La formazione dei docenti: think tank, lobby e politica

di Anna Angelucci,  Roars, 18.2.2020

– Sembra davvero paradossale che tutti, tranne rari docenti, parlino di formazione, specializzazione e concorsi. Sembra, ma non lo è. Perché in realtà il fenomeno rientra nella più generale espropriazione della funzione professionale e intellettuale degli insegnanti, un tempo deputata alla libera trasmissione di un sapere critico anche quando esercitata in attività formative professionalizzanti, oggi depauperata e subordinata alle esigenze produttive del mercato globale anche quando agìta in un contesto non immediatamente orientato al lavoro. Alle politiche dell’istruzione si è sostituita l’economia dell’istruzione e l’insegnante è stato esautorato. Chi è, dunque, che parla di noi e per noi, e a che titolo? Chi detiene oggi il discorso pubblico sulla scuola, tentando di esercitare la propria egemonia? Quali sono i contenuti di questo discorso? A quale ideologia, a quale visione del mondo, questi contenuti afferiscono? E quali sono gli scopi a cui tendono, considerando, come ha dichiarato la ministra Azzolina in una recente intervista al Sole 24 Ore a proposito di assunzioni, “che i docenti formano i cittadini e che in base a come li formano il Paese può cambiare”?


Se vogliamo parlare di formazione in ingresso, modalità di abilitazione, assunzione e formazione in servizio dei docenti, dobbiamo provare a ripercorrere a ritroso le posizioni espresse dall’elenco degli interlocutori indicati nel titolo di questo articolo: dunque, partendo dalla fine, politica, lobby, think tank, università e scuola. Sapendo già, fin da ora, che quando arriveremo ai diretti interessati, maestri e professori, troveremo poche voci in capitolo.

Sembra davvero paradossale che tutti, tranne rari docenti, parlino di formazione, reclutamento, specializzazioni e concorsi. Sembra, ma non lo è. Perché in realtà il fenomeno rientra nella più generale espropriazione della funzione professionale e intellettuale degli insegnanti, un tempo deputata alla trasmissione di un sapere critico-analitico anche quando esercitata in attività formative professionalizzanti, oggi depauperata e subordinata alle esigenze produttive del mercato globale anche quando agìta in un contesto non immediatamente orientato al lavoro. Alle politiche dell’istruzione si è sostituita l’economia dell’istruzione e l’insegnante è stato esautorato. Chi è, dunque, che parla di noi e per noi, e a che titolo? Chi detiene oggi il discorso pubblico sulla scuola, tentando di esercitare la propria egemonia? Quali sono i contenuti di questo discorso? A quale ideologia, a quale visione del mondo, questi contenuti afferiscono? E quali sono gli scopi a cui tendono, considerando, come ha dichiarato la ministra Azzolina in una recente intervista al Sole 24 Ore a proposito di assunzioni, “che i docenti formano i cittadini e che in base a come li formano il Paese può cambiare”?

Cominciamo dalla politica. Così Lucia Azzolina, attuale Ministra dell’Istruzione, nell’intervista al Sole 24 Ore del 16 dicembre scorso:

“Penso a una laurea triennale per imparare i fondamenti della disciplina a cui aggiungere una laurea specialistica abilitante per chi decide di insegnare [ … ]. Si tratta di una laurea disciplinare uguale per tutti. Ad esempio, se voglio fare l’insegnante di matematica comincio a prendere una laurea triennale standard come la prendono anche gli studenti che non vogliono insegnare. Nella specialistica abilitante non si continua a studiare la disciplina, ma come la disciplina va insegnata. Perché puoi anche avere delle conoscenze disciplinari ottime ma poi devi essere in grado di trasmetterle agli studenti”.

Per la ministra una laurea triennale è sufficiente per acquisire i contenuti della disciplina che poi si andrà a insegnare nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Chiunque conosca minimamente il nostro attuale sistema universitario sa benissimo che una laurea di primo livello è assolutamente insufficiente per acquisire una preparazione disciplinare adeguata all’insegnamento. Anche la laurea conseguita col vecchio ordinamento a mio avviso spesso non bastava e andava integrata, prima del concorso, con ulteriori approfondimenti in corsi di perfezionamento e scuole di specializzazione. Non è un caso che per l’insegnamento nella scuola primaria sia oggi previsto un corso di laurea unico quinquennale in cui il peso dell’insegnamento delle discipline (“i saperi della scuola”, recita il DM 249/2010 che lo ha introdotto) è – giustamente – preponderante. Come ha scritto benissimo Ana Millan Gasca con parole che dovrebbero chiarire in modo definitivo a tutti gli educatori di professione il nesso inscindibile tra apprendimento e insegnamento, “la fisica o la linguistica o la letteratura italiana o la biologia sviluppano dal loro interno riflessioni di tipo storico-epistemologico e didattico che sono cruciali per la formazione di un futuro insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado”.

Sorprende dunque la leggera disinvoltura con cui la Ministra licenzia la sua proposta, un ennesimo 3 + 2 in cui a scarse conoscenze disciplinari si sommerebbero successivamente un po’ di pedagogia e didattica. Ma l’idea piace a molti esponenti delle lobby e dei think tank che in Italia da alcuni anni si occupano di istruzione, attaccando sistematicamente il valore e la funzione dello studio delle discipline, come ci spiegano bene Giovanni Carosotti e Rossella Latempa nei loro approfondimenti. Sono gli stessi che, mentre lamentano a gran voce il declino culturale del Paese, attribuendone la causa agli insegnanti che non si aggiornano a dovere, vagheggiano la riduzione di un anno delle superiori, la marginalizzazione delle conoscenze epistemologicamente fondate in nome di ‘argomenti’ e ‘spunti’ decontestualizzati, la riduzione delle materie umanistiche e la diffusione dell’educazione finanziaria e dell’autoimprenditorialità, l’introduzione del coding alle elementari e la sostituzione dei libri con tablet e pc, o delle lezioni, frontali e laboratoriali, con la flipped classroom, e che, in luogo dei noiosi professori di italiano, matematica o scienze, vorrebbero dei simpatici ‘animatori’, possibilmente digitali.

Perché quello che conta in realtà non è sollevare il nostro Paese dallo stato di barbarie culturale generalizzata in cui si trova incrementando con ogni mezzo la possibilità di un’istruzione di altissima qualità per tutti, intesa come valore in sé nell’alveo di un’educazione capace di ‘umanizzare l’uomo’, ma è invece realizzare attraverso la scuola (così la Fondazione Agnelli nel suo volumetto sulle competenze) nuovi “asset competitivi per le organizzazioni e per gli stessi individui nel passaggio attuale all’economia dell’immateriale, del digitale, dell’informazione”, nuove “disposizioni nell’agire delle persone” incentrati su resilienza e adattività, evidentemente molto più funzionali all’asfittico e necrotico brave new world in cui stiamo vivendo e in cui lo studente, già cliente, è ora “capitale umano” fin dall’asilo.

Leggiamo il Programma pluriennale 2019-22 della Fondazione per la sussidiarietà della Compagnia di San Paolo, in cui si sottolinea che la recente “global employers survey, promossa da BIAC (business and industry advisory committee, attiva presso Ocse), ha indicato una duplice priorità per l’educazione: riformare il curriculum e connetterlo ai bisogni del mercato del lavoro”; ripassiamo la missione di Fondazione Agnelli, che, leggiamo in home page, “dal 2008 ha concentrato attività e risorse sull’educazione (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione”; ripercorriamo le finalità di Ocse che, come ci spiega bene il sito della rappresentanza permanente in Italia delle organizzazioni internazionali, “ha come obiettivi la promozione di politiche per realizzare più alti livelli di crescita economica sostenibile e di occupazione nei Paesi membri, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria, contribuire allo sviluppo dei Paesi non membri, contribuire all’espansione del commercio mondiale su base non discriminatoria in linea con gli obblighi internazionali”: obiettivi economici fortemente competitivi a cui l’intera operazione di comparazione degli apprendimenti misurati a livello globale è sottomessa[1].

In questo scenario, la posta in gioco non è semplicemente la formazione dei docenti ma la nostra idea di scuola e società e con essa la nostra idea di ‘persona’, prima ancora che di cittadino e lavoratore. E questa può essere l’occasione per tutti i docenti di riprendere il propriodiscorso pubblico sulla scuola, altrimenti destinato ad essere definitivamente colonizzato ed eterodiretto. Le pressioni dei portatori di interessi meramente economici che, come è ormai di tutta evidenza, stanno egemonizzando scuola e università condannandole all’apoptosi, sono fortissime. Non si illudano la ministra e via via giù per li rami che l’interlocuzione con chi, in ossequio alla ‘ragion di mercato’, ha inventato la  più grande competizione concorrenziale tra le scuole superiori del paese[2], possa essere qualcosa di diverso dalla mera acquiescenza aziendale.


Note

[1] Paul Morris (2015) Comparative education, PISA, politics and educational reform: a cautionary note, Compare: A Journal of Comparative and International Education, 45:3, 470-474

[2] Eduscopio 2019, la classifica delle scuole superiori. Trova la tua città. https://www.quotidiano.net/cronaca/eduscopio-2019-1.4872492

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La formazione dei docenti: think tank, lobby e politica ultima modifica: 2020-02-19T05:29:50+01:00 da
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