Il “complesso di Achille” dei bambini e il tradimento dei genitori

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di Carlo Bellieni, il Sussidiario, 28.2.2025.

Gli adulti, a cominciare dai genitori, non sanno più relazionarsi con i bambini piccoli. E commettono errori che li segneranno per la vita

Gilda Venezia

Allarmano, sporcano, rompono: i bambini “sono matti”. Questo è il pensiero comune, perché nessuno sa più stare con loro. Si comportano in maniera imprevedibile, non parlano fino ad una certa età, prendono una bottiglia e pensano che sia un cannocchiale o un aereo; allora “sono matti”; e la conseguenza è che non sono da prendere sul serio.

E quei primi mesi e anni di vita passano nelle menti dei grandi come un’attesa di quella razionalità che loro adulti sentono di possedere compiuta e felice. Nulla di più sbagliato. Sia perché non sono matti, sia perché noi mica siamo poi così tanto razionali. Ma perché questa brutta idea sui bambini, sulla loro presunta scarsa intelligenza, ancora veleggia col vento in poppa e avvelena mente e cuore di bambini e genitori?

Il primo motivo è che così i grandi hanno la scusa per ignorarli. Anzi, oggi gli mettono in mano tablet e cellulari con la stessa disinvoltura con cui fino a pochi anni fa gli piazzavano in bocca il ciuccio per farli stare zitti. Sbagliatissimo, perché l’apparente follia dei bambini è in realtà una forma di razionalità o, meglio, di intelligenza che deve mettere alla prova le capacità dei genitori.

Infatti chi l’ha detto che l’unica forma di razionalità sia quella del pensiero aristotelico della non-contraddizione, secondo cui una cosa è quella cosa e non altro? Crollerebbero millenni di arte e di pensiero poetico. Il modo di pensare dei bambini è raffinato anche quando non sanno parlare, quando gattonano, quando buttano giù dal seggiolone la pappa. Perché stanno facendo esercizi di due tipi: esercizi di fisica ed esercizi di affetto. Con i primi vogliono verificare la solidità e la permanenza delle cose; con i secondi la solidità e la permanenza dell’attaccamento dei genitori per loro. Vi pare poco?

Il secondo motivo è che noi crediamo un po’ troppo alla nostra razionalità. Cioè pensiamo troppo che le uniche cose che hanno un senso o un valore siano quelle calcolabili e misurabili. La follia dei bambini non è misurabile, ma neppure il nostro amore per una persona o il ribrezzo che ci fa un ragno peloso sono misurabili; eppure ci sono e hanno un loro senso e vantaggio importanti.

La parola ratio, che viene notoriamente da usi mercantili (è il modo di soppesare le cose da vendere), limita lo spettro dell’intelligenza. Volete fermarvi alla ratio? Sappiate che l’intelligenza è molto più, come ben ha spiegato Martin Heidegger. Quindi non ci sentiamo tanto saggi se pensiamo che A è A e non è B, perché forse non tutta la realtà è in quel sillogismo. Invece pensiamo a calcolare, misurare, e accettare solo chi è misurabile e calcolabile, lasciando inevitabilmente fuori del computo dei “nostri” non solo i bambini, ma anche i disabili, le persone con danno cerebrale, i vecchi.

Le conseguenze del non pensare alle immense capacità di intelligenza di un bambino anche di pochi giorni sono che non gli diamo credito, e lui/lei lo capisce bene. Avviene allora un fenomeno strano, che ho illustrato nel libro I primi 1000 giorni d’oro: il bambino identifica il credito, l’affetto, il disinteresse che gli dimostrano i genitori col credito, l’affetto, il disinteresse che… lui stesso sente verso di sé. Cioè, se nei primi giorni di vita si sente ignorato, si concepirà come ignorabile; se si sente amato si concepirà come amabile. E questo sentimento se lo porterà con sé per tutta la vita. Ci sono gli studi di Mary Ainswotrth a dimostrarlo.

Insomma, non dar credito ai bambini di pochi mesi significa far partire storto l’alberello che essi sono. Una bella poesia di Bertoldt Brecht intitolata “Il susino” lo dice bene: “se potesse crescerebbe, diventar grande gli piacerebbe; ma non servono parole, quel che gli manca è il sole”; e il sole è la fiducia, il desiderio dei grandi. Gli effetti non si vedono di solito in maniera evidente; ma sono infidi, subdoli, insidiosi.

Infatti, come impara il bambino a parlare, camminare, sorridere? Imitando i genitori, ma ad una condizione: che dai genitori riceva gratificazione, cioè senta che i suoi passetti, le sue paroline, i suoi sorrisi sono desiderati, che lui allora è desiderato; questa è la molla che fa scattare i soft skills che poi porteremo avanti da grandi. Ma senza questa gratificazione e sensazione di desiderio, questi steps non si raggiungono.

Gustave Flaubert iniziò a parlare a 9 anni perché in famiglia era trascurato, e si portò dietro, oltre ad una grande capacità di scrivere bene (per sopravvivere all’abbandono morale della sua famiglia) anche dei disagi psicologici non indifferenti.

Senza la gratificazione dei genitori nei primi mesi di vita, non si arriverà per forza a quadri mentali gravi, ma a quella mancanza di desiderio, di autostima, a quell’ansia diffusa, a quelle patologie striscianti come l’anoressia o i deficit di attenzione che oggi sono un’epidemia. Per evitare questo si richiedono affetto e tempo: non valgono i “minuti d’oro” con cui certuni pensano di pareggiare i conti con la loro assenza.

In alcuni bambini si sviluppa quello che ho chiamato il “complesso di Achille”, l’eroe greco geniale in fatto di arte bellica, ma abbandonato dai genitori e al tempo stesso soffocato moralmente da una madre che scelse per lui il suo destino. Geniale nell’arte guerresca, ma patologico (secondo molti autori) nel comportamento quotidiano. Il complesso di Achille si adatta a tanti artisti, ma non solo: da Manzoni a van Gogh, da Kafka e Poe a Virginia Wolf e a Sinéad O’Connor.

Chi può metterci una pezza? Come dopo un uragano si devono togliere con pazienza le macerie per poi ricostruire, senza nemmeno la certezza dell’esito, così, dopo decenni di cattiva puericultura, di società fatte senza considerare i bambini, occorre un paziente lavoro di semina di buone idee. Con alcune colleghe abbiamo iniziato a raccogliere queste buone idee in una pagina Instagram che invitiamo a visitare e da cui prenderei due spunti.

Occorre aprire un gran discorso sulla scuola: imparare nozioni chiusi in una stanza, con programmi standard che disamorano anche gli insegnanti, o tornare alla scholé, che vuol dire “divertimento”, e lasciar parlare il daimon cioè lo spirito avventuroso che abbiamo dentro? E come farlo se la scuola è diventata un’azienda pubblica che deve rendere e produrre?

E occorre rivedere il senso dei giochi, che sono ben diversi dai giocattoli. I bambini sanno ben giocare tra di loro o con le cose che trovano, non hanno bisogno dei nostri pacchi costosi che di solito accantonano dopo pochi minuti. Perché loro vogliono il nostro tempo, non l’equivalente in denaro. Peggio ancora i “giochi intelligenti” che vogliono insegnare e far credere ai genitori che così avranno un genietto, invece annoiano e se non annoiano allontanano dalla realtà.

Contro il grande rischio del complesso di Achille, con le sue sfumate manifestazioni nella gioventù odierna, occorre una carezza in più, un abbraccio, una chiamata per nome che diventino “vizio buono”, abitudine, necessità.

Ai bambini va dato credito: senza la pretesa di insegnare a parole la vita, il senso della vita. “Non insegnate ai bambini la vostra morale” diceva Giorgio Gaber. Ma lasciategli un mondo di realtà da esplorare. Insieme a voi. “Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore il resto è niente”.

 

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Il “complesso di Achille” dei bambini e il tradimento dei genitori ultima modifica: 2025-02-28T06:33:40+01:00 da
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