di P. Di Remigio e F. Di Biase, Roars, 4.3.2021.
L’articolo dedicato alle “competenze” da Francesco Coniglione, che abbiamo pubblicato qualche settimana fa, ha aperto un dibattito. Siamo lieti di pubblicare la replica di Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase.
Le riforme che distruggono la scuola sono state rese accattivanti dall’impiego di una parola che fa la figura del prezzemolo sul pesce: non deve mai mancare. Competenza è diventata una di quelle parole-ameba studiate dal linguista Uwe Poerksen, che, mutuate dal linguaggio specialistico ed entrate nel linguaggio comune, assumono connotati cangianti. Si comprende dunque che questa parola è diventata bersaglio polemico da parte degli studiosi più seri e attenti, ma che con la sua mutevolezza può aver eluso i loro arpioni.
Ci sembra che qualcosa di simile sia accaduto al recente articolo del prof. Coniglione su roars[1]. Qualche osservazione sulla semantica di competenza può giovare al nostro ragionamento. Averla considerata soltanto un sinonimo di specializzazione scientifica ha indotto infatti il professore a trattare il rapporto tra conoscenza e competenza come se coincidesse con il rapporto tra conoscenza universale e conoscenza particolare. Quest’ultimo, come ogni rapporto tra genere e specie, non è una vera opposizione, perché il particolare contiene l’universale: il mio gatto ha tutti i caratteri propri del felino e, più su ancora, dell’animale. Il concetto ha questo potere di realizzarsi senza perdersi. Così ogni scienziato è specializzato in questo ramo particolare della sua scienza, nondimeno egli ne conosce i principi universali; la sua specializzazione non contrasta la sua universalità e per lui dare risposte a domande al di fuori della sua specializzazione è un’impresa forse impegnativa, ma non impossibile.
La differenza tra conoscenza e competenza ci sembra tuttavia più drammatica, tale da poter essere distorta come esclusività reciproca. Per la sua etimologia, per il suo uso giuridico, competente ci sembra infatti chi non solo dispone di una conoscenza specializzata, ma è in grado di agire efficacemente applicandola come uno strumento insieme ad altri strumenti: all’esperienza dell’ambito particolare in cui agisce, all’intuizione del momento opportuno. Già ad Aristotele era evidente che l’esperienza e l’intuizione sono non meno importanti della scienza per il successo dell’agire pratico. In definitiva, a noi sembra che competenza contenga qualcosa di più dello specializzarsi in un ramo particolare di una scienza, ci sembra che rinvii all’ambito tecnico-pratico; perciò vorremmo intenderla come qualità di chi agisce con efficacia sulle basi della scienza specializzata, dell’esperienza e dell’intuizione. Poiché la consideriamo una qualità pratica, per noi possono meritare il titolo di competente il ministro, il medico, l’avvocato; da uno scienziato ci attendiamo invece, più che la competenza, lo spirito critico, la profondità, la coerenza, l’erudizione…
Non vorremmo dare l’impressione di pedanteria. Siamo ipersensibili a questa sfumatura semantica perché i pedagogisti che hanno incoraggiato o perlomeno consentito la distruzione neoliberale della scuola hanno prima inteso il rapporto tra conoscenza e competenza come contrasto tra teoretico e pratico, poi hanno esasperato questo contrasto fino a presupporre che la competenza escluda la conoscenza, che si agisca con tanta più efficacia quanto più si è ignoranti anziché colti[2]. Un atteggiamento estremo, fanatico, e tuttavia dominante anche in virtù di una tradizione tutt’altro che residuale nella storia del mondo: non solo il fervo-re religioso si è spesso profuso in tirate contro la superbia della ragione, il Nietzsche della Seconda Inattuale crede che la scienza storica paralizzi l’agire storico, nell’XI Tesi su Feuerbach si legge che è finito il tempo delle interpretazioni filosofiche del mondo, che ora bisogna cambiarlo. Adescata da così tante sirene, quasi senza resistenza, la scuola è stata fagocitata dall’ameba della competenza, è diventata cioè un campo di rieducazione che, mentre si affanna invano a fornire qualche abilità tecnico-pratica ai suoi ospiti, li lascia programmaticamente in una rigorosa ignoranza. Nella scuola auspicata e promossa dai pedagogisti neoliberali viene qualificato come competenza il livello infimo dell’agire umano, l’operare senza scienza, dipendente di fatto dalla scienza altrui e dunque puramente esecutivo; con questa mossa linguistica lo si nobilita come se fosse l’agire umano in generale e lo si raccomanda come se fosse garanzia di successo sul mercato del lavoro.
L’apoteosi pedagogica della competenza muove cioè due passi verso la barbarie: quello del primato dell’agire pratico sulla conoscenza teoretica, quello della degradazione dell’agire pratico in operare esecutivo. Questi passi meritano, a nostro avviso, una decisa presa di posizione. L’aver interpretato la ‘competenza’ soltanto come ‘specializzazione’ induce invece il prof. Coniglione ad affermazioni che per un verso si allontanano dal realismo, per l’altro sembrano non voler infrangere la pretesa del pratico di assoggettare il teoretico. Così il professore sostiene che non basti la competenza economica per essere un buon ministro dell’economia, ma occorra essere colti. Tuttavia, a una prima impressione ministro competente e buon ministro sembrano espressioni sinonimiche; inoltre sperare dalla cultura generale il rimedio ai limiti pratici della conoscenza specializzata ci sembra un’illusione: non è la mancanza di cultura che porta il competente a scelte disastrose per i più, ma la particolarità degli interessi a cui è sensibile; qui il rimedio non è la cultura estesa «nei vari ambiti della conoscenza umana – in storia, letteratura, diritto, filosofia, sociologia, ma anche matematica e scienze applicate»[3], ma la democrazia.
Quanto al rapporto tra pratico e teoretico, per un verso si è sempre ammesso che la conoscenza teorica non basti all’agire competente, per altro verso solo il fanatismo rivoluzionario ha creduto che debba mancargli. Così dall’origine fino agli anni Sessanta, a dispetto di ogni attivismo pedagogico e come conviene all’istituzione che provvede a individui ancora privi di responsabilità pratica, la conoscenza teorica è stata l’obiettivo proprio della scuola. In seguito, dalla scuola intimidita sono cresciute l’ignoranza universale e quella del ceto dirigente, e da questa ignoranza è emanato l’odio della conoscenza; il risultato finale è il culto del sogno per non capire quello che si fa. Il prof. Coniglione riconosce il disastro con grande onestà, ma l’aver identificato competenza e specializzazione scientifica gli impedisce di affrontarlo in tutta la sua portata. Egli sostiene giustamente che in passato il liceo classico e la filosofia erano in grado di contrastare l’orientamento alla competenza; ma per il professore il difetto di questa è solo lo specialismo, non anche la pretesa di sovrastare il teoretico; così quando vuole combatterla con la cultura, egli rappresenta il colto non come colui che risolve problemi di pura teoria, ma come chi sa risolvere problemi tecnico-pratici meglio del competente; in questo modo la sua critica resta nel dominio del pratico e non giunge all’emancipazione della teoresi.
Se si vuole reagire alla barbarie pedagogica e restaurare la cultura e la scuola, occorre riaffermare senza timidezza il primato della teoresi sul pratico e la vocazione teoretica delle scuole elementari, medie e dei licei: in termini pregnanti, occorre riaffermarvi l’essenzialità delle discipline ed escluderne la pedagogia e il suo codazzo di indottrinamento e apprendistato. Questo è il contenuto intimo del riferimento del prof. Coniglione al liceo classico e alla filosofia. Mentre infatti il liceo classico è caratterizzato dallo studio della lingua e della civiltà greca ‒ la prima civiltà che al suo vertice filosofico, con Socrate, Platone, Aristotele, abbia proclamato il primato del teoretico sul pratico[4] ‒, la filosofia è per sua natura scienza dei principi, si occupa dei significati ultimi, che le scienze, preoccupate dei loro problemi particolari e spesso condizionate dall’applicabilità tecnica, trascurano. Proprio per questo la filosofia si distacca da ogni considerazione di utilità pratica. Proprio per questo è indispensabile.
[1] https://www.roars.it/online/il-miraggio-delle-competenze/
[2] È una vecchia storia. Scriveva Hegel due secoli fa nella prefazione della Scienza della logica: «Sul versante scientifico la rinuncia al pensare speculativo è stata giustificata dal precetto essoterico della filosofia kantiana, – che all’intelletto non sia consentito il volo al di là dell’esperienza, altrimenti la facoltà conoscitiva diventerebbe ragione teoretica che di per sé non partorisce che fantasticherie. A questa teoria fortunata si sono alleati il clamore della pedagogia moderna e la miseria dei tempi che dirige lo sguardo al bisogno immediato, per cui, come l’esperienza sarebbe principio per la conoscenza, così l’intelligenza teoretica sarebbe addirittura dannosa all’abilità negli affari pubblici e privati, ed esercizio e formazione pratica in generale sarebbero l’essenziale, il solo utile».
[3] https://www.roars.it/online/il-miraggio-delle-competenze/
[4] Cfr. http://www.badiale-tringali.it/2020/12/una-prospettiva-filosofica-sulla-fine_26.html