Il “docente esperto”, ultimo burocrate calato dall’alto?

di Fulvia Del Bravo, il Sussidiario, 22.8.2022.

Il docente esperto di nuova introduzione deve la sua qualifica solo al ministero. Una trovata burocratica estranea al mondo reale della docenza

Gilda Venezia

Anche questa estate, puntuale come un orologio svizzero, è arrivato un nuovo provvedimento riguardante la scuola; nel decreto Aiuti bis del 9 agosto scorso è contenuta l’introduzione del “docente esperto”. Al termine di un percorso di aggiornamento di circa nove anni l’insegnante ottiene questa qualifica con notevole aumento della retribuzione. Tale proposta sembra trovare giustificazione nella necessità della formazione ed aggiornamento affinché i docenti migliorino la propria prestazione professionale, e probabilmente è anche un tentativo di rispondere all’esigenza di un adeguamento dello stipendio, visto che gli attuali scatti di anzianità sono oggetto di malcontento della categoria e lontani dagli standard europei.

Tale proposta è però deludente, pertanto la contestazione è stata immediata e i sindacati ne vogliono la revoca.

Vorrei esprimere in merito due considerazioni: la prima sull’introduzione di tale figura e la seconda di ordine generale sull’impatto delle normative sul comparto scuola.

Innanzitutto non si capisce da dove nasca l’esigenza di un docente che si definisca esperto in base ad un percorso stabilito dal ministero, quando la scuola pullula di docenti esperti qualificati sul campo e tramite anni di formazione, ma non riconosciuti come qualifica professionale, in termini di carriera e retribuzione anche quando si ricompensano gli impegni aggiuntivi assunti, attingendo dal fondo di istituto. Mi riferisco a tutti quegli insegnanti che assumendosi vari incarichi oppure svolgendo funzioni strumentali permettono alle scuole di andare avanti. All’interno del collegio docenti, in base a determinate aree che rispondano alle esigenze del territorio, dell’utenza e soprattutto dell’offerta formativa alcuni insegnanti si impegnano a lavorare per coprire annualmente gli incarichi individuati (nell’ambito dell’inclusione, per contrastare la dispersione scolastica, per partecipare ai Pon (ovvero per progetti finanziati dai fondi europei) o altri finanziamenti per realizzare progetti, per il Rav (autovalutazione dell’istituto) o ancora per aggiornare il piano dell’offerta formativa triennale, per citare alcuni esempi. È evidente che sono necessarie competenze, tempo ed energie che esulano dal semplice insegnamento e quanto connesso; si tratta di mettere in campo qualità organizzative necessarie al funzionamento della scuola.

Ci sono inoltre molti docenti che negli anni hanno investito sull’aggiornamento, frequentando numerosi corsi e diventando loro stessi formatori; anche questi sono indubbiamente esperti nella disciplina che insegnano, ma nessun riconoscimento viene loro concesso.

Quale “mirabile” apporto potranno garantire i docenti che supereranno i nove anni di formazione decisi dal ministero e come saranno accolti, ascoltati e supportati dagli altri “semplici” docenti che probabilmente vantano maggiore esperienza, oltre ad anni di impegni svolti nei vari ambiti necessari al funzionamento della scuola?

Se l’aggiornamento è ritenuto così importante, cosa di cui sono assolutamente convinta, perché togliere l’obbligatorietà di tante ore all’anno come avveniva in precedenza? E a cosa serve la piattaforma “Sofia” (dove si  possono scegliere i corsi di aggiornamento e si registrano gli attestati conseguiti) se tali iniziative sono prive di qualsiasi riconoscimento e invece affidare ad un unico ente ministeriale creato appositamente (Scuola di alta formazione) la preparazione del docente esperto?

In questi anni, oltre all’avvicendarsi di numerosi ministri dell’istruzione, sono state pubblicate Indicazioni nazionali, note, raccomandazioni, introdotte misure contraddittorie rispetto alle precedenti; in generale il legislatore ha deciso sempre e comunque senza partire dalle istanze dei docenti, che sono quelli che entrando in classe  prestano servizio, conoscono realmente il funzionamento delle attività e come si potrebbe renderlo migliore e più efficace.

D’altronde diversi provvedimenti non vengono poi applicati, non per negligenza, ma spesso per mancanza di personale disponibile o per scarsa priorità. Questo provoca differenze notevoli tra le scuole e non mi riferisco a città di aree diverse d’Italia ma anche a realtà molto prossime.

Prendiamo come esempio il curricolo verticale, documento di cui gli istituti si dotano per garantire la continuità degli apprendimenti tra i vari ordini di scuola; non tutte le scuole hanno ultimato ed utilizzano questo documento, che probabilmente è in agenda, e altre priorità hanno avuto la precedenza su questo.

Chi garantisce allora che le normative, tutto ciò che il Miur raccomanda venga osservato? I dirigenti scolastici sono i mediatori tra il ministero ed il territorio, l’utenza, il corpo docenti e tutto il personale scolastico. Grazie all’autonomia le scuole costituiscono dei microcosmi in cui, fatti salvi alcuni aspetti necessariamente comuni quali gli obblighi contrattuali, il monte ore annuale, le discipline impartite, le prove Invalsi e lo svolgimento esami di Stato, vi sono regolamenti e funzionamenti stabiliti dalle varie comunità educanti. L’orario di entrata e di uscita, la settimana lunga o corta, la presenza di indirizzi musicali, lo svolgimento dell’intervallo, i cosiddetti ponti sono stabiliti dalle singole scuole.

Prendiamo in considerazione un istituto dove la maggioranza dei docenti sia di ruolo ed il dirigente sia lo stesso da almeno cinque anni: è assai probabile che tutti gli adempimenti  previsti dal ministero siano rispettati. Diverso però sarà il caso di un istituto dove la maggioranza dei docenti sono precari ed il dirigente cambia spesso ed è reggente. La scuola dove presto servizio in otto anni ha visto avvicendarsi ben quattro dirigenti, così come i Dsga ed il personale della segreteria; in queste condizioni, è davvero difficile tener dietro a tutti i provvedimenti che si susseguono incessantemente.

Ho sempre avuto l’impressione, ormai confermata dalla mia esperienza, che ci siano due piani in cui il docente opera, e cioè quello del dipendente pubblico, che fatica a gestire i meccanismi imposti dal ministero che sono sempre più distanti dalle reali esigenze delle scuole, e quello dell’agire, che prevede di calarsi nella realtà in cui lavora e confrontarsi con le istanze che si trova davanti.

Per esigenze familiari ho lavorato in Friuli ed adesso in Emilia-Romagna e ho potuto constatare che ogni singola scuola è in qualche misura “un mondo a sé” con esigenze che dipendono dall’utenza, dal territorio, dagli insegnanti, dal personale e soprattutto da come il dirigente opera.

Ogni istituto così come ogni scuola funziona bene se è possibile una continuità nel personale e in chi la dirige, se i progetti di ampio respiro possono essere portati a termine da chi li propone, se c’è sinergia con gli organi e le agenzie del territorio e collegamento con le scuole degli altri ordini. È inoltre necessario che i docenti condividano e collaborino all’idea educativa espressa nei documenti propri della scuola (Piano triennale innanzitutto) proponendo iniziative ed attività volte a rispondere in modo sempre più adeguato alle istanze di cambiamento imposte non tanto dal ministero quanto dagli studenti e le loro famiglie.

L’interazione col territorio, un corpo docenti stabile e la continuità almeno del dirigente scolastico è indispensabile perché una scuola possa far bene e cioè sia davvero una buona scuola.

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Il “docente esperto”, ultimo burocrate calato dall’alto? ultima modifica: 2022-08-22T07:30:31+02:00 da

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