di Salvatore Distefano, La Tecnica della scuola, 22.3.2020
–Stiamo vivendo un momento drammatico nel quale è difficile orientarsi; molti, comunque, nel tentativo di comprendere e di spiegare ciò che sta avvenendo esprimono il loro punto di vista, le loro proposte, le loro raccomandazioni. Ma si registra, anche, un assordante silenzio da parte degli storici, proprio coloro che molto più di altri dovrebbero intervenire, fornire spiegazioni, approfondimenti, riflessioni, comparazioni, proposte.
I vuoti di memoria storica
Scontiamo, ancora una volta, i vuoti di memoria di cui parla nel suo libro Stefano Pivato “[…] l’affievolirsi di una memoria così particolare come quella storica. […] Non esistono ricerche comparative ma si ritiene non esser lontani dal vero se si afferma che mai, lungo il corso del Novecento, le generazioni scolarizzate abbiano sofferto di così vasti debiti nei confronti della storia.” (Stefano Pivato, Vuoti di memoria, pag. 9, Editori Laterza, 2007, Roma-Bari).
Analisi comparata tra passato e presente
Ecco, il metodo comparatistico, la capacità di attualizzare il passato partendo dal presente (presente–passato-presente), la necessità di trarre insegnamenti da ciò che l’umanità ha già vissuto senza dover ogni volta ricominciare da capo come se si fosse all’anno zero, l’esigenza di far prevalere la comprensione razionale che dev’essere in grado di fare premio e controllare emotività e paura che rischiano di travolgere la società. Scriveva Domenico Losurdo:“Omnis determinatio est negatio. Nella misura in cui esige una delimitazione dei suoi confini, la comprensione di un fenomeno storico comporta sempre un momento di analisi comparata. Una crisi, una rivoluzione rivela il suo significato se confrontata alle altre: e ciò vale anche per la violenza, il terrore, i massacri, i genocidi.
D’altro canto, comparare non significa assimilare e appiattire.” (Domenico Losurdo, Il revisionismo storico, pagg. 34-35, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari). E’ altrettanto evidente che i giudizi varieranno sulla scorta di diversi fattori, ma il momento della comparatistica risulta ineludibile perché altrimenti ci affidiamo a valutazioni prive di riferimento-fondamento, o restiamo in silenzio dinanzi all’ineffabile. “Per orribile che possa essere, se deve essere detto, descritto e compreso, un avvenimento storico dev’essere comparato” (Losurdo, op. cit., pag.35).
La krisis
Per far capire concretamente il nesso presente-passato e la dimensione storica del presente, ho scelto di approfondire un periodo storico che può servire a questo scopo: la crisi del Trecento. La riflessione partirà, sulla base di queste premesse, dal concetto di crisi.
La parola greca krisis viene dal verbo krino e vuol dire: scegliere, separare, giudicare, discernere; ma può significare anche diritto, condanna, esito, soluzione, disputa, contesa. In italiano vuol dire: perturbazione o improvvisa modificazione nella vita di un individuo o di una collettività, con effetti più o meno gravi e duraturi; situazione di disagio o di malessere sul piano individuale, oppure sul piano sociale dalla mancata corrispondenza tra valori e modi di vita, per lo più sintomo o conseguenza di profondi mutamenti organici e strutturali. Ancora: c’è la crisi politica, economica, sociale, abitativa, energetica, demografica, di governo, parlamentare, istituzionale, dinastica, internazionale, respiratoria, psicofisica. Come vedete sono tantissimi i significati che si possono dare alla parola, la quale, peraltro, significa anche possibilità di uscire positivamente da una situazione difficile: in questo caso la crisi è foriera di una crescita, di uno slancio, di una maturazione, di una nuova consapevolezza che consente di ripartire con maggiore forza e determinazione per raggiungere risultati più alti. Spesso il termine crisi viene comunemente interpretato solo con un’accezione negativa; questo uso, però, non restituisce appieno il carattere delle crisi nel loro complesso (economiche, politiche, sociali).
Krisis come fase di transizione
Per comprenderne esaustivamente il significato, occorre concepire la crisi come una fase di transizione, ovvero un insieme di processi che portano una condizione precedente a trasformarsi in una situazione nuova. Da questo processo di trasformazione, che può essere molto duro per chi lo vive, derivano effetti sia “distruttivi”, individuati nella rottura improvvisa di tradizioni ed equilibri consolidati che all’improvviso vengono spazzati via, sia “innovativi”, derivanti da tutte quelle novità, nate dalle necessità di trovare una soluzione ai vari problemi prodotti proprio dalla crisi, determinarono una nuova condizione socio-economica e politica.
Non per caso, tutti i grandi passaggi storici sono segnati da crisi profonde che hanno significato molte volte la fine di un’epoca e il subentrare di quella successiva. Così come è anche vero che questo passaggio non è repentino e semplice, ma spesso avviene attraverso un travaglio difficile perché il vecchio muore, ma il nuovo non riesce ancora ad affermarsi.
La finalità dell’insegnamento della storia
Ed infatti tra le finalità dell’insegnamento della storia vi è quella di scoprire la dimensione storica del presente e di ricostruire la complessità del fatto storico e tra gli obiettivi di apprendimento individuare e descrivere: continuità, cesure, rivoluzione, restaurazione, decadenza, progresso, struttura, congiuntura, ciclo, tendenza, evento, conflitto, trasformazione, transizione, crisi.
La storia del mondo risulta, dunque, segnata da grandi crisi che ne hanno caratterizzato il cammino, a conferma che il sorgere delle crisi non ha mai avuto una valenza solo negativa: la crisi delle poleis e della civiltà ellenistica, la crisi del III secolo, delle costruzioni universalistiche come l’impero e il papato nel basso medioevo, del Trecento e del Seicento, del modo di produzione feudale al quale è subentrato il modo di produzione capitalistico. E poi nel Novecento: la crisi che portò allo scoppio della Prima Guerra mondiale, la crisi del ’29, la crisi petrolifera del 1973, la crisi che provocò la caduta del Muro di Berlino (1989) e la sconfitta dell’Unione Sovietica (1991), con la conseguente fine del bipolarismo, la crisi dopo l’attentato alle Torri Gemelle (2001), il fallimento della Lemhan Brothers del 2008, la crisi del coronavirus – Covid 19 del 2020.
Le crisi nella storia
Tra le crisi elencate, e altre potremmo citarne, prendiamo come riferimento importante, come abbiamo già detto, quella del Trecento, che offre spunti di riflessione significativi, utilizzabili per una migliore intelligenza del presente.
La lunga fase di sviluppo iniziata dopo il Mille, sul finire del XIII secolo subisce un’inversione di tendenza: nella prima metà del Trecento, l’intrecciarsi di una catena di guerre e frequenti calamità naturali si traduce quasi ovunque in un collasso economico, le cui micidiali ripercussioni investono l’intera società e la vita pubblica: è quella che gli storici definiscono “la crisi del Trecento”. In realtà, le epidemie di peste furono ricorrenti nel mondo antico e tra le più terribili ricordiamo l’epidemia che aveva colpito l’impero d’Oriente al tempo di Giustiniano, tra il 541 e il 542 d. C., che secondo Procopio, autore di una pungente opera polemica La storia segreta, aveva provocato diecimila vittime in un solo giorno.
Fra il Mille e il Trecento la popolazione europea era raddoppiata, triplicata in alcune aree, e intorno al 1340 contava circa 70–80 milioni di abitanti. Da quel momento l’equilibrio tra popolazione e risorse e tra produzione e consumo entrò in crisi: lo squilibrio che si venne a creare tra la domanda e l’offerta di beni primari era irrecuperabile. Tutto ciò provocò gravissime carestie, che alcuni documenti ci illustrano con scenari apocalittici, soprattutto all’interno del mondo contadino. Il primo sintomo delle difficoltà che minacciavano l’Europa, ormai troppo popolata rispetto alle sue capacità produttive, è rappresentato dalla grande carestia del 1315– 1317, che si caratterizzò proprio per la sua ampiezza perché colpì quasi tutto il continente. Un susseguirsi casuale di condizioni climatiche negative – inverno rigido e prolungato, estate eccessivamente piovosa, con accompagnamento di alluvioni e grandinate – danneggiò i raccolti in modo tale da provocare una crisi di cui, per durata, gravità ed estensione si era perso il ricordo. I prezzi dei cereali aumentarono di molte volte, provocando la morte di molte persone e moltissimo bestiame per gli effetti della denutrizione e delle malattie che essa portava con sé. Dunque, le continue carestie ebbero una doppia conseguenza: aumento eccezionale del tasso di mortalità e indebolimento delle difese immunitarie. In pratica, furono poste le premesse per la diffusione della terribile epidemia di peste che dal 1347 si propagò per l’intera Europa (nel corso del1348 si diffuse nell’Europa continentale e nel 1349 raggiunse l’Inghilterra e la Scandinavia). La malattia, assente da secoli dall’Occidente, era estremamente contagiosa e presentava in entrambe le sue forme, bubbonica e polmonare, un altissimo tasso di mortalità: l’epidemia fu di una violenza cui l’Europa non era più abituata da molto tempo.
La pesta nera
Pare (ma la questione è ancora in discussione) che la peste nera sia stata trasmessa dai mongoli ai genovesi assediati a Caffa, in Crimea, e che una nave genovese abbia diffuso il contagio in Italia e da qui in tutta Europa. Peraltro, gran parte della popolazione europea venne sterminata dalla peste (alcune fonti affermano che morirono circa 25–30 milioni di persone): probabilmente un terzo degli abitanti perirono in Italia, in Francia e in Inghilterra. Si pensa che la popolazione in Italia passò da 10 a 7 milioni; in Francia da 16 a 11 milioni e in Inghilterra da circa 4 a 2,5 milioni di abitanti. Una così rilevante diminuzione della popolazione non poteva non avere drammatiche conseguenze nell’economia e nei rapporti sociali: una parte della struttura produttiva fu praticamente travolta e sul piano sociale tutte le tensioni si aggravarono: la borghesia urbana esercitò una più forte pressione sulle campagne e sui feudatari per controllare il commercio e i prezzi dei prodotti agricoli, mentre i contadini e i lavoratori più poveri delle città rivendicavano a loro volta miglioramenti nelle loro condizioni di vita e di lavoro.
Il Decameron e la selettività sociale
Le città furono colpite in misura maggiore ( si pensi alla descrizione offerta dal Boccaccio nel Decameron), in virtù della concentrazione della popolazione e delle peggiori condizioni igieniche: a Firenze il numero degli abitanti scese da 110.000 a 50.000; a Ypres da 30.000 a 18.000 e ad Arras da 20.000 a 10.000. Per certi versi, si può parlare di carattere selettivo dell’epidemia: essa colpì maggiormente là dove la densità umana era più alta, falciando la popolazione delle città in misura maggiore rispetto alle campagne. In un Paese urbanizzato come l’Italia, la mortalità fu quindi superiore a quella registrata, ad esempio, nell’Inghilterra prevalentemente rurale. Da ciò scaturisce anche la selettività sociale: infatti, la mortalità fu ridotta fra i ceti dirigenti, non tanto per effetto del miglior nutrimento e di una maggiore igiene personale, quanto perché ai ricchi era possibile cercare scampo in zone meno toccate dal contagio, come fanno appunto i fiorentini del Decameron. Scrive Boccaccio:
«Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. […] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribolazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.»
La risposta del terrore
La risposta fu, dunque, all’inizio il terrore collettivo. L’uomo medievale non si aspettava una vita media lunghissima, sapeva che la morte colpiva duramente e di fronte al totale fallimento delle cure mediche del tempo e all’inutilità della fuga, l’epidemia appariva come un’inesorabile punizione divina: non restava che chiedere la misericordia di Dio, con processioni ed esposizioni di sacre reliquie, altrettante occasioni di assembramenti umani e cause di estensioni del contagio, oppure muovere alla dissennata ricerca di capri espiatori. Candidati ideali, da questo punto di vista, si rivelarono gli ebrei, di cui la cristianità aveva da tempo fatto dei “diversi”, a partire dall’infamante accusa di deicidio: ovunque, infatti, si verificarono massacri tra le comunità ebraiche. Non mancarono, peraltro, atti di isteria collettiva rivolti verso i musulmani, ai quali si attribuiva la colpa di aver provocato il morbo, e verso le donne accusate di stregoneria,per esempio in Inghilterra, mentre nei Paesi di lingua tedesca nacque la leggenda della “ragazza della peste” (Pest Jungfrau), che fuoriusciva come un fuoco dalla bocca dei morti e propagava il contagio al cenno della mano.
Le autorità pubbliche intervennero per bloccare il contagio controllando gli accessi alle città, organizzando quarantene nei porti, vietando assembramenti in occasione di funerali e cerimonie religiose.
Il diffondersi della peste rese drammaticamente visibile la morte, con lo spettacolo terribile delle famiglie decimate; l’angoscia della morte che giungeva improvvisamente entrò a far parte della vita quotidiana delle persone e contribuì fortemente al moltiplicarsi di affreschi e di pitture che avevano per soggetto scheletri e cadaveri. La Chiesa, in particolare, usò immagini che spaventavano per ricordare che la vita umana è breve e che bisognava pensare all’Aldilà, soprattutto doveva farlo chi credeva di aver trovato il Paradiso già su questa Terra. Al tempo stesso, la Chiesa doveva cercare di parlare alla gran massa di persone che vivevano nei patimenti, malate, in miseria; a loro, che non volevano essere consolati con la promessa delle gioie di un altro Mondo, la Chiesa offriva la rappresentazione della morte vendicatrice: uno scheletro che falciava tutti senza pietà: potenti, ricchi, giovani, vecchi, nullatenenti, innamorati. La Morte rendeva tutti uguali.
I risvolti economici e sociali
La medicina del tempo non fu in grado, dato che già a stento curava le malattie comuni, di far fronte o alleviare gli effetti spaventosi della pandemia della peste nera. Inoltre, molti erano convinti che le cause fossero attribuibili all’ira divina o a fenomeni astronomici e quindi si limitarono a suggerire e a praticare rimedi senza alcun effetto né curativo, né lenitivo. C’è da dire che il calo della popolazione non fu uniforme e, in qualche modo, si può parlare di una redistribuzione della popolazione e drastica ristrutturazionesulla base di fattori economici e giuridico-sociali specifici. E’ certo, però, che in generale le città si impoverirono e che si allargò ancora di più la differenza sociale tanto che molta gente viveva di elemosina; le file dei nullatenenti si ingrossarono enormemente, fagocitando ampie fasce di cittadini che prima vivevano in maniera agiata: molti piccoli imprenditori, che a motivo del calo della domanda erano precipitati nella scala sociale, si erano fortemente impoveriti e a maggior ragione la crisi aveva gettato sul lastrico lavoratori salariati che erano stati licenziati e lavoratori stagionali che rimanevano disoccupati.
La crisi economica prodotta dalla contrazione demografica si estese anche al maggiore dei settori manifatturieri, quello dei tessuti di lana, il cui volume di produzione era, verso il 1450, sicuramente inferiore a quello del 1300 o del 1340. I centri tessili tradizionali passarono allora dalla produzione su vasta scala alle lavorazioni di lusso, acquistate ora da un ristretto numero di persone abbienti con grande disponibilità di denaro. Fu in questa fase che la forma di organizzazione della produzione denominata industria a domicilio(il centro unificante diventò la figura del mercante-imprenditore) si affiancò all’artigianato urbano e in gran parte lo sostituì in molte regioni europee già dal XIV-XV secolo. In verità, il lavoro a domicilio era già diffuso nel XIII secolo, limitatamente alla fase della filatura della lana, ma dalla seconda metà del XIV secolo coinvolse anche altre fasi della produzione laniera. Nella storia della produzione manifatturiera si venne così configurando una fase destinata a durare fino alla Prima Rivoluzione industriale.
Qualche anno dopo i lavoratori si organizzeranno per rivendicare il miglioramento della paga e la rarefazione della manodopera, secondo la legge della domanda e dell’offerta, rendeva più efficaci queste rivendicazioni. La crisi colpì anche una parte della nobiltà feudale, per la perdita di entrate causata dalla riduzione delle colture, dallo spopolamento, dalla più forte resistenza dei contadini e dei vassalli. Essa, però, cercò di reagire imponendo l’aumento dei canoni e la loro conversione in denaro, ma in alcune zone la crisi provocò trasferimenti di beni fondiari dalla nobiltà alla borghesia cittadina e in genere una ulteriore attenuazione dei vincoli feudali. In un quadro così drammatico scoppiarono frequenti rivolte popolari sia nelle città che nelle campagne: a tal proposito, possiamo citare la rivolta parigina di Etienne Marcel e la jacquerie nelle campagne di “Jacques Bonhomme”; e poi, Cola di Rienzo a Roma, i lollardi in Inghilterra, i Ciompi a Firenze e i contadini delle Fiandre.
Le corporazioni e le produzioni
Il volume totale della produzione e degli scambi si ridusse, così come diminuirono gli investimenti; al contempo, aumentarono i salari dei lavoratori che potevano esigere migliori condizioni economiche visto che il loro numero si era fortemente ridotto, conseguentemente era molto difficile reperire manodopera, e potevano permettersi di abbandonare chi li pagava poco. Nelle città, inoltre, le corporazioni artigiane erano costrette ad alzare i salari per attirare i lavoranti e favorire l’immigrazione dal contado. E così, per quanto la produzione agricola possa essersi ridotta in cifre assolute, il rapporto tra produzione e consumo è assai più equilibrato di quanto non fosse nell’Europa sovrappopolata del primo Trecento. La trasformazione avviata mutò il volto dell’Europa e conferì ad ogni Paese europeo i tratti che avrebbero continuato a caratterizzarlo non solo alla fine del Medioevo, ma per buona parte dell’età moderna. Ad esempio, cominciò a delinearsi il cammino diversificato dell’Italia centro-settentrionale da quella meridionale, ma l’eccezione più rilevante fu rappresentata dalla Francia: in quel secolo di crisi soprattutto perché veniva combattuta il quel periodo la Guerra dei Cent’anni, conflitto devastante che si intrecciò con le vicende economiche (cominciò a funzionare l’intreccio guerra – fiscalità – guerra) e provocò, secondo alcuni storici, effetti non meno devastanti di quelli delle guerre moderne.
Affrontare nell’immediato l’emergenza
Ma la storia non procede in modo deterministico e il suo sviluppo, per quanto vogliamo dare ad essa un filo conduttore razionale e finalistico, non è facilmente prevedibile e intellegibile. In particolare, possiamo vedere come dopo la grande crisi del Trecento seguirono l’Umanesimo e il Rinascimento, che senza dubbio rappresentarono un’epoca molto diversa; questo, tra l’altro, ci deve far capire che non siamo arrivati alla fine della storia e che, come abbiamo sostenuto finora, dobbiamo attrezzarci per affrontare nell’immediato l’emergenza, che va superata nel più breve tempo possibile, e che occorre sin da subito mettere le basi per ricostruire secondo una visione sinceramente democratica. Non siamo, dunque, alla fine della storia; anzi, la storia – con i suoi tentativi, le sue grandezze e le sue miserie – non è finita e continua a suggerirci che è pur sempre possibile conoscere scientificamente il mondo per cambiarlo.