Riforma

La denatalità potrebbe portare alla chiusura di (almeno) cinquecento scuole

di Silvia Calvi, Linkiesta, 4.8.2023.

Per chi suona la campanella

A causa del calo demografico, a settembre ci saranno in aula centoventisettemila alunni in meno. Il governo pensa al taglio di sedi e organici, ma i sindacati propongono un’altra soluzione: mantenere tutti gli istituti, soprattutto nei piccoli centri, riducendo il numero di alunni per classe

Il nostro Paese comincia a fare davvero i conti con uno degli effetti del calo demografico di cui si parla da anni: alla vigilia di un anno scolastico che, il 12 settembre, comincerà con centoventisettemila mila banchi vuoti (ma l’anno scorso c’erano già state centoventimila iscrizioni in meno) e con stime che parlano di un milione di studenti in meno nel giro di dieci anni, ci si avvia ad accorpamenti e chiusure di istituti scolastici.

Cosa cambia quest’anno

Il trend demografico iniziato prima del Duemila è diventato davvero importante negli ultimi quindici anni. Dal 2008 a oggi, nel nostro Paese è nato il trenta per cento in meno di bambini (ultimi dati Istat). Ed ecco che nell’ultima Legge di bilancio – come chiedeva anche l’Unione europea – è stata inserita una norma che prevede l’accorpamento e la soppressione degli istituti scolastici con pochi iscritti. Si comincerà nel 2024 ma, già adesso, entro la fine di agosto, il ministero dell’Istruzione dovrà emanare il decreto che, per la prima volta nella storia del nostro Paese, stabilisce il “Dimensionamento scolastico con un taglio di sedi e organici”. Cioè, in pratica, l’avvio dell’iter per l’accorpamento di settecento scuole (soprattutto al Sud) e, successivamente, la chiusura definitiva di cinquecento scuole in otto anni.

Il ridimensionamento comporterà naturalmente anche tagli al personale e ai dirigenti, ai quali saranno anche tolte le reggenze (un solo dirigente su più istituti), pratica peraltro già molto criticata e che resterà in vigore solo in casi eccezionali. Cioè per le scuole con meno di seicento alunni o quelle on meno di quattrocento piccole isole, nei comuni montani o nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche. Un cambiamento epocale dunque, che preoccupa moltissimo le Regioni, tanto che i presidenti di Regione di Campania, Toscana, Puglia ed Emilia Romagna hanno già presentato ricorso alla Corte Costituzionale, mentre da Sardegna e Abruzzo si chiedono rassicurazioni sul mantenimento di istituti e personale.

Una modesta proposta

Considerata anche la particolare conformazione geopolitica dell’Italia, cioè i seimila piccoli comuni italiani per i quali, spesso, la scuola è l’unico e fondamentale presidio educativo e aggregativo, c’è chi si oppone ai tagli. I sindacati propongono un’altra soluzione: mantenere tutte le scuole riducendo però il numero di alunni per classe. «Il calo demografico ci obbliga a ripensare il rapporto alunni/insegnanti, ma le classi-bonsai, composte da dieci-dodici alunni, non sono affatto la soluzione» esordisce Daniele Novara, pedagogista del Centro Psicopedagogico di Piacenza e autore di Cambiare la scuola si può (BUR Rizzoli). «Perché, come dicono tutti gli indicatori sociometrici, è nei gruppi più grandi, da sedici a venti alunni, che bambini e ragazzi possono fare autentiche esperienze di apprendimento e collaborazione tra pari, altrimenti rimangono ostaggio dell’insegnante e della lezione frontale.

Una soluzione migliore, invece, può essere accorpare gli istituti con pochi iscritti ma favorire la compresenza degli insegnanti. In tutte le realtà in cui già viene praticata, come per esempio in alcune scuole di Lecco che sto seguendo come consulente,  funziona benissimo: uno sguardo duplice, o anche triplice, sulla stessa classe evita innanzitutto che i bambini siano in balia dell’arbitrarietà dell’unico insegnante. E, allo stesso tempo, favorisce un processo di progettazione educativa pedagogica condivisa tra i docenti. Giusto, invece, eliminare le reggenze: ogni scuola deve avere il suo dirigente».

Come evitare lo spopolamento

Per i piccoli centri, quelli di montagna o delle zone più interne del Paese, l’accorpamento scolastico equivale però al trasferimento dei pochi alunni in altri Istituti. Una scelta che non favorisce certo il mantenimento in vita dei piccoli centri: per una giovane famiglia l’assenza di scuole è un deterrente a restare. «In questi casi, come avviene in alcuni paesi del versante svizzero dell’arco alpino, la soluzione è nel sistema delle pluriclassi, cioè la creazione classi eterogenee per età, cosa che permette la tenuta sociale e la crescita di un territorio che, altrimenti, inevitabilmente verrebbe abbandonato. Ma, allo stesso tempo, occorre che questo Paese si dia anche da fare per favorire la natalità attraverso la creazione servizi e sostegni efficaci alle giovani famiglie, altrimenti in pochissimi anni ci ritroveremo con un’Italia più vecchia, più povera, meno creativa».

Un’occasione per tutti

Questa crisi, dicono alcuni esperti, può anche essere l’opportunità per svecchiare la scuola e per migliorarla. A partire dall’organizzazione degli spazi della scuola, la vera funzione collettiva trasversale, un’istituzione che comunque riguarda il dodici per cento della popolazione italiana. E che va adattata alla dimensione contemporanea tenendo anche conto di sicurezza e risparmio energetico. «Ripensare gli spazi, che avranno sempre più aule inutilizzate, a partire da una didattica che parte dall’attitudine alla ricerca, dal saper costruire progetti con gli altri, dalla cooperazione. Così il setting dell’aula si trasforma in setting cooperativo, setting laporatorio, in didattiche per “ambienti di apprendimento”» spiega Beate Weyland, docente associato di Didattica all’Università di Bolzano e studiosa del rapporto tra pedagogia e architettura e design in ambito scolastico.

«Come membro del direttivo della rete interistituzionale altoatesina “Spazio e apprendimento”, fondata nel 2012, insieme al mio staff cerco di promuovere il tema dell’innovazione della scuola proprio passando da legame che dovrebbe unire pedagogia, architettura e design. E le esperienze già fatte a Torino, all’Istituto comprensivo di Siniscola di Sardegna, a Bressanone, a Vicenza, a Bagno di Romagna e in molti altri centri italiani, ci dà ragione. Creare angoli “morbidi” per la lettura e il riposo, portare il verde e le piante in classe, appendere quadri negli spazi comuni, ripensare la disposizione dei banchi nelle aule, sono tutte soluzioni molto semplici che, nel momento in cui si liberano spazi a causa del calo degli alunni, permettono di trasformare la criticità in una risorsa».

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La denatalità potrebbe portare alla chiusura di (almeno) cinquecento scuole ultima modifica: 2023-08-16T05:38:34+02:00 da
Gilda Venezia

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