Insegnanti

Il docente esperto non aiuta la scuola

di Michela Marzano, la Repubblica, 5.8.2022.

La misura prevista dal governo non farà che aumentare le frustrazioni, come avviene in Francia.

In Francia, la figura del docente esperto esiste da molti anni. Anzi, per essere più precisi, sono anni che esistono le “primes de recherche et d’enseignement”, i premi per la ricerca e l’insegnamento, da attribuire ai professori universitari più virtuosi – per i docenti di scuola, invece, esiste solo la possibilità di un’indennità forfettaria quando si accetta di insegnare almeno tre ore in più ogni settimana rispetto all’orario di servizio stabilito. Bene, quindi, che anche l’Italia immagini di premiare gli insegnanti meritevoli. Peccato però che, ancora una volta, nonostante si voglia fare bene non si impari nulla dagli errori altrui. Se il Governo italiano si fosse informato, avrebbe scoperto che, in Francia, questi premi non hanno fatto altro che aumentare le tensioni, le frustrazioni e il malcontento degli insegnanti. Nonostante i criteri di attribuzione fossero, almeno in teoria, oggettivi, gli unici a ottenere i premi sono stati coloro che, grazie alla propria capacità soggettiva di entrare nelle grazie dei direttori di dipartimento o dei presidi di facoltà, sono riusciti spregiudicatamente a passare davanti agli altri. Sono anni, d’altronde, che la gestione francese del corpo docente assomiglia a quella delle risorse umane in alcune grandi aziende, e che la competizione tra colleghi avvelena il clima universitario.

Tanto più che l’idea di valutare oggettivamente la qualità dell’insegnamento e della ricerca è una pia illusione. Inutile raccontarsi frottole! Non solo non esiste alcun rapporto di causa-effetto tra “produttività scientifica” e “capacità didattica”, ma anche qualità di ciò che si scrive, almeno all’interno delle discipline umanistiche, può difficilmente essere valutato oggettivamente. Se il caro vecchio George Orwell avesse la possibilità di gettare un occhio ai testi che delineano le linee guida per valutare l’eccellenza scientifica, constaterebbe con orgoglio che le proprie profezie si sono fin troppo bene realizzate in ambito accademico. Strumenti bibliometrici, fattore di impatto standardizzato, peer review, prodotti della ricerca: anche nel mondo universitario trionfa la “neolingua”, quella lingua artificiale capace di cancellare ogni pensiero eretico per il trionfo dell’ideologia produttivistica contemporanea; quella lingua che riduce il valore di un ricercatore al suo “fattore h” – il numero di volte in cui i suoi lavori sono “citati” all’interno di un certo numero di riviste – e che si affida al sofisticato software Publish or Perish (“pubblica o muori”) per il calcolo di “h”. Come se, per valutare la qualità della ricerca, bastasse affidarsi al “numero delle citazioni medie ricevute da ogni pubblicazione” e, in nome dell’oggettività e della neutralità assiologica, ci si dovesse sottomettere all’imperativo del “quantitativo a qualunque prezzo”. Per non parlare poi dell’energia e del tempo perso dai docenti per preparare i dossier di valutazione: giorni e giorni passati a riempire caselle e formulari, invece di dedicarsi alla ricerca o, ancora meglio, all’insegnamento, visto che la vocazione di ogni insegnante dovrebbe innanzitutto essere quella di trasmettere ai più giovani conoscenze e spirito critico.

Last but not least, il clima all’interno di ogni dipartimento e facoltà è sempre più tossico. Invece di “fare squadra”, riflettendo magari sul modo migliore per adattare la didattica ai cambiamenti socioculturali o per capire le principali difficoltà d’apprendimento che incontrano oggi i ragazzi e le ragazze, i docenti non si parlano quasi più: ognuno vede nell’altro un potenziale nemico, un avversario da battere, un rivale pericoloso che potrà ottenere questi benedetti premi lasciandolo conseguentemente a bocca asciutta.

E quindi? Che c’entra tutto ciò con la bozza del decreto Aiuti bis approvata l’altro giorno in Consiglio dei ministri? Purtroppo, l’esperienza francese dovrebbe far riflettere proprio sulle conseguenze dell’introduzione, voluta dal Governo, della figura del docente esperto che potrebbe maturare il diritto a un assegno annuale ad personam dopo aver superato tre percorsi formativi e aver ottenuto una valutazione positiva. Non solo perché la cosiddetta “valutazione positiva” è tutto fuorché oggettiva, ma anche perché le risorse previste sono davvero poche. E i docenti esperti che potrebbero un giorno aspirare all’assegno ancora meno. Molto probabilmente, solo un insegnante per scuola riuscirebbe a ottenere questo premio. Con il risultato ovvio che, in ogni istituto, si moltiplicherebbero la competizione, le invidie, gli odi e i risentimenti. E a farne le spese, ancora una volta, sarebbero i ragazzi.

Intendiamoci. Che la promozione del merito sia importante nelle scuole, nelle università e nella ricerca siamo tutti d’accordo. Soprattutto in un paese come l’Italia in cui, in questi ultimi decenni, si è assistito a una tale confusione dei ruoli che i giovani non sanno veramente più a che santo votarsi per capire come fare per avere un lavoro o affinché le proprie competenze possano essere prese in considerazione o anche solo riconosciute. Ma un conto è la valorizzazione del merito, altro conto è parlare di competenze, professionalità e merito, e poi spingere solo alla competizione o al conformismo.
Senza forse rendersi conto che uno dei mali italiani è l’infima considerazione di cui gode il corpo insegnante nel suo insieme, e che è solo rivalutando nella sua globalità la funzione che si potranno poi chiedere ai docenti maggiori sforzi didattici.

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Il docente esperto non aiuta la scuola ultima modifica: 2022-08-06T14:45:26+02:00 da
Gilda Venezia

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