di Paolo Conti, Il Corriere della Sera 15.9.2016
– Sere fa, mi sono ritrovato – dopo un dibattito dedicato al Patrimonio culturale italiano- a chiacchierare alla British School at Rome con alcuni cittadini britannici da anni trapiantati in Italia. Alcuni di loro avevano sposato italiane o italiani, facendo crescere i loro figli in Italia. Entusiasti per il cibo, per la Bellezza Diffusa, per la naturalezza nei rapporti umani. Disperati e attoniti per la lunghezza delle vacanze scolastiche estive:«Ma perché siete l’ unico Paese europeo che chiude le scuole all’inizio di giugno e le riapre a metà settembre? Tre mesi di interruzione!! Un quarto dell’anno!!!». Confesso, non ho trovato argomenti validi. Da anni penso che l’Italia continui a parametrarsi su una idea di famiglia tradizionale sepolta nel secolo scorso (il Novecento), quella composta da un padre al lavoro e da una madre impegnata in casa, magari col supporto dei cari, vecchi nonni.
Un modello legato ad una società che non c’è più
Una memoria di società italiana cancellata da una realtà composta dai genitori al lavoro (madri, padri, due padri o due madri, un solo padre o una sola madre, una famiglia allargata e via dicendo, per sgombrare equivoci ). I nostri fortunati pargoli vanno affannosamente collocati in campi scuola, vacanze all’estero (chi può sostenere le spese), inviti incrociati tra famiglie, appoggi presso parenti assai pazienti. Un’antistorica, e tutta italica, assurdità. E che provoca tre mesi di lontananza dal solco didattico tracciato dalla scuola. Un piccolo, rituale abbandono scolastico collettivo. I compiti estivi non sono un Perfido Arbitrio della Scuola Oscurantista e Reazionaria Nemica delle Vacanze Estive ma un doveroso allenamento intellettuale per un periodo così incredibilmente lungo di latitanza scolastica. Sono rimasto attonito leggendo la lettera pubblica del signor Marino Peiretti che ha giustificato suo figlio Mattia per non aver svolto i compiti estivi.
Il rapporto scuola-famiglia
Nell’assoluto rispetto delle sue opinioni, da padre che nell’estate scorsa ha (diciamo così) vivacemente esortato le sue figlie di 13 e 15 anni a rientrare in III media e IV ginnasio con tutti i compiti i svolti, mi permetto alcune obiezioni. Ho il massimo rispetto per le opinioni del signor Peiretti, ma quando si rende pubblica una lettera come la sua addirittura sulla Rete bisogna mettere nel conto reazioni e pareri contrari. Si rende conto che uno dei pilastri su cui si fonda l’istruzione pubblica è il patto tra genitori e insegnanti? Sono due agenzie sociali fondamentali, chiamate a concorrere allo stesso scopo: formare nuovi cittadini-figli consapevoli e autonomi. Se un insegnante contesta un genitore di fronte a un figlio, abusa del proprio potere e svilisce la figura del padre o della madre minando la loro autorità di fronte al/la ragazzo/a. E quell’insegnante andrebbe sanzionato. È così, se un padre o una madre contestano l’operato degli insegnanti di fronte al/la figlio/a, vanificano il loro ruolo e sviliscono la loro autorità: compiono un immenso danno ai ragazzi e picconano la scuola.
Non solo nozioni, ma scuola di vita
Da domani, un qualsiasi bambino «protetto» dai genitori nei confronti dell’insegnante sarà autorizzato a ignorare ogni richiamo che arrivi da una cattedra, perché l’autorità genitoriale glielo ha consentito. È così se non farà i compiti durante l’anno scolastico. C’è da chiedersi perché il signor Peiretti sostenga che la scuola per nove mesi è chiamata a insegnare nozioni e che lui ha solo tre mesi per insegnare a vivere a suo figlio. Mi permetta, è un altro clamoroso errore. La scuola forma alla vita, non al nozionismo, insieme con la famiglia. Così come la famiglia deve ‘insegnare a vivere’ anche suggerendo letture, film da vedere, mostre da visitare, viaggi da fare e così via. Mi chiedo come reagirebbe il signor Peiretti se un insegnante di suo figlio esentasse il ragazzo da una lezione di pallacanestro pomeridiana o da una visita domenicale ai nonni, materie che spettano ai genitori.
La retorica sui figli
Concludo con un appello slegato dal caso della lettera. Per favore, basta col familismo all’italiana. Basta con la famiglia che protegge da una società esterna vista come crudele e castrante, ostile alla creatività. In tre mesi di vacanza si possono costruire scrivanie (o case sull’albero o amache o panchine o aquiloni), fare viaggi, camminare e pedalare, scalare montagne e nuotare. Ma si può anche dedicare un’ora al giorno per seguire la bussola dell’istruzione, responsabilizzando e regolando autonomamente i propri tempi estivi. L’intollerabile retorica dei figli «so’ piezz’ e core’» (davvero insopportabile) continua a produrre guasti terribili. I figli italiani sono ragazzi europei. Sono, certamente, pezzi del nostro cuore. Ma anche futuri cittadini che dovranno trovarsi un lavoro, costruirsi una vita, affrontare fatiche e distacchi, districarsi tra mille difficoltà. Cancellare il dovere dei compiti estivi, in questo quadro, appare come una precoce edulcorazione di una futura realtà assai complessa e densa di incognite. Educare a vivere implica anche la responsabilità di dire tutto questo a un figlio. Da genitori responsabili.
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