Formazione obbligatoria dei prof, tutti gli errori del sistema

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di Sandra Ronchi,  il Sussidiario, 11.8.2017

–  Questo è stato per i docenti italiani l’anno della formazione obbligatoria, definita dal Piano nazionale per la formazione (Dm 797/2016). Un bilancio.

Questo è stato — per i docenti italiani — l’anno della formazione obbligatoria, definita dal Piano nazionale per la formazione (Dm 797/2016). Obbligatoria sì, ma per quante ore? Il ministero, a fronte dell’obbligatorietà, non ha fornito sempre chiare indicazioni sulla durata. La nota n. 25134 del 01/06/2017, in merito all’utilizzo della piattaforma Sofia (nella quale i docenti posteranno i corsi frequentati), ha offerto indicazioni sulla configurazione e durata delle attività di formazione.

Vi si legge: ” [..] si ricorda che le azioni formative per gli insegnanti di ogni istituto sono inserite nel Piano formativo d’istituto che è parte integrante del Piano Triennale dell’Offerta formativa, […]. L’obbligatorietà […] non si traduce automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano. Quindi le istituzioni scolastiche possono, in coerenza con le scelte del Collegio dei docenti, modulare e quantificare l’impegno in relazione alla tipologia delle attività previste“.

In effetti un po’ di confusione nasce perché il Miur, nel “Documento di lavoro per lo sviluppo del Piano di formazione docenti 2016-2019” pubblicato lo scorso marzo, ha fornito indicazioni sulla fisionomia delle Unità formative (così si chiamano ora i corsi), facendo esplicito riferimento ai Cfu universitari “che individuano un segmento formativo strutturato e auto consistente che […] è pari ad un riconoscimento di un impegno complessivo di 25 ore“.  Ora: se la formazione è obbligatoria, se il segmento “minimo” frequentabile è di 25 ore, l’obbligatorietà — verrebbe da pensare — diventa di almeno 25 ore (o multipli).

Ciò nonostante nel Documento si aggiunge che “tale indicazione è puramente esemplificativa. Le istituzioni possono, in coerenza con le scelte del Collegio dei docenti, modulare e quantificare l’impegno in relazione alla tipologia delle attività previste“. Quindi non c’è alcun riferimento all’Unità formativa (Uf) di 25 ore.
Però, date queste premesse, non c’è da stupirsi che la gran parte delle scuole abbia optato per Uf di questa profilatura, e le 25 ore (articolate in presenza, laboratorio, studio individuale) siano diventate il modello di riferimento. Appunto per questo, la libertà degli istituti di decidere la quantità oraria è stata contraddetta dalla pratica: giacché, se — ad esempio — un istituto avesse definito la quota di 12 ore, ma avesse poi proposto solo Uf di 25, l’obbligo sarebbe risultato — nella pratica — di 25 non 12!

Sono stati erogati anche corsi di diversa articolazione, ma viene da chiedersi se sarà così anche in futuro, visto che Sofia accoglierà per quest’anno qualsiasi articolazione: ma nei prossimi anni?
Ci chiediamo perché un corso debba necessariamente essere così articolato: potrebbero emergere la necessità di corsi più lunghi, ma anche più brevi, solo di lezione frontale e non di lavoro a casa. Insomma, ogni corso ha il suo percorso. E se comprendiamo la preoccupazione del Miur di garantire corsi di qualità, in questo modo il modello diventa cogente. Ci sembra invece che, in questo ambito, la garanzia dell’efficacia non sia data né dalla lunghezza né dall’articolazione, ma dalla proposta del relatore, dalla capacità di coinvolgimento, dall’intelligenza di rispondere ai bisogni dei docenti. Comunque in una libera articolazione, che si adatti ai diversi bisogni formativi. In ogni caso: un po’ di caos c’è stato a proposito delle ore da frequentare obbligatoriamente. Risultato: molti docenti hanno seguito più di un corso, un po’ per assolvere l’obbligo, ma soprattutto per un effettivo bisogno di formazione e per una viva curiosità.

A vigilare sull’obbligatorietà dovrebbero esserci i presidi perché la piattaforma Sofia non ha il compito di certificare l’assolvimento dell’obbligo, ma solo di costituire una sorta di deposito titoli, una repository, ad uso personale, neppure un Portfolio (arriveranno altre indicazioni!): e allora, perché compilarla?
Attraverso le funzioni della piattaforma, sarebbe interessante invece comprendere non solo quanti docenti hanno frequentato i corsi — a fronte dell’obbligatorietà…— ma avere un riscontro qualitativo, visto che gli insegnanti dovranno inserirvi l’attestazione della partecipazione ai percorsi di formazione, che è “correlata all’espressione di un giudizio di autovalutazione (questionario di gradimento a cura del docente) come primo momento di verifica delle iniziative, a garanzia del corsista ed in vista di un miglioramento delle pratiche formative. I dati raccolti dai questionari […] saranno utilizzati per analisi ai soli fini statistici e di ricerca“.

Sarebbe interessante verificare quali sono stati i corsi più graditi dai docenti, sia nei contenuti, sia nella metodologia: un buon corso — indipendentemente dalle ore erogate — innesca un movimento lento ma profondo, che incide sulle dinamiche didattiche. Per questo sarebbe qualificante comprendere se e come questo movimento, magari millimetrico, questo bradisismo lento ma radicale abbia già inciso sulla lezione “del giorno dopo”. Ad esempio, molto stimolanti sono stati i percorsi svolti dagli stessi docenti, che — avendone i titoli — sono stati formatori dei loro colleghi. Questo “interscambio” tra gli insegnanti dello stesso istituto mi sembra un’ottima modalità di aggiornamento, perché permette di “aprire le aule” e di confrontarsi sul campo, in una spirale virtuosa che riconosce alle scuole il ruolo di soggetto formante.
Da ultimo: il Miur ha stanziato dei fondi che, in parte, quest’anno, sono arrivati agli uffici periferici con grande ritardo. Non poche sono state le scuole che hanno progettato piani di formazione che hanno impegnato gli istituti-polo allo sfinimento, pur di non farsi sfuggire nemmeno un centesimo per la formazione: ma — visti i tempi strettissimi — i corsi sono partiti alla fine dell’anno.
Ancora una volta, i docenti si sono spesso distinti per la loro solerzia e buona volontà: ma seguire l’aggiornamento a luglio nelle scuole italiane — pressoché tutte prive di aria condizionata — con l’ondata di caldo africano di quel periodo, dovrebbe far riflettere il legislatore: da una parte, per una erogazione dei fondi con tempistiche più ragionevoli; dall’altra sulla determinazione di formarsi del corpo insegnante.
Il legislatore deve puntare su quei docenti che prendono sul serio il proprio lavoro, che hanno sete di conoscere cose nuove e che si mettono continuamente in gioco, anche con 37 gradi all’ombra! Però, non si può tirare troppo la corda: e non vorremmo che dopo una prima ondata di formazione, che ha visto i docenti affamati di aggiornamento, in una sorte di fase bulimica, seguisse una fase anoressica, tanto più se non ci sarà mai nessun riconoscimento dell’impegno di alcuni; che sono già, comunque, molti.

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