendola meno umana dell’umano, è altrettanto vero che non è possibile non distinguere. Solo una posizione inutilmente radicale può negare la necessità di approfondire la conoscenza delle differenze, per meglio adeguare i propri strumenti pedagogici, ripetendo il vecchio adagio: per insegnare il latino a Giovannino, devi conoscere il latino… e Giovannino.

La domanda cruciale è se l’Icf sia un sistema di riferimento valido dal punto di vista educativo, o se invece sia solo l’esplicitazione di un rapporto autoritario nella gestione del potere biopolitico, funzionale a un mascheramento dello stesso sotto le spoglie apparentemente neutrali dell’autorità scientifica. In tal caso, sarebbe un film già visto, purtroppo. I sedicenti «normodotati» hanno forse bisogno di un sistema di classificazione sufficientemente asettico da potersi autoconvincere della oggettività e correttezza delle discriminazioni operate? E soprattutto, tale classificazione ha fini operativi? Certamente sì, perché è solo su quella base che «diviene legittimo, e persino eticamente corretto, intervenire per modificare la situazione dei corpi intralciati e disabilitati, perché essi – in quanto inabili e dipendenti – vengono posti sotto la tutela dei pienamente umani», i quali, a questo punto, dovranno «stabilire quali interventi siano i più adeguati a ripristinare, correggere o altrimenti modificare una situazione “inaccettabile” e “tragica”»[8].

Il dato interessante, è che proprio l’Icf, con le sue contraddizioni, ma pure con la sua radicale fissazione sul concetto di funzionamento, produce il connettore intrinseco tra riduzionismo bio-medico e burocratizzazione della gestione della disabilità. Nell’ultimo secolo, la prassi e la natura della burocrazia si sono sostanzialmente schiacciate sul taylorismo dei colletti bianchi. L’idea dell’efficienza è subentrata a quella che una volta era l’ossessione impiegatizia per la fedeltà. L’adesione al modello burocratico semplifica la vita dell’insegnante privandolo della responsabilità del processo decisionale. Il compito e l’onore del funzionario consistono appunto nell’eseguire pedissequamente, e con efficienza, norme e direttive[9]. L’astratta burocratizzazione, così ancorata al sapere medico, si avvia verso uno specialismo che finirà per restringere la cerchia di coloro i quali saranno reputati «competenti» nell’assumere decisioni educative nei confronti degli alunni con bisogni educativi speciali.

4.

Al netto di tali considerazioni, tuttavia, l’inclusione è, e deve rimanere, un obiettivo di cultura sociale da non mettere più in discussione. La definizione che ne offre l’Unesco, da questo punto di vista, è emblematica: «Risposta intenzionalmente organizzata al bisogno/diritto di istruzione di tutti i soggetti esposti al rischio dell’esclusione sociale» (Dichiarazione di Salamanca, 1994). Definizione, questa, perfettamente in linea con la nostra Carta costituzionale e che, ponendo l’accento sulla dimensione sociale del rischio, evita in qualche modo che quell’individualizzazione del «disturbo» riceva una risposta di fatto indifferente alla modificazione del contesto. Il tema politico è infatti questo, in realtà: se io mi concentro sull’individualità del bisogno speciale, e offro a questo bisogno una risposta personalizzata, cosa ho fatto per agire sul contesto? In che modo ho impedito che si costituisse il rischio di esclusione?

Una didattica realmente inclusiva, capace di intervenire sul contesto, richiederebbe maggiori strutture e soprattutto risorse, mentre un’inclusione a metà è drammaticamente frustrante. La via di fuga nella burocratizzazione e nell’etichettamento-delega è quasi un meccanismo di difesa attivato dagli insegnanti. Un aspetto di questa difficoltà del Miur di dare seguito alle proprie intenzioni, lo si può leggere nelle politiche salariali. Ogni novità e specificazione didattica viene aggiunta a parità di salario. Non è la solita lamentela, ma il frutto di un ragionamento lineare.

Se io avessi tre figli con tre diverse intolleranze alimentari – al glutine, al lattosio, alle uova – mi troverei di fronte ad alcune alternative possibili per organizzare la mia cucina. Potrei concentrarmi sugli alimenti tollerati da tutti, e costruire una dieta basata solo su carne, pesce, riso, vegetali. In tal caso, tuttavia, priverei ciascuno dei miei figli di alcuni ingredienti importanti per un’alimentazione articolata e completa. In alternativa, pur concentrandomi su quegli «alimenti condivisi», potrei gestire dei completamenti di menù con delle personalizzazioni ad hoc. Un po’ più complicato, ma fattibile. Richiederebbe molta attenzione e uno sforzo aggiuntivo, ma risolverebbe solo in parte il problema. L’ideale, infatti, sarebbe una dieta individualizzata. Dovrei dunque preparare pasti differenti per ciascuno, sulla base del fabbisogno e delle intolleranze.

Un genitore lo fa. Si tratta di un lavoro aggiuntivo, molto gravoso, ma per amore e per senso di responsabilità ci si sforza sempre di perseguire la strada più adeguata.

Ma quando il Miur e alcuni psico-pedagogisti raccomandano la massima attenzione ai bisogni individuali, dai plus-dotati alle esigenze degli studenti con ritardi cognitivi, inducendo i docenti all’elaborazione di una sistematica carrellata di Pei (Piani educativi individualizzati) e di Pdp –  comprensibilmente in aumento – e al tempo stesso chiedono di attribuire valore pedagogico e non burocratico a quelle carte (costruendo azioni didattiche personalizzate per ciascun allievo), di fatto esigono un lavoro, una formazione e una quantità di tempo aggiuntivi, ma a parità di salario. Si propone morbidamente una riduzione stipendiale. Alcuni insegnanti fanno questo sforzo, inserendo nel proprio percorso professionale tanto lavoro sommerso, non riconosciuto né retribuito. Ma quell’abnegazione non rende il tutto meno ingiusto. Altri insegnanti, invece, imboccano la via d’uscita della burocratizzazione, e nel facile ricorso a un riduzionismo bio-medico, facilitato dal riferimento, anche normativo, all’Icf.

Quali soluzioni, dunque? Nella cultura e nell’immaginario collettivo, l’idea della normalizzazione dev’essere progressivamente rivista, ma questo è un obiettivo di lunghissimo periodo, che ha a che fare con strutture e dinamiche intrinseche ai meccanismi produttivi e riproduttivi della società contemporanea. Per quanto concerne la scuola, si potrebbe intanto rimuovere ogni aspirazione alla definizione di standard e a contorte pratiche valutative, magari iniziando con la cancellazione delle prove Invalsi.

Inoltre occorrerebbe disinnescare il dispositivo normativo e culturale in base al quale viene scaricata la responsabilità di sistema sul singolo alunno. L’etichetta «Bes», nei suoi effetti, determina la trasformazione del singolo in un «caso», in un problema. Inizialmente ha rappresentato un indubbio passo avanti, rispetto al passato, ma per via di un’intrinseca contraddizione, in quella macro-categoria si annidano dei rischi degenerativi. Il bisogno «speciale» è infatti determinato dalle aspettative e dall’organizzazione della società e delle sue istituzioni, a cominciare da quella scolastica. Solo se sottoposta a una trasformazione radicale la didattica può diventare «aperta» ad altri modi di esistere e di apprendere, che a quel punto smetterebbero di essere considerati problematici: «La domanda iniziale non sarà più quale difficoltà non permetta all’alunno X di seguire la lezione, ma piuttosto quali condizioni gli consentano – con determinate caratteristiche individuali – di partecipare attivamente alla lezione»[10]. Ma per fare questo, siamo alle solite, occorrono idee nuove e investimenti importanti, l’assenza dei quali è forse il motivo principale del persistere di quello scarico di «responsabilità» sull’alunno. Non mi riferisco solo ai fondi per la formazione del personale scolastico, la quale è importante ma spesso di poco spessore. Intanto bisognerebbe modificare radicalmente le condizioni di lavoro, attraverso un dimezzamento del numero di alunni per classe. Una didattica personalizzata in un gruppo di trenta alunni è mera ipocrisia.

In futuro bisognerebbe provare a uscire dalla definizione di piani personalizzati, per approdare a programmazioni didattiche in cui siano esplicitate tutte le strategie per favorire la partecipazione. Forse non abbiamo bisogno di questa moltiplicazione di documenti. Pur acquisendo le necessarie informazioni su storie e problematiche di ciascun allievo, il team dei docenti e l’intera organizzazione scolastica dovrebbero progressivamente assumere una programmazione unica, ma dotata di struttura flessibile e capace di proporre diversi strumenti cui i diversi modi di esistere siano parimente titolati a partecipare, ciascuno secondo le proprie specificità.

Altro aspetto non trascurabile concerne lo status del docente: senza una politica salariale differente, quello status confermerà la sua graduale precipitazione (la professione tende a divenire sempre meno attrattiva per i laureati meglio preparati e motivati). Chi sceglie l’insegnamento come semplice ripiego, difficilmente sarà incline a una messa in questione permanente del proprio sistema di lavoro. Una nuova politica salariale non è dunque necessaria soltanto per dare agli insegnanti l’occasione e i mezzi per aggiornarsi e lavorare in sicurezza, ma deve acquisire il senso della progressiva riqualificazione della professione docente in seno a un sistema sociale avanzato.

Occorre dunque esser consci che senza una risposta di tipo sistemico, la contraddizione piegherà nella sua peggiore prospettiva di caduta: un’esclusione sociale derivata da processi di etichettamento e da inefficaci (perché burocraticamente automatizzate) misure dispensative, e quell’esclusione rischia di costituire l’essenza nascosta e profonda, di quella che continueremo a chiamare, paradossalmente, «didattica inclusiva».

 


[1] Direttiva Miur del 27 dicembre 2012: Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica.

[2] Si veda, in particolare: D. Ianes, Bisogni Educativi Speciali e inclusione. Valutare le reali necessità e attivare le risorse, Erickson, Trento 2005. L’Icf (International Classification of Functioning, Disability and Health) è una classificazione elaborata dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, approvata per la prima volta nel 2001, per mezzo della quale è articolato, in modo sistematico, lo stato di salute delle persone in relazione al loro ambiente fisico e sociale, definendo uno standard per la descrizione della salute e garantire una corretta comunicazione tra professionisti del settore.

[3] Nota del Miur, «Alunni con bisogni educativi speciali. Chiarimenti», prot. n. 562, 3 aprile 2019.

[4] Cfr. B. Algozzine, Restrictiveness and Race in Special Education: Facts that Remain Difficult to Ignore Anymore, «Learning Disabilities: A Contemporary Journal»,, III, 1, 2005, pp. 64-69; S.A. Annaramma, D. Collins, B. Ferri, Dis/Ability Critical Race Studies (Discrit): Theorizing at the Intersection of Race and Dis/Ability, «Race Ethnicity and Education», XVI, 1, 2013, pp. 279-299.

[5] Si veda, ad esempio, il recente e pregevole lavoro di Edith Scheffer, I bambini di Asperger. La scoperta dell’autismo nella Vienna nazista, Marsilio, Venezia 2018.

[6][6] Cfr. L. J. Davis, J’accuse: Cultural Imperialism- Ableist Style, «Social Alternative», XVIII, 1, 1999, pp. 36-40.

[7] G. Vadalà, Pratiche della disabilità nei contesti educativi: rappresentazioni e coordinate del discorso scolastico, in Aa.Vv., Disability Studies e inclusione. Per una lettura critica delle politiche educative, Erickson, Trento 2018, pp. 71-92: 79.

[8] F. Monceri, Disabilitazione e potere: presupposti, implicazioni, strategie, in Aa.Vv., Disability Studies e inclusione, op. cit., pp. 27-44: 33.

[9] Si veda, su questo tema: T. Klitsche de la Grange, Funzionarismo, LiberiLibri, Macerata 2013.

[10] S. D’Alessio, Formulare e implementare pratiche scolastiche inclusive: riflessioni secondo la prospettiva dei Disability Studies, in Aa.Vv., Disability Studies e inclusione, op. cit, pp. 121-140: 128.

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