di Vittorio Coletti, la Repubblica di Genova, 10.11.2019
– LIGURIA e classifiche delle migliori scuole superiori liguri, illustrate giovedì su questo giornale da Michela Bompani, inducono a qualche considerazione almeno per i licei. Il parametro di preparazione all’università usato per valutarli è certamente valido. Si è ottenuto, spiega la Fondazione Agnelli Eduscopio, misurando i risultati del primo anno universitario dei maturati dell’anno precedente. Forse i risultati sarebbero stati più attendibili se avessero fotografato la carriera universitaria degli ex liceali fino alla laurea triennale, perché il tasso di dispersione e rallentamento dopo il primo anno aumenta costantemente. Ma molto più interessanti sarebbero stati se avessero consentito un confronto tra il livello di preparazione dei maturati di oggi e quello dei maturi di qualche anno o decennio fa nelle stesse scuole.
Non si può infatti dimenticare che la quantità di conoscenze che oggi l’università esige dagli studenti è mediamente minore di quella pretesa qualche decennio fa. Il successo di oggi andrebbe quindi tarato sulle più indulgenti richieste delle istituzioni universitarie odierne. Basterebbe pensare al quantitativo di libri e pagine che pesava sugli esami delle materie fondamentali dell’università novecentesca con i libri ridotti in pillole consigliati dalle bibliografie del xxi secolo. Sarebbe utile poter confrontare le conoscenze e le competenze di un ingegnere, un medico, un giurista, un letterato ecc. di una o due generazioni fa con quelle dei corrispondenti laureati di oggi. Sembra che quelli odierni abbiano buone competenze specifiche, soprattutto tecnologiche, ma meno cultura dei loro predecessori, perché arrivano all’università dai licei meno colti e l’università cura la specializzazione più che la cultura.
Ora, va detto che il pregio storico della scuola italiana, ragione unanimemente riconosciuta del successo all’estero dei suoi allievi, era proprio la dotazione di cultura generale degli studenti, quella in italiano, storia, geografia, filosofia e (ma meno, purtroppo) matematica e scienze.
Questa cultura è venuta a mancare o si è molto ridotta. Perché si è verificata questa riduzione, che, secondo alcuni, ha le dimensioni di un vero e proprio crollo?
Perché a un certo punto si è cambiata la missione della scuola superiore, togliendole il compito di trasmissione del sapere e affidandole quello, un tempo proprio di quella inferiore, di educazione al comportamento sociale. Lo ha spiegato bene, qualche mese fa, un professore del D’Oria, Santino Mele, in un libro di disincantata analisi, “La scuola svaporata”, di cui abbiamo già dato conto qui e ne discute ora in prospettiva storica Galli della Loggia nel suo “Aula vuota”, che verrà a discutere a Genova prossimamente.
Questa mutazione è stata voluta sciaguratamente dalla sinistra, che ha messo in pratica l’insegnamento di don Milani giusto quando questo aveva perso senso e, per non correre il rischio di selezionare secondo un sapere sospettabile di classismo, ha rinunciato a selezionare secondo il sapere, pretendendone meno. Un po’ alla sovietica: per non correre il rischio che alcuni mangino molto e bene e gli altri facciano la fame, non si è fatto mangiare tutti tanto e bene, ma tutti poco e male. Le differenze sociali sono rimaste, ma, diversamente da prima, non essendoci più una vera selezione secondo il merito (ciò che hai imparato), sono diventate insanabili, anzi aggravate da una preoccupante ripresa, dopo le medie, della dispersione scolastica tra i figli dei meno abbienti. La scuola superiore ha perso il ruolo di ascensore sociale che ha avuto nel dopoguerra. Perché non fosse di classe, è stata declassata. Se la destra le ha tagliato gli investimenti, la sinistra, sedotta dal pedagogismo liberista americano, le ha tagliato la cultura, fino alla Buona scuola di Renzi, che ha decretato l’insufficienza di principio del sapere scolastico, giustificabile solo se lo si condisce con qualcosa di pratico, alternando scuola a lavoro: il sapere ammesso solo se strumentale.