Insegnare, mestiere never-ending time

di Ilaria Copeta, Il Corriere della sera, ed. di Brescia, 18.9.2022.

Difficile (impossibile?) spiegare che dopo il suono della campana il lavoro non finisce.

Gilda Venezia

Qualche giorno fa un mio amico mi ha gentilmente invitato a trascorrere il venerdì pomeriggio della mia prima settimana di scuola seduta al tavolino del suo bar per partecipare come comparsa di un video per promuovere la città. Quanto mi piacerebbe aiutarti, ho risposto, è un vero peccato che io sia sepolta di lezioni da preparare corsi di aggiornamento, riunioni di programmazione di inizio anno e la solita girandola impazzita di mail a cui rispondere per dare l’avvio a progetti ed iniziative.
Peccato, mi ha detto, sai trovo poca gente a quell’ora perché tutti gli altri, di pomeriggio, lavorano. Ho immaginato che si riferisse al fatto che la maggior parte dei nostri amici ha un luogo fisico che chiama posto di lavoro nel quale trascorre gran parte della giornata, per poi tornare a casa, mentre io rientro da scuola all’ora di pranzo. Insomma, la maggior parte dei nostri amici ha un luogo di lavoro che abbandona a fine giornata e da cui può staccarsi fisicamente e, ci si auspica, anche mentalmente.
Per me, anzi per noi, agli occhi di alcuni categoria privilegiata da tre mesi di vacanza e cinque ore di lavoro al giorno, staccare è più complicato.

Infat ti, noi abbiamo due luoghi di lavoro e due tempi di lavoro, ma questo per molti è un fatto irrilevante. Dico sommessamente che il nostro lavoro non è quindi un part- time, a volte non è nemmeno un full time, ma una specie di never-ending time.
L’impressione è che non finisca mai. Una sua consistente parte viene svolta a casa, rendendolo praticamente sommerso.
Spesso però durante la settimana ci sono riunioni pomeridiane a scuola che si protraggono fino alle cinque o sei di sera; ne consegue che il lavoro sommerso, fatto di correzioni, lezioni da preparare, elaborati da leggere, mail a cui rispondere e progetti a cui aderire è comunque lì che ci aspetta a casa.
Non è affatto raro finire alle dieci della sera e anche oltre. Ad esempio, è difficile spiegare ad amici e famigliari che non smetto di lavorare alle 13, anche se ci provo da anni. Nella loro testa io sono fisicamente a casa e quindi raggiungibile e interrompibile. Ormai ho capito da tempo che è inutile cercare empatia verso il lavoro dell’insegnante da chi non ha mai messo piede in aula e in qualche modo sono abituata ad essere sempre un po’ aliena alla comprensione di chi vive fuori da questo mondo.
Si ironizza, si minimizza. Un po’ di speranza viene da chi ha avuto genitori insegnanti e se li ricorda chini di notte sui libri a lavorare ma in generale il mantra sociale sembra essere: e noi che lavoriamo tutto il giorno cosa dovremmo dire?
Meno comprensibile per me è invece l’atteggiamento del Ministero che dovrebbe conoscerci e che paventa l’idea di multipli corsi triennali di formazione per diventare “docenti stabilmente incentivati”.
Un numero esiguo di docenti, in verità, che dopo un lungo percorso di formazione potrà accedere ad una quota aggiuntiva dello stipendio, dato l’elevato grado di formazione raggiunta.

Ora, a parte le molte domande che affollano la mia testa sul perché di queste decisioni, sugli stipendi dei docenti italiani tra i più bassi in Europa in rapporto al costo della vita, sul mancato rinnovo dei contratti, sul perché dovremmo passare anni di formazione dopo una laurea e dopo corsi post-laurea e i continui aggiornamenti a cui già partecipiamo, sui compensi vertiginosi che l’Alta Commissione preposta a formarci riceverà, mi chiedo: ma esattamente quando, cioè in quale parte libera della giornata di questo fantomatico part-time di dieci ore al giorno che abbiamo, dovremmo formarci?
E a prezzo di quale tempo sottratto alla preparazione del nostro lavoro?

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Insegnare, mestiere never-ending time ultima modifica: 2022-09-19T06:41:26+02:00 da
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