Invalsi/1. Bocciata la scuola, ma la colpa è della DaD?

tuttoscuola_logo14TuttoscuolaNews, n. 1003 del 19.7.2021.

Il capro espiatorio della DaD che rischia di non far vedere gli altri problemi.

Gilda Venezia
La stampa cosiddetta di informazione, salvo rare eccezioni, non ha avuto dubbi di sparare in prima pagina il nome del responsabile del learning loss, la perdita di apprendimento accumulata dagli studenti italiani nei due anni di pandemia da Coronavirus. Trovato e sparato: è la DaD. Per fare questa operazione essenzialmente mediatica la stampa si è avvalsa dei dati forniti dall’Invalsi sulla base dell’esito delle prove somministrate quest’anno (l’anno scorso non fu possibile) agli studenti dei vari gradi di studio.

In realtà l’Invalsi si è ben guardato dallo stabilire una correlazione meccanica tra esito delle prove e DaD, ben sapendo che senza DaD l’esito sarebbe stato ancora più catastrofico, ma date le caratteristiche ‘macro’ e quantitative del suo modello non ha potuto distinguere tra le scuole e le classi dove la DaD ha funzionato come reale alternativa alla didattica tradizionale e quelle dove invece si è limitata a trasferirla online in modo improvvisato. Così, in mancanza di dati disaggregati, ha prevalso inevitabilmente la logica semplicistica del confronto tra medie, e si è potuto dire (in un modo alquanto sbrigativo, che ha favorito le ulteriori semplificazioni dei mass media), che le competenze in italiano e matematica dei nostri diplomati alla maturità di quest’anno sono per molti di essi paragonabili a quelle dei diplomati di terza media.

Poniamoci alcune domande.

E se la pandemia non ci fosse stata? Molti riconoscono (dalla presidente dell’Invalsi Ajello al direttore della FGA Gavosto) che le cause del cattivo funzionamento della scuola italiana preesistono al Covid-19, e che quest’ultimo non ha fatto che porle in maggiore evidenza, penalizzando ancora di più gli alunni sfavoriti sul piano economico e sociale. Come sostiene Roberto Franchini, Professore universitario del Sacro Cuore di Milano e Brescia, su tuttoscuola.com il fenomeno del Learning Loss è stato “soltanto amplificato, non generato, dall’attuale contingenza pandemica“.

E se la pandemia avesse colpito dieci o vent’anni fa? Allora le tecnologie non avrebbero consentito alle scuole di connettersi a distanza in maniera generalizzata con le case degli studenti: quali effetti avrebbero misurato i test Invalsi sugli apprendimenti degli studenti dopo quasi due anni? Sarebbe stata una catastrofe formativa inimmaginabile.

Qual è stato l’effetto del minor numero di ore di lezione fatte in questo periodo dalle scuole (a causa dell’impossibilità di garantire il distanziamento, e dei contagi a catena)? Sono saltate tantissime ore di lezione, sia dove e quando si è fatta lezione in presenza, sia dove si è fatta lezione a distanza: l’effetto sugli apprendimenti è stato inevitabile e nulla ha a che vedere con la DaD.

Infine, se si vuole dare un giudizio ragionato sul fenomeno DaD, bisogna interrogarsi sulla qualità del servizio di DaD: dove il livello è stato elevato, difficilmente ci sono stati effetti negativi; dove il livello qualitativo è stato insufficiente, perché i docenti non erano preparati all’utilizzo di metodologie didattiche innovative e si sono limitati a realizzare a distanza la stessa lezione trasmissiva che svolgono in classe, i risultati non potevano che essere deludenti.

Insomma il discorso è molto più articolato, se lo si vuole valutare seriamente.

Bene, è stato detto che l’Invalsi funziona come un termometro, che è uno strumento di misurazione, non di valutazione di ciò che sta dietro il dato rilevato. E dunque che cosa sta dietro il “disastro antropologico” (copyright di Chiara Saraceno) misurato dall’Invalsi? Di certo non la DaD, ma la pluridecennale mancanza di una politica scolastica mirata ad affrontare il problema della disuguaglianza nel nostro sistema scolastico. Un problema che le nuove tecnologie, compresa la DaD, possono aiutare a risolvere assai meglio della nostalgia per la scuola che fu. Ma ci vogliono visione strategica e un piano di azione coerente, che sono mancati, e non solo in questo anno e mezzo.


Prima della pandemia andava tutto bene nella scuola in presenza?

Senza dubbio l’attività in presenza consente di meglio raggiungere gli obiettivi formativi previsti nelle varie fasi – dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado – i quali non consistono soltanto nell’apprendimento di nozioni ma nella maturazione globale della personalità da realizzare tramite l’acquisizione e lo sviluppo di conoscenze, abilità e competenze in relazione con gli altri.

Tuttavia l’attività di insegnamento-apprendimento, anche in presenza, non avviene in un ambiente asettico ma è influenzata da vari fattori: essenzialmente il contesto, i docenti, il territorio e finanche i discenti.

Per quanto concerne il contesto occorre segnalare che da tempo alcuni elementi ne mettono a dura prova la qualità. Ad esempio: le classi numerose (con 30 o più alunni, non di rado con fragilità); il personale che facilmente (e di frequente) può cambiare la sede di servizio, addirittura ad anno scolastico appena iniziato (se non in corso d’anno); la mancanza di docenti per alcune materie (si pensi alle cosiddette discipline STEM); gli organici assegnati, spesso insufficienti per fronteggiare le esigenze di offerta formativa delle scuole e del territorio.

Con riguardo ai docenti si può ricordare che la formazione, sia iniziale che in itinere, richiede attenzione e interventi stabili nel tempo, con piani di aggiornamento e formazione che abbiano obiettivi non solo di breve periodo ma anche di medio e lungo termine al fine di sostenere le necessarie innovazioni in atto e fornire risposte appropriate ai tempi odierni; il che non sempre si è registrato, considerata anche l’alternanza di volontà e impostazioni a livello nazionale. Ma soprattutto la debole inclinazione all’autoaggiornamento da parte di larga parte degli insegnanti: soltanto il 3,6% dei 500 euro messi a disposizione annualmente con la carta del docente (un investimento di circa 350 milioni di euro all’anno) è stato utilizzato per l’iscrizione a corsi per attività di aggiornamento e di qualificazione delle competenze professionali (fonte Il Sole24ore su dati del Ministero dell’istruzione).

In relazione al territorio si può osservare come la mancanza di autonomia effettiva delle istituzioni scolastiche, dotate di fondi non adeguati e gravate da vincoli burocratici e amministrativi vari, costringe a ridurre le prospettive di orizzonti che mirino a realizzare patti di sviluppo ampi a favore dei giovani di tutte le età, visti anche gli scarsi investimenti che nella scuola (a esempio nel miglioramento delle sue strutture e nella concretizzazione di ambienti di apprendimento innovativi) il territorio stesso riesce a esprimere.

Da ultimo (ma non per ultimi): i discenti. Pare ci si sia dimenticati del fatto che la formazione e la maturazione globale delle persone avvengono anche dietro una spinta interiore e personale. Sarebbe impensabile immaginare gli alunni come dei vasi da riempire, tramite azioni che vengono mosse soltanto dal resto (ossia da ciò che sta loro intorno). Come scrive R. Franchini, “Quando i giovani sono costretti ad imparare contenuti per i quali non provano alcun interesse, diventano inevitabilmente annoiati e stanchi. Per essi, la modalità a distanza, con il conseguente  allentamento della dinamica del controllo, può aver rappresentato una buona via di fuga, che tuttavia non genera qualcosa di inedito, ma amplifica in modo sottile e invisibile dinamiche già presenti nel normale contesto educativo“. La motivazione, l’interesse ad apprendere, la curiosità, la volontà, l’autonomia, la capacità di relazionarsi (con compagni e adulti) sono fattori imprescindibili per il successo formativo. Senza dubbio spetta agli insegnanti fare tutto il possibile per suscitarli, per farne tra l’altro la giusta leva e chiave di volta. Ma gli studenti medesimi, la famiglia, il mondo adulto in generale, l’ambiente in cui siamo immersi, i media, i decisori politici, tutti e tutto, dovrebbero consapevolmente operare per sviluppare quelle sinergie atte a sostenere il futuro del Paese: che passa inevitabilmente attraverso la formazione delle persone, in tutte le fasi della vita.

Pertanto sembra riduttivo e ingiusto attribuire alle sole didattica a distanza e didattica digitale integrata la responsabilità del fallimento emerso dal quadro globale degli esiti dalle prove nazionaliINVALSI di recente effettuazione. Sarebbe come attribuire alla scuola – che ha comunque operato con  dedizione (e per lo più senza risorse adeguate) – la colpa di tutti i mali. E così proprio non è.

Invalsi/1. Bocciata la scuola, ma la colpa è della DaD? ultima modifica: 2021-07-19T06:45:43+02:00 da
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