di Marisa Moles, Il Corriere Scuola di vita 31.5.2016
Una recente sentenza, la numero 196 del Tar Piemonte Sezione II, ha rigettato il ricorso della famiglia di una ragazzina iscritta alla seconda classe di un liceo e affetta da Disturbi specifici di apprendimento (Dsa), nella fattispecie dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia. La studentessa, per la quale, come da normativa vigente, era stato predisposto dal consiglio di classe un Piano didattico personalizzato (Pdp), al termine dell’anno era stata bocciata. La famiglia non ha fatto ricorso al Tar contro la bocciatura, ma per richiedere un risarcimento per danni morali di 6mila euro, 4 dei quali da spendere per l’iscrizione della figlia in una scuola privata.
In sostanza, la famiglia ha contestato alla scuola la mancata ri-predisposizione del piano didattico personalizzato (che risaliva all’anno precedente), nonché l’inadeguatezza e la mancata attuazione delle misure dispensative e compensative previste dal piano.
La sentenza per certi versi è esemplare in quanto i giudici piemontesi hanno puntato l’accento sul fatto che, se è vero che il Pdp «deve essere aggiornato annualmente entro il primo trimestre dell’anno scolastico», la famiglia della ragazza non ha sottoposto la stessa a nuovi test per aggiornare il quadro clinico, nonostante le difficoltà riscontrate all’inizio del nuovo anno, ritenendo perciò che il piano «predisposto per l’anno precedente fosse ancora adeguato alle esigenze della ragazza».
Insomma, la diagnosi di Dsa non è di per sé garanzia di promozione, nel momento in cui i docenti dovessero riscontrare da parte degli allievi scarso impegno nello studio per raggiungere gli stessi obiettivi di apprendimento degli altri compagni. Quanto all’inadeguatezza e alla mancata attuazione delle misure previste dal piano didattico personalizzato, secondo i giudici il ricorso è fondato su «deduzioni arbitrarie, disancorate da concrete evidenze scientifiche, basate esclusivamente su considerazioni soggettive, e come tali opinabili». Ciò evidentemente non basta per considerare inique le valutazioni dei docenti. Infatti, come osserva il Collegio giudicante, «la scelta degli strumenti compensativi e dispensativi più idonei in relazione alle specifiche esigenze dell’avente diritto costituisce espressione dell’ampia discrezionalità tecnica che la legge riconosce in materia al corpo docente, la quale è sindacabile da questo giudice solo in presenza di macroscopiche illogicità o irrazionalità o di evidenti errori di fatto».
Pare, inoltre, che fosse la stessa ragazza a rifiutare gli strumenti compensativi – come l’uso del pc per la lingua straniera – forse nel timore di sentirsi “diversa”.
Questi, in estrema sintesi, i dati relativi al ricorso e alla sentenza del Tar. Ora, tuttavia, vorrei chiarire alcuni aspetti riguardanti i Dsa che spesso sfuggono alle famiglie (volutamente o meno).
In primis, gli studenti che soffrono di questi disturbi non sono “disabili”, non hanno pertanto diritto all’insegnante di sostegno né a un programma differenziato (per essere chiari, facilitato) né a una valutazione più “morbida” dei risultati scolastici e neppure è contemplata per loro una revisione degli obiettivi nelle singole discipline.
Ciò non significa che essi debbano essere lasciati in balìa di sé stessi: i docenti devono operare al meglio perper far loro superare quella sensazione di “diversità” che li porta ad avere scarsa autostima. Secondo quanto predisposto dal Ppd, hanno l’obbligo di adottare le misure dispensative e compensative del caso (ad esempio, prevedere più tempo per compiti scritti e/o una grafica differente, programmare le verifiche orali, permettere ai ragazzi di consultare tutti gli strumenti – tavole e tabelle, calcolatrice, computer con programmi di video-scrittura con correttore ortografico e sintesi vocale – previsti dalla normativa e presenti nel piano) e monitorare in modo continuativo i progressi dei loro allievi.
In secondo luogo, per portare l’allievo affetto da Dsa al successo scolastico e formativo, è indispensabile la collaborazione della famiglia. Non è pensabile che la scuola faccia tutto da sé e sappiamo bene quanto i genitori d’oggi deleghino all’istituzione anche ciò che afferisce all’aspetto non solo didattico ma educativo.
Come sempre, tuttavia, il torto e la ragione non stanno da una sola parte. Nel caso dei disturbi di apprendimento è necessaria una diagnosi precoce (fin dai primi anni di scuola) ma sappiamo che non sempre c’è questa tempestività. Da una parte, i docenti che hanno a che fare con i bambini soggetti a disturbi di questo tipo spesso, superficialmente, li ritengono pigri, lenti e svogliati. Ma anche quando gli insegnanti riescono a percepire qualcosa che non va a livello di apprendimento, altrettanto spesso i genitori si spaventano nel sentire parlare di “disagio” o “disturbo”, non sottopongono i figli ai test per escludere, se non accertare, qualche problema e si convincono che sia “solo questione di tempo”. Peccato che proprio il passare del tempo aggravi la situazione.A maggior ragione la cosa si complica nel caso della cosiddetta “iperattività”, annoverata anch’essa fra i disturbi dell’apprendimento perché pregiudica l’attenzione dei soggetti interessati.
È bene chiarire una cosa fondamentale: dai disturbi di apprendimento non si guarisce. Si può, però, recuperare molto a livello di competenze e spesso una dislessia o disgrafia non pregiudicano un percorso di studi soddisfacente, fino al conseguimento della laurea e oltre. Per questo motivo è bene che, se segnalati dalla scuola, le famiglie si prodighino per sottoporre i figli ai test più adeguati al fine di ottenere la relativa certificazione. Non è necessario rivolgersi a specialisti pagando onorari da capogiro; ogni Asl ha dei centri specializzati a questo scopo.
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Dsa, la promozione non è assicurata ultima modifica: 2016-05-31T22:30:06+02:00 da