La scuola delle comunità e dell’uguaglianza del Ministro Bianchi

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di Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, Roars, 1.4.2021.

Gilda Venezia

Dopo avere esaminato i lavori della task force presieduta la primavera scorsa da Patrizio Bianchi, in questo secondo contributo affrontiamo direttamente il tema della scuola del futuro, come viene descritta dal neo ministro e dal gruppo di lavoro che egli ha diretto. L’impressione che se ne ricava è che, al di là di una retorica tutta improntata alla novità e alla radicale trasformazione, ciò che viene proposto è assolutamente in linea con i principi fondativi della Buona Scuola, nei confronti della quale il nuovo esecutivo sembra voler agire in assoluta continuità. Essenzializzazione dei curriculi, centralità del sapere matematico-scientifico, funzionale allo sviluppo di una forma mentis imprenditoriale e progettuale, oltre che fondamento delle competenze digitali; uso estemporaneo e funzionalistico del sapere umanistico;  destrutturazione dei gruppi classe, del tempo e dello spazio- scuola; annullamento dell’autonomia intellettuale della funzione docente; ridefinizione della governance scolastica, con preminenza dell’azione dirigenziale; delega diffusa della responsabilità decisionale delle fasi decisive del progetto didattico alle esigenze di soggetti economici esterni. Questo disegno viene però presentato come proprio di un’idea di comunità inclusiva e solidale, capace di risolvere quella diseguaglianza di opportunità che affligge la scuola italiana. Si ridefinisce quindi la categoria stessa di uguaglianza, che coinciderebbe col rendere universale il modello antropologico dell’(auto)imprenditorialità e della resilienza. La vera funzione “sociale” della scuola – e il dovere deontologico dei suoi insegnanti – consiste nel formare soggettività capaci di conformarsi intellettualmente e materialmente alle “comunità” di riferimento.

 


 

Nel primo dei tre contributi dedicati ad una lettura critica dei documenti prodotti dal neoministro Bianchi, ci siamo soffermati sul ruolo della task force da lui guidata tra la primavera e l’estate 2020, valutandone sia i risultati, sia la funzione di “laboratorio” in vista dell’azione riformatrice da intraprendere.

Come già osservato, la valutazione sul lavoro di quella task force non può condurre a un giudizio positivo, soprattutto in relazione al fine prioritario e di maggiore urgenza per cui quel gruppo di lavoro era stato costituito: porre le basi per una riapertura delle scuole in presenza dopo la prima fase di emergenza pandemica.

Dietro quella apparente inefficienza,  tuttavia –peraltro oggi negata, con un sapiente lavoro di sostegno da parte della stampa mainstream – in realtà, c’è altro, ovvero un’articolata opera di elaborazione e progettazione della visione di scuola che ci attende e degli strumenti per la sua implementazione.

Con questo secondo contributo, dunque, vorremmo entrare nel vivo di quell’idea di scuola, così come ci viene presentata nell’ampia documentazione ad oggi disponibile: il libro Nello specchio della scuola, pubblicato nell’ottobre 2020 a nome del Ministro presso Il Mulino; e il Rapporto Finale, curato dai componenti dell’intera Commissione presieduta da Bianchi, datato al luglio scorso, ma inspiegabilmente reso noto solo nel febbraio successivo.  È in particolare a queste due fonti che noi ci riferiremo[1], nonostante in questi mesi si siano rese disponibili diverse dichiarazioni sia del ministro – che ha concesso un numero elevato di interviste[2] – che di alcuni componenti della task force. Ricordiamo lo slancio dell’immagine di “scuola ibrida” , di Giulio Ceppi, o l’enfasi futurista di Cristina Pozzi, entrambi membri della gruppo di lavoro presieduto da Bianchi, quando descrivevano, nella primavera scorsa, il “cantiere” di idee in corso di elaborazione.

A partire da questa documentazione, pensiamo sia possibile avanzare un giudizio su ciò che ci attende.

Una retorica della novità e dell’innovazione, la realtà della continuità e della ripetizione

Dichiariamo fin da subito l’esito della nostra analisi: la scuola prospettata dal nuovo Ministro non ci consegna nulla di nuovo.  La scuola del futuro, dell’era post Covid, nasce già vecchia: nelle intenzioni, nelle finalità, nei valori fondativi, nel modello di governance e di organizzazione, nell’idea di ristrutturazione ordinamentale.

Ma forse è proprio la riedizione convinta, radicale e decisiva della medesima sostanza presentata all’ombra di una narrazione ispirata ai principi di coesione efficiente, di integrazione virtuosa pubblico-privato, di democrazia sussidiaria, in fondo “tipicamente emiliani”, a rendere quel modello, nella congiuntura storica, sociale e sindacale di oggi, una novità potenzialmente dirompente.

Quali sono i tratti principali della visione di scuola del nuovo Ministro?

A sentire le dichiarazioni ufficiali di Patrizio Bianchi,  presentate anche da giornalisti  poco avvezzi ai problemi reali dell’istruzione e poco inclini a proporre domande capaci di avviare un contraddittorio, sembrerebbe siano in cantiere delle assolute novità, che spingeranno finalmente la scuola italiana verso quelle prospettive di cui avrebbe drammaticamente bisogno. In realtà, se si valuta la sostanza di questa visione e la concretezza delle azioni e delle proposte,  si comprende che essa non introduce alcunché di originale rispetto a tutte le principali convinzioni che il progetto riformatore porta avanti da più di due decenni.

Schematizziamo alcuni punti di intervento:

1) Essenzializzazione dei curricoli con forte riduzione, sino al suo totale snaturamento, del sapere disciplinare e teoretico e dei suoi contenuti formativi, che si configurerebbe quale necessità educativa dovuta all’avvento della “quarta Rivoluzione industriale”. Leggiamo, ad esempio, in uno dei tanti passaggi sul tema, che non bisogna:

disperdere le occasioni fornite dalla pandemia [..] andare all’essenziale delle competenze, trasformare ogni persona nel primo ingegnere di se stessa”.

Esemplare, in tal senso, il riferimento all’idea di educazione che meglio risponderebbe ai mutamenti e alle esigenze del XXI secolo: “situata nel tempo e nello spazio, locale e globale, generale e specializzata, connessa e radicata nella comunità di riferimento”. Un’educazione trasversale e multidimensionale, denominata: C.A.M.PU.S, ovvero Computing, Arte, Musica, vita PUbblica, Sport e descritta come un insieme di:

conoscenze, carattere, abilità, autoriflessione…permette di allenare la resilienza, il coraggio, l’empatia, l’etica e la leadership; contribuisce ad insegnare ai giovani a osservare, riflettere, comprendere, decidere, immaginare, analizzare, ragionare, criticare, costruire, collaborare, mettersi in gioco, agire, apprezzare il bello; alimenta l’autoefficacia, l’autoprotezione e l’autorealizzazione, la speranza.”

2) assoluta centralità delle competenze matematico-scientifiche, ma in un’ottica ed entro un paradigma ben precisi. Da un lato, orientamento al problem solving e alla costruzione di pensiero algoritmico, strettamente connesso alla logica intrinseca della tecnologia digitale (Il digitale senza se e senza ma, è uno dei titoli delle sezioni del Rapporto finale), definita “booster dell’apprendimento, mezzo di uso quotidiano naturalmente integrato alla didattica attiva, così da divenire “trasparente”. Dall’altro, competenze matematiche come fondamento di quella forma mentis indirizzata allo spirito di iniziativa e alla produttività, da esercitare anche nei nuovi laboratori STEM o STEAM (Scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, con la “A” di arte)  da costruire  in ogni scuola, come recentemente auspicato dai vertici di Confindustria in Parlamento .  Nel Rapporto finale leggiamo infatti che tali spazi-laboratorio, in particolare “nella scuola secondaria di secondo grado [dovranno opportunamente] privilegiare l’educazione imprenditoriale, il pensiero progettuale”.

3) l’uso estemporaneo e funzionalistico del sapere umanistico, considerato come semplice supporto alla preparazione tecnico-scientifica, come dimostra la modifica dell’acronimo STEM in STEAM, dove la “A” aggiunta sta appunto per “arte”. Questa darebbe ulteriore supporto all’autentica creatività, proprietà ormai esclusiva dei tecnici, considerati gli unici depositari del pensiero creativo ai nostri giorni:

Perché parliamo di STEAM? Perché oggi è fondamentale avere una mentalità polivalente: uno scienziato, un matematico o un designer sono pensatori creativi e innovativi che risolvono problemi.”[3]

4) un annullamento dell’autonomia intellettuale della funzione docente, che -in linea con i documenti precedenti del MIUR che lo riducevano ai compiti di “operatore” o di “facilitatore” – avrebbe l’esclusivo compito di «un’adeguata rilevazione delle esperienze e dei saperi acquisiti». Prospettive ben note, tipiche di quella tendenza che è stata definita “politica di umiliazione dei docenti”[4], da perseguire con un loro forte disciplinamento introducendo dispositivi di differenziazione salariale e di carriera associati a un sistema di crediti professionali, di premi, incentivi e valutazione in funzione di standard esterni. Nulla di nuovo, poiché il Rapporto finale non fa che riprendere letteralmente quanto previsto dal documento del MIUR Sviluppo professionale e qualità della formazione in servizio, già commentato nel 2018;

5) una ridefinizione della governance scolastica, con preminenza dell’azione dirigenziale – un “dirigente che sappia  come usare bene tutti i suoi poteri”;   il tema “aperto”, che resta sullo sfondo, della revisione degli organismi di governo collettivi delle scuole, di cui si denunciano le prassi di  “collegialità ritualistica, burocratica e standardizzata”; la diffusione di una nuova cultura della progettazione “oltre che di studenti, insegnanti, genitori e familiari, anche di enti territoriali, terzo settore, imprese, mondo dell’associazionismo e delle professioni”; e quindi l’istituzione di “nuove figure professionali a livello territoriale, capaci di accompagnare e sostenere le innovazioni”.

6) Una nuova gestione sociale delle scuole, ovvero la delega di una diffusa responsabilità decisionale rispetto a tutte le fasi decisive del progetto didattico (scelta dei contenuti e delle metodologie, elaborazione dei criteri di valutazione) alle esigenze di soggetti economici esterni, in nome dell’apertura della scuola “alla comunità” e del principio di sussidiarietà. Gli stakeholders interessati a ciò che la scuola produce sono quindi sempre più legittimati a imporre, in maniera più o meno diretta, scelte didattiche ritenute più idonee. Tale affidamento dell’organizzazione scolastica ad attori esterni viene indicata con l’eufemistica espressione “Patti educativi di comunità”. Si tratta di un inganno linguistico non da poco, che nasconde la portata di questa operazione con un uso retorico dei concetti di “inclusione” e di “lotta alla diseguaglianza”. Non sono mai chiariti, infatti: né i nessi logici tra l’idea di scuola affidata alle comunità territoriali e il superamento dei divari economico-sociali e geografici; né se l’inclusione debba intendersi nella sua accezione esclusivamente localistica, nonostante i numerosi richiami all’internazionalizzazione, al multilinguismo e alla globalizzazione.

7) La disarticolazione del tempo scuola e dell’organizzazione per classi, che va di pari passo con quella dei curricoli e la loro riformulazione. Si rilancia l’idea del taglio di 1 anno dei percorsi secondari di secondo grado – singolare che lo si faccia in un periodo in cui si parla tanto di “recupero del tempo perso”! ;  si propone, inoltre, di integrare con opportune modifiche ordinamentali  il “tempo scuola formale”, ovvero delle attività definite “ forme note e usuali” dell’istruzione, con il “tempo scuola informale”, ovvero “percorsi che nascano dai Patti di comunità” e la cui “articolazione varierà da luogo in luogo”. La classe, d’altro canto, è associata nei documenti all’idea di “gabbia”, di “dispositivo burocratico” e “amministrativo”, di “coorte” studentesca. Va dunque superata in favore dei “gruppi di apprendimento”, che meglio si adattano a quella flessibilità e individualizzazione evocate. Non a caso si richiamano, per le scuole secondarie di primo e secondo grado, le esigenze di “maggiore libertà di scelte delle famiglie”, di percorsi opzionali “da sviluppare sia in ambito educativo che nel territorio”.

Come appare evidente da questo breve elenco, non esaustivo, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma una serie di temi sui quali -se si ha la pazienza di consultare l’ormai sterminata bibliografia a riguardo dell’ultimo trentennio- si è già ampiamente discusso e di cui si sono evidenziati i limiti epistemologici e le possibili derive.

Si invitano i lettori, a titolo di confronto, a consultare la documentazione prodotta in occasione della riforma Berlinguer del 1997 con quella di oggi.
Questo estratto, tra i tanti, può rendere l’idea:

si tratta di introdurre nella didattica alcuni contenuti innovativi propri di questo nuovo approccio: il superamento della “cultura del posto” a vantaggio di una nuova visione delle opportunità e delle professioni; la cultura della flessibilità attraverso la conoscenza delle nuove forme di organizzazione dei processi lavorativi; le nuove forme del lavoro, da quello autonomo a quello artigianale, a quello atipico; la preparazione all’autoimprenditorialità. Per il secondo, considerata la maggiore velocità di trasformazione dei processi strutturali rispetto a quelli culturali, il problema più urgente è di por mano all’impianto metodologico della scuola: è in gioco non solo una questione di contenuti, ma anche e soprattutto una questione di metodo di studio e di impegno umano. Si tratta allora di utilizzare e valorizzare le forme dell’apprendere proprie del mondo esterno alla scuola, sviluppando il senso di responsabilità e di autonomia che richiede il lavoro, le capacità etiche ed intellettuali di collaborazione con gli altri, la pianificazione per la soluzione di problemi concreti e la realizzazione di progetti significativi (competenze di tipo trasversale da promuovere nella scuola e nell’educazione permanente). In questo quadro andrà particolarmente valorizzato il rapporto costruttivo fra scuola, comunità locali, mondo produttivo.”.

La pressoché totale indistinguibilità delle premesse concettuali di allora, esposte con prosa più chiara e lineare rispetto a quella attuali, a nostro parere più prolissa ed enfatica, dovrebbe, quanto meno – dopo  20 anni dalla loro formulazione – consigliare prudenza nell’assumere le soluzioni proposte come l’innovazione di cui la scuola ha bisogno, non certo fervido entusiasmo.

Una scelta delle fonti da consultare piuttosto comoda

Risulta di grande interesse valutare le fonti di ispirazione cui sia la task force sia il neo ministro hanno fatto riferimento: ovvero da una parte gli stakeholders convocati per le numerose audizioni, ed elencate in dettaglio nel Rapporto finale; dall’altra la bibliografia in calce al libro di Patrizio Bianchi. Il sospetto che si volesse trovare conferma di un’idea di scuola già in partenza ritenuta valida potrebbe essere confermato dai nomi dei componenti la Commissione stessa e dalle loro dichiarazioni pubbliche precedenti; ma sembra ulteriormente corroborato da questa interessante verifica. Possibile che nessun autorevole esponente tra chi si è opposto o è stato critico in questi anni all’impianto di riforma della scuola sia stato convocato?  Quale approccio scientifico al problema è quello di chi esclude qualsiasi riferimento falsificante, qualsiasi confronto con argomentazioni in dissenso, ma sicuramente fondate sul piano epistemologico-razionale, rispetto a quelle che la Commissione intende affermare? Sarebbe importante avere accesso, in nome di quella “trasparenza” e “tracciabilità” invocate nel Rapporto, alle memorie dei dibattiti che si sono svolti nelle audizioni e nelle consultazioni avvenute nei mesi scorsi. Anche nella bibliografia riportata alla fine de Nello Specchio della Scuola le fonti sembrano accuratamente selezionate: Bertagna, Campione, Dutto, Pellerey, Ribolzi; accanto a Delors, documenti OCSE o documenti istituzionali regionali (Emilia Romagna).   Nessuna citazione dei pur importanti studi critici pubblicati in questi anni, riferimenti casuali ad alcuni classici (Adam Smith o Tocqueville), spesso utilizzati fuori contesto, e inseriti quasi per dare una cornice culturalizzante a un impianto di pensiero la cui matrice è organizzativo-gestionale.

Sebbene nel testo si faccia ripetutamente richiamo ai principi di sussidiarietà e autonomia, ai temi dello “sviluppo umano” e della “disabilità”, cari ad autori come Sen e Nussbaum (quasi a voler rimarcare un cambio di passo, in virtù del quale la scuola delle capabilities, della capacitazione, non sarebbe più quella del capitale umano), bisogna guardare alla sostanza delle proposte che danno corpo alla scuola di Patrizio Bianchi per scorgere eventuali discontinuità rispetto al paradigma di riforma dell’istruzione che domina da decenni.  È proprio qui il punto: non basta richiamare le categorie concettuali di “persona”, “sviluppo”, “benessere”, “solidarietà” o “cooperazione”. Come sempre, è la concretezza delle proposte – quelle sintetizzate nel paragrafo precedente – a dare significato effettivo ai principi che si enunciano.

La struttura argomentativa di Nello Specchio della scuola ci sembra peraltro ricalcare, soprattutto nella prima parte, quella di alcuni testi di anni passati situati sulla stessa lunghezza d’onda, e in particolare lo studio di Roberto Campione e Silvano Tagliagambe, Saper fare scuola: il triangolo che non c’è  (Einaudi, Torino 2008). Ampi excursus introduttivi, in questo caso di carattere storico o economico, in quel caso prioritariamente relativi a teorie comportamentistico-cognitivistiche, dai quali trarre significative inferenze sulla scuola, che in realtà si rivelano o estremamente deboli, o addirittura inesistenti. Ciò vale, nel caso del libro di Patrizio Bianchi, per i capitoli che vorrebbero illustrare la rassegna storica sull’istruzione, dalla Riforma protestante a oggi, molto semplificata, di cui non è ben chiara la funzione se non quella di offrire al lettore poco accorto una cornice culturale che dovrebbe dare maggiore credito a tesi che altrimenti risulterebbero alquanto forzate.

Un’ apparente comunità educante fondata sulla centralità dell’impresa e dell’imperativo economico

Non sono tuttavia i riferimenti storico-culturali a dare sostanza alle argomentazioni presenti sia nel libro che nel Rapporto Finala. L’assunto principale, considerato come premessa per la costruzione del discorso e  in base a quale si motiverebbero interventi tanto urgenti quanto radicali sulla scuola pubblica, riguarda la presunta esistenza di un legame diretto tra l’auspicata crescita economica dell’Italia e la sua organizzazione scolastica; convinzione che emerge del resto pienamente dalla bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che la redazione di Roars ha già sottoposto ad attenta analisi.

Tale relazione, di certo non originale, si è ulteriormente esasperata proprio a causa degli effetti della pandemia. Non c’è dubbio in effetti che quest’ultimo anno abbia peggiorato enormemente l’economia del nostro paese e le sue prospettive di sviluppo. Sfugge però a noi il senso dell’inferenza tra il COVID-19 e la necessità di sviluppare nuove competenze tra gli studenti e i docenti:

«[la] necessità di bloccare i contagi ha imposto e impone una profonda riflessione sulle modalità di organizzazione della nostra società ed in primo luogo della scuola […] a riflettere sulle basi culturali di riferimento e sui modelli educativi finora seguiti ».

Per cui diverrebbe dunque:

«ormai indifferibile avviare una vera fase costituente per la scuola, per aprire una nuova stagione in cui la scuola torni a essere, o forse meglio divenga, il motore di una crescita di un paese che da troppo tempo è bloccato.»

Per quanto riguarda il nesso scuola-sviluppo produttivo, Bianchi fa sua una considerazione che in questi anni abbiamo sentito ripetere più volte:

«le tecnologie che definiamo di Quarta rivoluzione industriale si basano sulla possibilità di dare risposte produttive non più di massa, ma basate sulla qualità, quindi anche su quella creatività produttiva e quella capacità di ascolto che permettono di offrire risposte personalizzate, qualità che ha costituito il motivo di successo di molte imprese italiane negli ultimi anni, ma non di tutto il paese».

E ancora:

«Se il vero vincolo alla crescita del paese è dato dalla qualità delle nostre risorse umane, allora la scuola diviene il perno di ogni politica di rilancio.»

La concretizzazione sul piano didattico di tale esigenza è altrettanto chiara, e sta

«nella disponibilità di quelle competenze rivolte alla risoluzione dei problemi complessi, le cosiddette problem-solving skills, che oggi sembrano essere sempre più rilevanti per lo sviluppo».

Chiediamoci, allora, ancora una volta: chi ha stabilito questi nessi?

Essi derivano direttamente da un fronte specifico della cultura economica, quello che difende un certo tipo di paradigma, e che dunque pensa all’istruzione come laboratorio di soggetti adatti alle nuove caratteristiche del mercato del lavoro:

un percorso verso quello sviluppo umano a cui la recente letteratura economica, ma anche la più attenta ricerca pedagogica ci portano.”

Notiamo in questo passaggio come la ricerca pedagogica venga solo dopo l’esigenza economica, e sia selezionata solo quella più “attenta”, ovvero quella che presumibilmente fa coincidere la propria impostazione teorica con le esigenze delle tendenze economiche dominanti. Ciò forse spiega l’assoluta parzialità e insufficienza della bibliografia posta alla fine del volume, cui abbiamo fatto cenno sopra.

Si sta ri-affermando, quindi, anche se in maniera addolcita da richiami a categorie di carattere sociale, un nesso preciso: e cioè che l’interesse economico generale, inteso come interesse delle imprese e del mondo produttivo, coinciderebbe con quello di tutti.

Questo traspare con candida chiarezza verso la fine del libro del Ministro:

«Le imprese oggi richiedono scuole per rispondere non solo alle loro esigenze tecniche ma sempre più per disporre di persone, in posizioni sia apicali sia intermedie, in grado di vedere oltre la siepe dell’incertezza. Competenza e visione diventano oggi quanto mai necessarie per chi si candida a guidare la res publica, dove per troppo tempo le carriere si sono forgiate al di fuori, e a volte contro la scuola, in una separatezza nei confronti della società che, nonostante tanti affermino il contrario, sembra essersi allargata

Come si nota, dietro i toni vagamente libertari (ma anche espressioni di cattiva letteratura, come “la siepe dell’incertezza”, che ritornano spesso sia nella prosa del testo sia soprattutto del rapporto) siamo ancora di fronte alla stessa riconfigurazione antropologica e alla stessa sussunzione degli interessi della società negli interessi d’impresa, predicata da decenni.

Tale riconfigurazione deve necessariamente partire dalla scuola, dalla sua ristrutturazione didattica e organizzativa. La capacità di “visione”, di saper individuare il futuro, di non soffermarsi sull’ “incertezza” – che immaginiamo sia da riferirsi al destino di precarietà che attende molti degli attuali studenti –  fanno riferimento alla modalità, nient’affatto libera, della progettazione aziendale, che deve diventare progettualità pedagogica.

Ma nel passo citato c’è anche un elemento in più, che suona quasi come giustificazione ideologica dell’attuale esecutivo. Quelle competenze tecniche richieste dalle imprese sono altrettanto “necessarie per chi si candida a guidare la res publica”, che a questo punto non distingue più tra sfera pubblica e sfera privata.
D’altra parte, che la scuola debba organizzarsi come un’azienda, con tanto di gerarchia interna e funzione impositiva del Dirigente Scolastico, è chiaramente espresso nel rapporto:

«La scuola è un’organizzazione complessa, perché tutto funzioni è necessario che gli elementi che ne fanno parte siano ben coordinati fra loro, che ci sia coerenza tra tutte le azioni poste in essere, che siano chiari ed esplicitati gli scopi da raggiungere e che si sappiano utilizzare in maniera efficace le risorse disponibili. Una comunità scolastica che funzioni ha bisogno di un dirigente che sappia utilizzare bene tutti i suoi poteri e ne sappia rispondere responsabilmente; di insegnanti che oltre a essere competenti siano capaci di stare dentro i processi svolgendo anche funzioni diverse; di un personale amministrativo preparato, che sappia condividere le scelte della scuola».

Uno spazio, dunque, dove tutto è progettato, deciso nei minimi dettagli con ampia partecipazione degli “attori del territorio” e in cui agli insegnanti resta un ruolo operativo, di supervisione e motivatore, come si scrive nel Rapporto Finale: “agli insegnanti resta la responsabilità di una adeguata rilevazione delle esperienze e dei saperi acquisiti”.

Questa visione della scuola eterodiretta trova nei dispositivi di valutazione la sua leva principale ed è- almeno sul piano formale – già realtà, grazie  al completamento proprio del ciclo di valutazione delle scuola,  istituito dal Sistema Nazionale di Valutazione nel 2013. Tale ciclo si conclude infatti con la pubblicazione della Rendicontazione sociale , un documento dal formato standardizzato, in cui gli istituti rendono conto dei loro risultati in relazione al contesto; di come abbiano saputo rispondere alle sollecitazioni dei vari stakeholders del territorio. La lettura di tali bilanci, pubblicati sulla piattaforma ministeriale “Scuola in chiaro”, può essere di grande interesse, sia per comprendere il linguaggio utilizzato, mutuato dai corsi di management, sia per valutare la perdita secca di autonomia progettuale delle scuole, e l’omologazione a cui tali strumenti hanno inesorabilmente condotto. Con il rischio, sicuramente in alcuni contesti più che in altri, di un controllo pressante sull’ operato delle scuole, di consegna del processo educativo a interessi esterni – e spesso privati – di conformismo delle scelte formative.

Più che allo sviluppo di personalità critiche, tale impostazione sembra orientare, al contrario, proprio alla formazione di soggettività incapaci di mettere in discussione il modello culturale esistente. Si tratta anche questo di un punto importante, in quanto a parole si dichiara che tale idea di scuola pretenderebbe di valorizzare esattamente il pensiero e sapere critico, incredibilmente identificato in toto con la logica computazionale, ovvero quelle attitudini mentali tipiche del pensiero algoritmico, ricorsivo, strategico[5]. Accenniamo appena in nota ad una tra le convincenti analisi che contestano questa identificazione tra “sapere critico” e problem solving[6] e a quale drammatica povertà intellettuale, ma anche etica, produce il suo essere privilegiato in modo sostanzialmente esclusivo, nella sua dimensione profondamente anti storica, anti filosofica e anti umanistica.

Un’uguaglianza nel segno dell’impresa

 Difficile, dal nostro punto di vista, individuare in questo progetto di nuova scuola principi e caratteristiche in linea con lo spirito della Costituzione repubblicana. Eppure, è ciò che i documenti del Ministro rivendicano in modo risoluto in più parti. La nuova scuola renderebbe finalmente concreto il principio più nobile del testo costituzionale, quello dell’uguaglianza, che la scuola è incapace di realizzare.
Il paralogismo utilizzato, per sostenere una tesi che a noi continua a sembrare paradossale, sta nell’identificare la raggiunta eguaglianzacon la capacità da parte di tutti di essere in grado di conformarsi alle esigenze avanzate dal mercato del lavoro e del mondo delle imprese; e quindi di non venire esclusi dalla possibilità di percepire un reddito.

Poiché il mercato del lavoro è feroce, e molti giovani rischiano di esserne espulsi se non ricevono una formazione adeguata alle sue richieste, diventa dovere delle scuole -e di conseguenza fondamento deontologico della professione docente- quello di adeguarsi a tale imperativo. L’esigenza dell’utente-studente sarebbe così prioritaria, coinvolgendo la sua stessa possibilità di sopravvivenza, tanto da sacrificare quel fastidioso principio contenuto nell’art.33, la “libertà d’insegnamento”, che andrebbe trasformato da diritto individuale a diritto assegnato all’entità “metafisica” collegiale, le cui decisioni prevarrebbero su quelle dei singoli. Sarebbe questa ciò che nel rapporto finale viene indicata come “funzione sociale dell’insegnamento”.[7]

Si tratta in realtà, a nostro parere, di una profonda operazione di condizionamento culturale,  di naturalizzazione dello stato di cose e dei rapporti di forza del presente, sullo sfondo di una visione conciliatoria delle relazioni sociali, delle relazioni lavoro-impresa, delle differenze territoriali e delle loro cause – che sparirebbero dall’orizzonte dei progetti educativi dei singoli istituti – ciascuno centrato sul proprio territorio.   E’ questa un’educazione concepita nel senso della resilienza, intesa come capacità di accettare la dimensione futura della precarietà quale condizione permanente; condizione che diventa sopportabile quanto più si è capaci di conformarsi intellettualmente e materialmente alle richieste della “società”. Invece in Nello Specchio della Scuola leggiamo: “alla scuola viene quindi demandato il compito di rendere effettiva la democrazia affermata dalla Costituzione» e nel Rapporto c’è addirittura un riferimento al secondo comma dell’articolo 3. Noi dubitiamo che una scuola in cui la formazione risulti così condizionata dagli interessi economici possa poi coincidere con quella “dignità sociale” richiamata proprio all’inizio di quell’articolo.

L’ apertura necessaria alla società e alla logica del mondo produttivo vengono invece giustificate, quasi paradossalmente, con affermazioni di segno contrario. Il mettere “Le mani sulla scuola” viene descritto come un processo solidale ed inclusivo.  L’inclusività, evidentemente, consisterebbe nel rendere universale la costruzione di una forma mentis imprenditoriale, creativa e strategica, che garantirebbe l’accesso al mondo delle imprese, considerato come quello in cui ogni individuo raggiungerebbe la più piena emancipazione e la realizzazione di sé.

Poco importa che tale inserimento non sarà per tutti, e che la competenza di chi sarà costretto a realizzarsi in forme di lavoro non gratificanti, soprattutto se poste in relazione al titolo di studio posseduto, dovrà fare riferimento con la gestione delle incertezze. Su questo Patrizio Bianchi soprassiede, ma tale cruda realtà la troviamo espressa proprio in un testo che fa riferimento alla Fondazione Agnelli: essere competenti significa “saper porsi in modo proattivo in ambienti difficili e contraddittori, come quelli caratterizzati dall’incertezza sulla permanenza della propria occupazione”.[8] Una prospettiva, quella promessa dagli economisti, dunque tutt’altro che irenica. È solo in questa chiave che a nostro parere vanno interpretati i concetti di “comunità” e i corrispondenti “patti educativi” che, nelle parole di Bianchi, hanno l’obiettivo di garantire un “travaso” continuo, dalla filiera scuola-università a quella d’impresa:

rendere la comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attuazione alla legge sull’autonomia. Qui diviene cruciale il rapporto con l’università e i centri di ricerca, che devono avere la possibilità di costruire relazioni più strette con la scuola, in modo da garantire un “travaso” continuo dei loro studi e la loro messa a disposizione di un sistema educativo che deve poterli tradurre – soprattutto per quanto riguarda le materie scientifico-tecnologiche (Science, Technology, Engineering and Mathematics, STEM), cioè quelle più legate all’evoluzione delle scienze sperimentali – nella capacità di lavorare in gruppo per risolvere problemi complessi. Del resto, le imprese che stanno affrontando oggi la transizione verso la Quarta rivoluzione industriale richiedono proprio queste competenze – le cosiddette soft skills – […]”.

Come si nota, le “comunità educanti” educano alle richieste delle imprese, oggi preda di una nuova fase di crisi, mentre la scuola perde così ogni autorità nell’immaginare il proprio progetto didattico.

Sarebbe questo l’esito definitivo della completa realizzazione dell’“autonomia scolastica”. Risulta difficile, giunti a questo punto, evitare il sospetto di trovarsi di fronte a una ben pensato progetto politico, che ai nostri occhi si presenta, oltretutto, come un’indubbia operazione di espropriazione di un patrimonio e di una tradizione culturale, presentata con l’immagine opposta dell’apertura, dell’inclusività e della partecipazione.  Conviene allora riflettere proprio su questo: sull’ inferenza ingiustificata, sulla distorsione del lessico che vuole convincere che il dominio neoliberale sulla cultura si traduca in solidarietà e interesse generale, e non invece  in una forzatura delle finalità che la Costituzione repubblicana assegna alla scuola democratica.

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[1] Tutte le citazioni che seguiranno, dunque, salvo quelle esplicitamente richiamate, sono tratte dal libro Nello specchio della Scuola o dal Rapporto Finale, 13 Luglio 2020.

[2] Interessante anche la presentazione del libro dell’Ottobre scorso, visionabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=_doo6mxQ_Hg

[3] Non c’è dubbio che l’aggiunta di questa “A” deve essere apparsa un vero colpo di genio a chi l’ha concepita, in un’incredibile operazione intellettuale di sopravvalutazione di se stessi;

[4]  H.Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici, La Scuola, Brescia 2014,

[5] Cfr. Rapporto finale: «È auspicabile che gli insegnanti stimolino il pensiero critico, creativo e gli interessi epistemici dei ragazzi, garantendo l’integrazione tra le conoscenze teoriche e quelle pratiche. Inoltre, impegnarsi nel promuovere le abilità cognitive di problem solving e decision making significa favorire l’utilizzo di strumenti che consentono di far fronte efficacemente alle richieste della vita e che permettono uno sviluppo armonico, anche nelle successive fasi dello sviluppo».

[6] Cfr. F.Germinario, Un mondo senza storia, Asterios, Trieste 2017: «[…] le posizioni del didatticismo hanno insistito sulla convinzione che una didattica per competenze rafforzasse il pensiero critico; in realtà, era poco più che una excusatio non poetita, che intendeva occultare la creazione di una situazione esattamente inversa. Il pilastro fondamentale su cui si reggeva la didattica per competenze era che l’allievo dovesse procedere per risoluzione di problemi. E proprio questa posizione era esattamente il contrario del pensiero critico, laddove il pilastro di quest’ultimo era che era compito dell’allievo suscitare problemi, associato alla convinzione che le soluzioni ai problemi possono essere anche diverse».

[7] Rapporto finale, Cfr pag. 47 anche, p. 5   «La formazione iniziale dei docenti pertanto necessita di un modello formativo strutturato, articolato e integrato al tempo stesso, volto a sviluppare una consapevolezza teorica, torica e culturale delle finalità e delle funzioni della scuola, e del significato del suo compito formativo e educativo. Tale modello dovrebbe costituire il quadro di riferimento per imparare a insegnare».

[8] S.Meghnagi, F.Mora, Competenze nel mondo del lavoro, in AA:VV, a c. di L.Benadusi e S.Molina, Le competenze, Il Mulino, Bologna  2018, p.78.

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