di Paolo Ferratini, il Sussidiario, 8.10.2017
È dura rintracciare una linea coerente nelle politiche scolastiche degli ultimi governi (per tacere d’altro) sulla secondaria superiore. Il ministro Profumo incaricò un gruppo di lavoro di studiare quali vantaggi e quali problemi comportasse la diminuzione di un anno della durata degli studi. Frutto di quella commissione fu un corposo dossier, che giace probabilmente dimenticato in qualche ufficio. In esso si giungeva ad una conclusione non dissimile dalla prima proposta della commissione Bertagna — di cui peraltro assai poco rimase nella riforma poi varata dall’allora ministro Moratti.
La convergenza consisteva in due punti fondamentali: la riduzione da cinque anni a quattro delle superiori e l’aggancio, attraverso un anno ponte, al segmento terziario — università e formazione post-diploma. Il documento della commissione voluta da Profumo, coordinato da Vittorio Campione, entrava maggiormente nel dettaglio, indicando alcune condizioni tecniche e politiche per la praticabilità dell’operazione: 1) l’invarianza dimensionale dell’organico; 2) la revisione del curricolo, in direzione di una crescente orientatività del percorso. L’idea forza era che la liberazione di un cospicuo tesoro di risorse professionali dall’orario di cattedra avrebbe consentito alle scuole di promuovere una didattica più ricca e articolata.
Il governo Renzi e relativo ministro abbandonano tutto: in campo c’è la “Buona Scuola” e la collocazione di qualche decina di migliaia di docenti per il potenziamento dell’organico. L’aumento del personale è ovviamente incompatibile con qualunque progetto di curricolo breve. Una pietra tombale, si direbbe.
Invece no. Dopo una prova su dieci scuole, in estate il ministro Fedeli rilancia in grande stile la sperimentazione del “quadriennium felix“, decuplicando il campione: cento scuole, dal 2018-19, potranno attivare una sezione con uscita e diploma a 18 anni.
Non so se per cinico disinteresse o per pochezza politica, nessuno, in nessuna sede, si preoccupa di spiegare di che si tratta e di cercare il necessario consenso, intorno ad un progetto di lunga durata, su cui, nel corso dei prossimi anni, dovranno esprimersi più governi e, presumibilmente, maggioranze diverse. E sul quale sono destinate a sommarsi l’opposizione conservatrice contro lo “snaturamento” dei licei e la resistenza sindacale per la “salvaguardia” dei posti di lavoro. Se si continua così, l’allineamento ai 18 anni dell’uscita dalla scuola non si farà mai.
Si poteva fare meglio? Certo che si poteva ed è ancora possibile rimediare, se si corregge il tiro e si promuove una discussione — non tanto sui giornali, quanto nella scuola — portando argomenti sodi e non logore parole d’ordine (tipo “ce lo chiede l’Europa” o simili). Fra le buone ragioni certo non vi è la prospettiva della scolarità obbligatoria a 18 anni, fatta balenare come specchietto per certa sinistra d’antan, misura che non si lega affatto, come conseguenza logica, al tema della durata degli studi (e che, in sé, sarebbe peraltro una iattura).
Occorre quindi ripartire dai risultati e dalle raccomandazioni della commissione Campione.
Il documento del gruppo di lavoro del ministro Profumo auspicava che nella nuova architettura di sistema vi fosse un accordo forte soprattutto con l’università, immaginando un anno di corsi (l’analogia allora suggerita era quella con le classes préparatoires per l’ingresso nelle Grandes Ecoles francesi), istituiti, da scuole e atenei insieme, per macroambiti accademici (umanistico-linguistico, giuridico-economico-politico, professioni sanitarie, scientifico-tecnologico, ecc.), ai quali gli studenti diplomati avrebbero acceduto secondo la propria vocazione professionale e culturale.
I corsi avrebbero dovuto prevedere un certo numero di esami, validi anche come crediti per il prosieguo del percorso accademico, nelle discipline di base e comuni di ogni ambito. Il successo conseguito in questi esami avrebbe consentito poi di entrare nel corso di studi scelto dallo studente, avendo questi già verificato su di sé e dimostrato all’esterno la sua effettiva attitudine e propensione per determinati studi, in modo assai più credibile che non sia il sistema degli attuali test d’ingresso. Tutto questo, oltre ad aiutare gli studenti a non sbagliare le proprie scelte, ridurrebbe probabilmente di molto la piaga degli abbandoni universitari nei primi due anni, ancora oggi attestati su percentuali medie intorno al 20 per cento. Discorso simile, ma di più facile attuazione, per il raccordo con altri canali della formazione terziaria, come gli Its e l’alto apprendistato, per loro natura più flessibili.
Ora di tutto ciò, o di soluzioni analoghe, non vi è traccia da nessuna parte nell’iniziativa del Miur. Già troppo spesso in passato l’improvvisazione politica, figlia dell’ urgenza di lasciare “un segno” del proprio passaggio da Viale Trastevere — che si prevede sempre breve —, ha condotto il ministro di turno a far tramontare una buona idea. Se non si corre presto ai ripari, sarà così anche questa volta.
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