Forzare non è prova di saper dirigere, ma solo controllare

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di Pier Giorgio Ardeni, il manifesto  8.8.2021.

Lasciapassare. All’incertezza e alla paura, sulle cui braci che covano soffia ovviamente la destra, si è preferita una cultura dell’imposizione «dal basso» (che, in un clima sociale poco solidale come quello in cui siamo diviene un «tutti contro tutti»), piuttosto che andare alle origini del problema.

Gilda Venezia

Ora che il «lasciapassare verde» c’è la discussione si è spostata sulle problematiche relative alla sua applicabilità, con i malumori che la normativa solleva.

Certo, questa del «green pass» appare una vera distrazione di massa, con le ben più urgenti questioni delle morti sul lavoro, degli incendi e dei guasti del cambiamento climatico e finanche del Pnrr, di cui ormai non si dibatte più. E oscura due aspetti fondamentali che hanno comunque a che fare con la pandemia: che siamo di fronte a un nuovo aumento dei contagi, da noi come nel resto del mondo, e che non si sta facendo nulla per incidere sulle cause globali che hanno portato alla pandemia stessa.

Sulla questione della «libertà» è prevalsa la tesi della salute pubblica: un vaccino, se efficace e sicuro, può ben essere reso obbligatorio, la protezione dei più prevale sulla volontà dei singoli.

Ma l’«esitazione vaccinale» non è questione che si può derubricare a fenomeno marginale, estremistico, finanche folkloristico. E se questa si alimenta sulle fake news, sul complottismo e più banalmente sulla mancanza di conoscenza – e di certezze – non per questo la si può irridere nel nome di una sapienza superiore.

I nostri molti inutili istituti di ricerca sociale – che fanno sondaggi settimanali per dirci se Di Maio o Salvini hanno mezzo punto percentuale in più o in meno – non hanno speso un euro, da quando è iniziata questa pandemia (e sono già ben diciotto mesi) per capire, ad esempio, su quali gruppi di popolazione il virus si diffonde di più o di meno. Gli unici dati sono quelli dell’ISS, per provincia o classi di età, nemmeno l’Istat è stata capace di produrre nulla di più approfondito.

Non sappiamo, ora che il vaccino è stato somministrato a più del 60% della popolazione complessiva, quali tipologie sociali si sono vaccinate di più o di meno.

Non sappiamo quanti vaccinati – e che caratteristiche socio-demografiche rappresentano – si stanno contagiando ora. Non sappiamo chi è più o meno propenso a vaccinarsi.

Il New York Times, citando dati della Johns Hopkins University, diceva l’altro giorno che in Italia la quota di popolazione italiana propensa a vaccinarsi è dell’85%, tra le più alte in Europa.

Secondo un sondaggio svolto in una serie di paesi europei da Recover (Rapid European Covid Emergency Response), solo 66 italiani su 100 sono disposti a vaccinarsi, mentre il 21% non sa e solo il 13% è contrario. La media europea dei «favorevoli» è del 56%.

Il fatto è che la cosiddetta immunizzazione di massa («di gregge») si può avere solo se la quota dei vaccinati supera l’80% e, soprattutto, se tale quota non lascia fuori sacche di popolazione, magari concentrate (si può avere una regione con il 100% e una con il 50%, ma la media è 80%).

Uno dei principali fattori che motiva l’esitazione vaccinale è la paura, associata alla sfiducia.
Questa, tra l’altro, è maggiore tra le «minoranze» di ogni tipo, tra i più marginalizzati, tra gli esclusi. Che sono, probabilmente, quelli che più hanno sofferto del virus (ma cosa ne sappiamo?). Storicamente, sono quelli che più hanno sofferto la mancanza o l’inefficacia delle politiche sanitarie e sociali pubbliche.

Oltre a sollevare questioni di diritti umani – non tutti possono essere vaccinati, come chi ha allergie, e non si hanno dati sufficienti per sapere se i vaccini sono sicuri su certe categorie, come gli immuno-compromessi – sulle quali anche la Corte Europea si è già espressa, l’imposizione del vaccino finirà comunque per creare ulteriori discriminazioni e stigma sociale.

Non si convincono gli indecisi obbligandoli, perché non si va ad incidere sulla loro esitazione.
In definitiva, la questione se rendere la vaccinazione obbligatoria porterà al raggiungimento di quella immunizzazione di massa è una questione «empirica».

Se, poniamo, avessimo in ogni città nove quartieri con percentuali vicine a 100 e un quartiere con percentuali molto più basse, l’obbligo non produrrà l’effetto sperato.

Ha senso, poi, mettere l’onere dell’onere sui gestori di pubblici esercizi e di tutti gli spazi pubblici? Che ognuno si assuma la responsabilità di avere un «pass» (come la patente di guida), sarà poi compito delle autorità verificare che tutti quelli che guidano un’auto (usufruiscono di uno spazio pubblico) abbiano la patente. Ve lo immaginate cosa accadrebbe se ogni volta che prendiamo l’autostrada dovessimo mostrare la patente?

Il vaccino, peraltro, limita ma non elimina il contagio. È una protezione (individuale) contro la malattia, non contro la sua diffusione. Se io sono vaccinato e devo comunque astenermi di entrare in contatto «libero da protezione» con altri, la sua efficacia pubblica è ridotta. Con una pandemia che diverrà endemica, questo sarà un problema per la validità ed efficacia del «pass».

Invece, si è preferito usare una «scorciatoia» che deresponsabilizza l’autorità pubblica, scaricando l’onere sulla società.

All’incertezza e alla paura, sulle cui braci che covano soffia ovviamente la destra, si è preferita una cultura dell’imposizione «dal basso» (che, in un clima sociale poco solidale come quello in cui siamo diviene un «tutti contro tutti»), piuttosto che andare alle origini del problema.

L’esitazione vaccinale ha radici profonde ed è l’andamento della stessa pandemia che ne alimenta, se vogliamo, le motivazioni. Non sarà il «green pass» a risolverla.

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