di Monica Coviello, Vanity Fair, 12.5.2018
– Giuseppe Falsone, insegnante di Scienze della provincia di Treviso, che alla fine di febbraio era stato aggredito e picchiato dai genitori di un suo alunno, ci ha mandato una lettera.
È successo di nuovo: ad Avellino, un alunno diciottenne dell’istituto tecnico industriale Guido Dorso ha colpito con uno schiaffo il professore che l’aveva sgridato perché stava impennando con il motorino nel cortile della scuola insieme ad altri due amici. È solo l’ennesimo caso. Una escalation che rischia di compromettere definitivamente il rapporto fra le famiglie e la scuola, e di sancire la rottura definitiva del loro patto educativo.
Per questo un professore, Giuseppe Falsone, insegnante di Scienze della provincia di Treviso, che alla fine di febbraio era stato aggredito e picchiato dai genitori di un suo alunno, ha mandato una lettera a vanityfair.it. Parole che descrivono il suo stato d’animo e cercano di spiegare che cosa possa essere davvero successo alla scuola. E che, soprattutto, vogliono incoraggiare gli insegnanti a continuare a fare il loro lavoro. A riprendersi l’autorevolezza.
«Ci sono passato anch’io, come tanti di noi. Anzi, forse sono stato più fortunato di qualcuno.
Aggredito, ingiuriato e minacciato dai genitori. E poi costretto a rivolgermi ad un legale per difendermi da una procedura interna avviata dal mio istituto. E poi, ancora, la raccolta di firme per la mediaticità che disturberebbe il personale scolastico, l’impunità assoluta allo studente mandante che ha raccontato il falso, la difficoltà di accettare che il sistema in cui ho sempre creduto sia proprio questo. Dove sta la fortuna, direte voi? Nel fatto che almeno non ho avuto il viso sfregiato o le costole rotte!
Benvenuti nella scuola moderna, quindi. Benvenuti nella scuola che si sta trasformando in azienda, dove i presidi sono diventati i dirigenti, lezioni e laboratori sono l’offerta formativa, i genitori sono i clienti da accontentare e la burocrazia la vera padrona di tutti e di tutto, tiranna senza cuore.
E i docenti? Li abbiamo dimenticati? I docenti sono troppo spesso gli operai di un colossale sistema autoreferenziale, vittime sacrificali di un macchinario che certifica da solo quanto è buono ed efficace, spesso utilizzati in funzione dell’indice di soddisfazione delle famiglie, un indice che si misura con l’ampiezza del sorriso con il quale gli alunni arrivano al diploma. Un diploma sempre più regalato e, quindi, sempre più svalutato.
Tutto da buttare, allora? No, certo, ma è arrivata l’ora di chiederci se vogliamo arrivare a fine carriera sopportando oppure trasformando. È ora di ruggire lo sdegno e di riappropriarci del bello della scuola. Che non è mai scomparso ma che arde fievole la sotto le carte, i doveri ed il senso di frustrazione.
Prima di tornare in classe ho dovuto assentarmi 15 giorni dal lavoro per digerire ed elaborare non gli schiaffoni, ma il senso di delusione e sdegno che ho provato a fronte al prosieguo della mia vicenda.
Un’assenza durata fino a quanto ho sentito quel “richiamo della foresta” primordiale e scritto nel nostro genoma che fa di ogni prof un insegnante vero: quella voglia di tornare a costruire qualcosa per loro, i ragazzi. Quello scambio di amore reciproco che tra un rimprovero di 10 minuti ed una pacca sulla spalla, ti fa scendere la lacrima a fine anno, quando sai che i giovani virgulti prenderanno la loro strada.
Conservo ancora con gelosia e soddisfazione I veri insegnanti insegnano col cuore, non con il libro, quel manualetto in cui ciascuno ha scritto un piccolo pensiero per quel docente severo e simpatico che, però, è stato sempre un modello di correttezza e di valori per loro, preoccupati di sapere se il loro prof sarebbe tornato o meno per accompagnarli all’esame. “Prof, per me lei è stato un esempio”. Non credo che nella mia professione potrò mai desiderare un complimento più bello. Lo auguro a tutti i miei colleghi, davvero.
Così, cari prof stanchi e vituperati, se ci serve energia, ripartiamo da loro. Perché è per loro se abbiamo abbracciato questa professione. Quanto successo mi ha portato a concludere che non è giusto farsi strappare la voglia di insegnare da un sistema corrotto da mille incongruenze e da troppa ipocrisia.
Di fronte ai bulli che troppo spesso inquinano la cronaca scolastica, ai genitori che si fanno giustizia da soli, ai TAR che accolgono ricorsi impossibili, ricordiamo che la stragrande maggioranza dei ragazzi crede ancora nel buono che sappiamo dare e nella passione che sappiamo trasmettere.
Da qui, il nostro dovere di difendere i buoni. Difendere i buoni significa cominciare a riprendere quell’autorevolezza e quel ruolo che normative e società ci hanno tolto.
Difenderli significa riaffermare il diritto di ogni alunno che viene a scuola a godere di un clima sereno di lezione, di un docente messo in condizione di fare il suo lavoro nel migliore dei modi, di un sistema che promuova i meritevoli e allo stesso modo che punisca violenti, maleducati e nullafacenti. Significa pretendere una scuola che supporti i ragazzi in difficoltà ma anche i colleghi in difficoltà, che si apra al dialogo con le famiglie ma che ne limiti l’ingerenza nell’attività didattica. Una scuola che sia un’opportunità da cogliere rispettando le regole della civile convivenza e non un parcheggio obbligato per adolescenti insofferenti.
Troppo spesso siamo vittime della paura dei ricorsi, delle minacce dei dirigenti scolastici, della poca solidarietà dei colleghi. E troppo spesso ci arrendiamo a tutto questo senza lottare, incapaci di trovare il carattere di reagire. Si dice che ciò che non ti uccide, ti fortifica. E devo riconoscere che per me è stato proprio così. Così, cari leoni, è arrivato il momento di ruggire.
Se c’è qualcosa che la mia esperienza mi ha insegnato, è che dobbiamo smettere di avere paura, di considerare la frustrazione come uno status abituale della nostra professione, di tollerare il caos e la maleducazione come elementi strutturali di una lezione, o il senso di inadeguatezza di fronte alle critiche dei dirigenti come un male inevitabile del professore.
Dobbiamo recuperare il senso d’indignazione di fronte alla mancata tutela da parte del sistema, l’intolleranza di fronte all’educatività travestita da impunità, la pretesa di svolgere la nostra professione nella massima serenità.
Il diritto all’istruzione è anche nostro. E per amare i ragazzi dobbiamo continuare ad amare il nostro lavoro. Che ce lo lascino fare».
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