Comincio – e riassumo, poiché se ne è parlato parecchio – quanto detto da Floris: il giornalista ha affermato che la scuola non serve per trovare un lavoro e che, riducendola ad un momento propedeutico al lavoro futuro, se ne tradisce l’essenza. Chi scrive lo afferma da sempre: o meglio da quando, ancora vicina agli studi liceali, ha messo piede come insegnante in un istituto tecnico ed ha capito, d’un sol colpo, cosa sia la scuola classista. Lo studio come attività gratuita e volta a costruire la personalità di un individuo non soltanto era lontano dal modo di pensare della maggior parte degli insegnanti che oggi definiremmo di materie STEM, ma non era ambizione se non per pochi studenti. Tutto era indirizzato al lavoro futuro – in molte scuole tecniche già negli anni Novanta si praticava l’alternanza scuola-lavoro, prima che questa fosse camuffata nell’acronimo “PCTO” ed i consigli di classe erano spaccati tra i pochi che mettevano in evidenza come, portandoli fuori dall’aula, gli studenti perdessero ore preziose di insegnamento e i tanti che invece erano convinti che quella fosse un’attività utilissima.
E, a dire il vero, anche studenti e genitori la pensavano spesso così. Sono convinta che sbagliassero, tanto quanto si sbaglia ora a voler varare una “riforma” che riduca a quattro gli anni di studio e che finalizzi questi anni al lavoro futuro. Le ragioni per cui chi salda scuola e lavoro sbaglia le ha dette Floris: indirizzando precocemente i ragazzi al lavoro, si fa loro capire che “quello” (il lavoro futuro) sarà il loro posto nel mondo. Detto brutalmente: si annulla in radice ogni possibile mobilità sociale e si divide il mondo già dall’inizio tra “genti meccaniche” e persone destinate a lavori più importanti, più creativi, più soddisfacenti. Bravo, Floris! Ha centrato il bersaglio e demolito uno dei luoghi comuni sulla scuola più falsi e bugiardi: e cioè che il disallineamento tra formazione scolastica e mondo produttivo sia la causa prima della disoccupazione giovanile in Italia. Luogo comune che, con ben altra autorità rispetto alla mia, hanno sfatato da tempo illustri sociologi (penso a Gallino), luogo comune invece sostenuto a spada tratta da Confindustria e, almeno dal primo governo Berlusconi in avanti, da TUTTI i nostri ministri dell’istruzione, chi più chi meno. A Giovanni Floris, la sera dopo (domenica 21 gennaio) ha fatto eco Rosy Bindi, con un intervento di notevole apertura sociale e Davide Taraschi del Liceo “Tasso” di Roma, uno degli studenti puniti, per aver occupato la scuola, con dieci giorni di sospensione e cinque in condotta. La proposta, partita dal dirigente scolastico, è stata appoggiata dai docenti ed ha immediatamente riscosso il plauso del ministro Valditara, che immagino veda in queste misure “energiche” la riscossa del ceto docente, assurto a nuova dignità.
Rispetto ai danni provocati dalle occupazioni non so che dire, se non che manifestano, nel caso siano stati davvero gravi, un disagio di ragazzi che a scuola non si sentono a casa propria. Le immagini televisive non sono supporto attendibile per esprimere un giudizio: ho visto molte cartacce per terra, cestini rovesciati e il loro contenuto sparso sul pavimento, ma gli arrdei apparivano integri e i locali pure. Ma, non avendo visto direttamente, non insisterei. Se danni veri ci sono stati, questi sono deprecabili. Lo studente Davide ha evidenziato come la punizione fosse poco proporzionata ai fatti compiuti; si è detto consapevole che infrangere le regole comporti conseguenze ed ha anche dichiarato che giudicava inopportuno l’intervento dei genitori a difesa dei figli. E poi ha aggiunto che la loro scuola non è quella che presenta i problemi maggiori e che si rende conto che il clima, nei tecnici e nei professionali, è decisamente preoccupante e che, ancora, se al “Tasso” fosse intervenuta la DIGOS per sgomberare i locali (cosa che è accaduta il secondo giorno di occupazione in alcune scuole di periferia), il giorno dopo sarebbe accaduto un terremoto mediatico. E quindi bravo Davide, che ha coscienza di sé, del suo privilegio che non brandisce come diritto, della necessità che chi si trova in posizione più favorevole (dal punto di vista sociale, culturale, economico) si debba far carico di amplificare la voce di chi ha di meno e che, talvolta, non ha nemmeno piena coscienza di quelli che sono i propri diritti. Bravo anche perché, in tempi di narcisismo e vittimismo deliranti, riconosce i propri torti ed è pronto a pagare per aver infranto le regole.
Non si aspetta, però, di essere punito severamente, punto e basta – vuole invece che quegli stessi adulti che adesso si compiacciono per la punizione esemplare, ascoltino i ragazzi e ragionino con loro. Come ogni ragazzo, non vuole stare sotto la tutela dei genitori, dei quali condanna l’ingerenza in questa faccenda. Brava anche Rosy Bindi, che ricorda i Decreti delegati (quanti sanno ancora cosa sono?) e non vuole buttar fuori dalla scuola tout court i genitori, in quanto tutti gli adulti – e soprattutto i genitori – collaborano in quella grande opera comune che è far crescere una nuova generazione di esseri umani.
Da quando si è esaurita la grande spinta emancipatoria degli Anni Sessanta e Settanta si è innescata in Occidente, nella parte più opulenta del mondo, una tendenza regressiva, che ha toccato tutta la società; la scuola, che elettivamente dovrebbe promuovere mobilità sociale ed appianare differenze, sta diventando di anno in anno meno efficace per ciò che concerne la trasmissione della conoscenza, più confusa ed anche più classista. L’imperativo categorico “la scuola va indirizzata al lavoro futuro” vale per chi sta in basso nella scala sociale e l’enfasi con cui ministri e burocrazia ministeriale parlano dei tecnici e dei professionali come scuole cui bisogna “ridare dignità” è ipocrita. Leggiamo cosa scrive nel 1932 Antonio Gramsci, dal carcere in cui l’aveva recluso la dittatura fascista: “Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto piú paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi”. Riconosciamo la chiaroveggenza e l’intelligenza dell’uomo e impariamo a riflettere sul nostro asfittico presente. Qualcosa comincia a muoversi: facciamo in modo che le voci dissonanti riescano a farsi sentire.