La valutazione delle metodologie didattiche in sede concorsuale e le modalità di lavoro delle commissioni sono all’origine di gravi distorsioni, che stanno minando alla base il processo di selezione dei docenti della scuola secondaria. Mi riferisco in particolare al recente concorso “STEM” indetto per selezionare i docenti di area scientifico-tecnologica (matematica, fisica, scienze e tecnologie informatiche per la scuola superiore; matematica e scienze per la scuola media). STEM è una sigla anglosassone che sta per “scienze, tecnologie, ingegneria e matematica”, introdotta sull’onda dei sempre più numerosi anglicismi in uso nella nostra scuola: il linguaggio è importante per dare una parvenza di “innovazione”, l’ingrediente indispensabile – secondo politici e confindustriali – per una istruzione di qualità. Non importa se la rete internet degli istituti non regge; o se gli insegnanti devono recarsi nelle aule per tenere lezioni a distanza a classi in quarantena di 30 studenti con il proprio portatile, perché i PC della scuola non funzionano. L’importante è innovare la didattica. Come? Soprattutto con il digitale, il mezzo taumaturgico che compie tutti i miracoli tranne quello di avere apparati funzionanti e tecnici che intervengono in caso di problemi.
Dopo un impegnativo test a risposta chiusa sui contenuti disciplinari, la prova orale – già espletata per buona parte dei candidati, consiste invece nella progettazione di una attività didattica, comprensiva dell’illustrazione delle scelte contenutistiche, didattiche e metodologiche e di esempi di utilizzo pratico delle TIC (acronimo di “Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione”; in pratica di nuovo il miracoloso digitale). Le TIC sono diventate un tic nel linguaggio ministeriale, e infatti esse ritornano sempre; anche nella griglia di valutazione del colloquio orale, che riserva la maggioranza dei punti (fino a 40 su 100) alla capacità dei candidati di effettuare una “progettazione didattica efficace anche con riferimento alle TIC”.
La progettazione didattica implica la valutazione di una serie di parametri: il tipo di classe a cui ci si rivolge, l’eventuale presenza di studenti con difficoltà varie, gli obiettivi didattici, i mezzi per attuarli, il tipo di verifiche, le modalità di valutazione, ecc. Dunque al candidato non è richiesta una lezione simulata, nel corso della quale la sua spiegazione è rivolta a degli immaginari studenti. Deve invece preparare una presentazione di ampio respiro su un argomento estratto 24 ore prima, per la quale i 45 minuti richiesti come tempo massimo sono in realtà appena sufficienti.
Le graduatorie di merito dei vincitori sono già state quasi tutte pubblicate. Il motivo di tanta efficienza è uno solo: pubblicando le graduatorie entro il 31 luglio (quindi svolgendo gli orali nel giro di una settimana), la commissione riceve un compenso maggiorato; per i commissari esso varia da 5.400 euro sino a 11.600 euro lordi. Cifre astronomiche per un insegnante, abituato a raggranellare poche centinaia di euro in un intero anno scolastico nel caso accetti di assumere funzioni extra di vario tipo.
Per rendere celere la procedura concorsuale sono state nominate alcune sottocommissioni, ma il numero giornaliero di candidati è rimasto comunque elevato (fino a 20 candidati al giorno per commissione). Tuttavia molti commissari non si sono posti solo l’obiettivo di completare le procedure entro la fine di luglio, ma anche quello di ritornare a casa presto per cena.
Risultato: per molti candidati una prova di massimo 45 minuti si è svolta nell’arco di 10-15, alle prese con commissari che hanno assegnato punteggi in modo casuale.
Non si vuole generalizzare, ma è impossibile ignorare le numerosissime testimonianze da ogni parte d’Italia. Si evidenziano gli aspetti critici di seguito elencati.
La valutazione delle metodologie didattiche è di competenza di esperti disciplinari preparati, con una certa esperienza di insegnamento, ottimi studi e possibilmente pubblicazioni strettamente correlate ai contenuti della disciplina e/o ai suoi metodi di insegnamento. Questi requisiti non sono esplicitamente richiesti ai commissari, selezionati sulla base di un curriculum (peraltro non reso pubblico) alle cui voci non è stato attribuito alcun peso specifico; sono richiesti solo 5 anni di ruolo e documentati titoli o esperienze nell’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella didattica: ancora le TIC! A questo è ridotta la sconfinata letteratura metodologica delle materie STEM: all’uso della “medicina digitale”, le TIC (rimando qui).
Ecco dunque far parte di una commissione giudicatrice l’insegnante che ha realizzato un progetto che ne preveda l’uso, o che riveste incarichi extra di tipo tecnico, ad esempio supportando altri docenti nell’uso delle piattaforme. Chiunque insegni in una scuola oggi, sa chi sono questi colleghi. Con le dovute eccezioni, si tratta di persone generalmente intraprendenti e volenterose, ma il cui spessore culturale è tutto da verificare. Al contrario della vulgata corrente, ormai quasi tutti gli insegnanti usano le TIC con una certa disinvoltura. Il vero problema della scuola non sta nell’uso di questi strumenti, ma nel fatto che esistono insegnanti la cui supposta carenza sul piano metodologico il più delle volte ha origine nelle lacune di tipo contenutistico; la materia non è mai posseduta una volta per tutte, l’insegnante è un eterno principiante che deve continuamente studiare. Contenuto e metodo sono inscindibili, il primo come presupposto insostituibile del secondo.
Il fatto che un insegnante progetti il sito web dell’istituto o si impegni come formatore nell’educazione digitale è irrilevante ai fini della sua efficacia nella didattica d’aula. Assumere incarichi è in alcuni casi un compito affidato a docenti preparati, con esperienza e grandi capacità relazionali; in molti altri, ahimè, è il frutto del servilismo dilagante da quando la legge della “Buona Scuola” promulgata dal governo Renzi ha dato la possibilità ai dirigenti scolastici di avvalersi di una squadra di lavoro ora denominata “staff” (rimando qui) con un ridicolo gergo aziendale. Mettiamolo in chiaro: essere dello staff non implica essere un bravo insegnante. Essere un bravo insegnante spesso implica non far parte dello staff per un motivo molto semplice: l’assunzione di incarichi tecnici o di gestione lascia molto meno tempo per la preparazione delle lezioni.
Ebbene, non è raro trovare commissioni nelle quali la carica di presidente è stata ricoperta dal dirigente scolastico dell’istituto ove si svolgevano le prove concorsuali, mentre uno o più commissari erano docenti della medesima scuola coinvolti nello staff del dirigente medesimo. È questa una premessa per l’imparzialità e la libertà di giudizio del commissario? Potrà costui esprimere una valutazione senza condizionamenti da parte del presidente, il suo dirigente scolastico? La risposta è: quasi sempre, no.
Dopo questa premessa, veniamo agli aspetti prettamente culturali relativi all’impostazione delle prove. Attribuire un peso preponderante alla parte metodologica è imprudente non solo per l’impreparazione di molti commissari in tal senso, ma anche e soprattutto per la manipolazione ideologica che questo parametro permette.
I candidati sono indotti a prepararsi su metodologie alla moda, spesso non validate dalla letteratura scientifica ma da accettare in modo acritico, essendo parte della cosiddetta “pedagogia di Stato” (di cui hanno parlato, da diversi punti di vista, studiosi come Giovanni Salmeri, Paolo Mazzocchini e Giovanni Carosotti). I futuri docenti che non si sottopongono a questa umiliazione delle loro facoltà di giudizio, in totale contrasto con la libertà di insegnamento garantita dall’articolo 33 della Costituzione, possono essere liquidati con una bassa votazione, o bocciati nel caso osino insistere nel difendere le proprie scelte. È successo durante il concorso STEM, spesso dopo soli 5 minuti di esposizione. Molti dei candidati bocciati sarebbero stati ottimi insegnanti, la cui libertà di pensiero avrebbe probabilmente contagiato i loro studenti; ma è proprio questo che si vuole?
Un utile paragone: immaginate un esame per diventare chef. Il candidato deve spiegare in modo esclusivamente teorico la preparazione di un piatto “innovativo”; il comitato di valutazione storce il naso, ma senza penarsi di approfondire la questione: semplicemente, uno dei membri è allergico alla salvia, a un altro non piace l’aggiunta del formaggio perché l’odore lo disgusta, oppure lo considera un ingrediente in quel caso inutile. Criteri soggettivi. Se non si vuole tornare ai vecchi concorsi, a quello che a torto viene indicato come “enciclopedismo disciplinare” (che sarebbe comunque preferibile alla deprimente attuale situazione!), occorre una specifica base culturale e una solida esperienza professionale per valutare con equilibrio le metodologie didattiche proposte da un candidato: il suo modo di contestualizzarle, la plausibilità di alcune procedure, le sue capacità comunicative, etc.; in breve, la sua conoscenza pedagogica del contenuto.
Tanti insegnanti ormai in ruolo da almeno un decennio hanno dedicato alle metodologie didattiche un impegnativo biennio post-lauream di esami e tirocini frequentando le vecchie SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario). Queste scuole sono state chiuse in barba ai risultati positivi documentati, mentre avviavano – seppure lentamente e faticosamente – quella collaborazione tra scuola e università da sempre auspicata. Il diploma abilitante all’insegnamento della SSIS è carta straccia: non è criterio di selezione dei commissari, né per i concorsi dei futuri insegnanti né per gli Esami di Stato degli studenti delle scuole secondarie.
Nessun accademico che ha insegnato con impegno e dedizione nelle SSIS si indigna per questo? Eppure le SSIS, le migliori SSIS, hanno dato uno straordinario contributo nel rinnovamento della figura dell’insegnante, pur se molti corsisti già allora accusavano alcuni docenti di imporre prassi didattiche non condivise; ma c’era dialettica, confronto e talvolta scontro, ricerca di senso, tentativi di costruzione. In due anni era possibile, in 15 minuti un po’ meno. Le SSIS presentavano certamente dei limiti (si veda ad esempio qui: www.leparoleelecose.it/?p=10636), ma si è rinunciato a un possibile miglioramento a partire dagli elementi positivi. In particolare, lo studio dei fondamenti storico-epistemologici delle discipline scientifiche (soprattutto di quelle coinvolte nel concorso STEM) ha ampliato in modo significativo la base culturale degli specializzandi; questi erano spesso provenienti da corsi di laurea che non lasciavano (e non lasciano) sufficiente spazio all’evoluzione storica e agli aspetti filosofici delle discipline, spesso padroneggiate soprattutto da un punto di vista teorico e tecnico appiattito esclusivamente sulla loro attuale configurazione.
Tuttavia, il fatto che le SSIS siano finite nel dimenticatoio non deve meravigliare, se neanche gli insegnanti con dottorato di ricerca e/o fior di pubblicazioni godono di vie preferenziali per ricoprire cariche come quella di commissario nei concorsi.
A ogni modo, il problema più grave resta un altro: l’impreparazione di molti commissari sui contenuti, testimoniata – persino da chi il concorso STEM lo ha superato – anche nei forum di discussione in forma rigorosamente anonima per paura di ritorsioni. Prendiamo l’esempio della classe di concorso “Scienze e tecnologie informatiche”: alcune tracce riguardavano argomenti specialistici, oggetto di insegnamento nel triennio degli istituti tecnici tecnologici. Un commissario docente della stessa materia, ma che ha sempre insegnato in una scuola generalista o che è sempre rimasto confinato nel biennio delle scuole tecniche, fatica non poco per uscire dal perimetro dei contenuti che è abituato a insegnare da anni; molto probabilmente non supererebbe il difficile test a cui sono stati sottoposti i candidati per la prova scritta. A volte questi insegnanti neanche insegnano, perché svolgono la funzione di collaboratore del dirigente con esonero totale da anni, o perché godono di qualche forma di distacco dall’insegnamento per compiti amministrativi e di gestione. Ma è proprio il curriculum di questo genere di docenti a essere valorizzato: a guardare le esperienze professionali che molti commissari esibiscono sui social come LinkedIn, sembra quasi che gli anni lontani dalle aule siano considerati un valore aggiunto.
Un insegnante in questa situazione può diventare molto pericoloso, se privo della necessaria umiltà. Ad esempio, può spiazzare il candidato chiedendo una lezione simulata, non richiesta dalla traccia di esame ma che gli è utile per raccapezzarsi velocemente su un argomento che non ricorda; oppure può cercare di nascondere la propria ignoranza con battute sarcastiche.
Qualche esempio?
Prova orale di Informatica. Il candidato viene interrotto dopo pochi minuti di illustrazione delle premesse alle scelte metodologiche con l’espressione “sì, ma la ciccia dove sta?” (da notare che è riservata una valutazione apposita alla proprietà di linguaggio, ma solo a quella del candidato…).
Un altro, di fronte alla perentoria richiesta di una lezione simulata, inizia con una cosiddetta situazione-stimolo in cui parla di un fatto di cronaca relativo a un cattivo uso dell’intelligenza artificiale: un’auto guidata da un robot che investe un passante. Commento: “ma le sembra un esempio divertente questo?”; il candidato risponde che l’obiettivo non è divertire gli studenti, ma interessarli. L’esame, appena cominciato, è già finito.
In entrambe le situazioni il candidato ha parlato per circa 5 minuti, poi valutato con il punteggio minimo.
Mi fermo qui, ma assicuro i lettori che si potrebbero riempire molti cahiers de doléances.
Benvenuti nell’era dell’innovazione didattica, in cui commissari ignoranti dei contenuti disciplinari si fingono esperti in metodologie didattiche, e interrogano, e giudicano. Soprattutto, decidono di altre vite, e contribuiscono a rendere negletta una categoria in cui prestano servizio validi professionisti iper-formati rigorosamente tenuti lontani dal compito di selezionare i futuri docenti.
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