La scuola in svendita

Insegnare_logo1di Mario Ambelinsegnare  6.5.2018

– Su “L’Espresso” del 6 maggio 2018, Raffaele Simone, linguista, tra gli estensori con Tullio De Mauro delle “Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica” (1975), in un articolo dal significativo titolo “Dis-education” affronta due tematiche  complementari, una sostanziale, l’altra conseguente, che il settimanale così sintetizza: “L’abuso dell’inglese. Il modello aziendale. Così il ministero distrugge la scuola.”  Si tratta di una affermazione assai grave, tanto più grave perché fatta da uno studioso di lingua e di comunicazione, da sempre attento alle vicende della scuola. Raffaele Simone, tra l’altro, è stato per anni direttore di “Italiano & Oltre” (1986 – 2003), uno dei rarissimi casi di collaborazione proficua e autorevole fra ricerca accademica e  ricerca didattica svolta da insegnanti, nella prospettiva del miglioramento delle teorie e delle pratiche  per l’insegnamento, in questo caso della lingua.

L’occasione di queste considerazioni è fornita a Raffaele Simone dalla pubblicazione, da parte del MIUR, del Sillabo” per la “Promozione di un percorso di Educazione all’imprenditorialità nelle scuole di II grado Statali e Paritarie in Italia e all’estero“.  Tra le diciture  della pagina del MIUR campeggia anche un impagabile “Curriculum imprenditoriale”.

Raffaele Simone contesta al “Sillabo” l’uso eccessivo, spesso gratuito e fumoso, di una terminologia anglosassone, che ha già suscitato le riserve dell’Accademia della Crusca.
Ma ovviamente non sfugge a Raffaele Simone che la questione è assai più grave della sudditanza linguistico-culturale alla terminilogia commerciale, organizzativa e aziendale.

Purtroppo sono in gioco l’idea e la finalità stessa della scuola:

… il punto dolente del Sillabo non è tanto la cascata di espressioni inglesi, e neanche l’inondazione di platitudes che contiene. È piuttosto il modello di cultura che ne trapela. 

La descrizione che Raffaele Simone fa di questo “modello” non è nuova, ma dettagliata e stringente: riguarda la sottomissione, anche della scuola,  a una sottocultura economicistica che ha pervaso, nel mondo occidentale, ogni  azione sociale, ammantandola di terminologie tanto più vacue (e aggiungerei indisponenti), quanto meno efficaci sono le azioni cui si riferiscono.

Il mondo avanzato è avviluppato da tempo da una spessa coltre di cascami di cultura aziendal-economica (e del connesso linguaggio), originata nei dipartimenti di managment statunitensi e poi spruzzata in forma degradata su tutti gli ambienti operativi.

Da questo stato di cose discendono i corollari spesso denunciati: il destinatario dei servizi diventa cliente, l’ente un’azienda e la “customer satisfaction” diventa l’orizzonte vincolato di riferimento, su cui i “portatori di interesse” (stakeholder nella neolingua derivata) agiscono e determinano politiche e strategie ancor più degli stessi utenti-clienti, spesso inebetiti da qualche banalità ammantata di tecnicismo. E giustamente Simone sottolinea come in tutto questo l’uso manipolatorio del linguaggio giochi un ruolo decisivo.

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A confermarlo, è sufficiente leggere gli scopi che il ministero stesso si propone e dichiara:

Grazie ad un Sillabo dedicato, le scuole saranno accompagnate nella costruzione di percorsi strutturati per dare a studentesse e studenti la capacità di trasformare le idee in azioni attraverso la creatività, l’innovazione, la valutazione e l’assunzione del rischio, la capacità di pianificare e gestire progetti imprenditoriali.
Scopo dell’introduzione dell’Educazione all’imprenditorialità è quello di sviluppare nelle studentesse e negli studenti attitudini, conoscenze, abilità e competenze, utili non solo per un loro eventuale impegno in ambito imprenditoriale, ma in ogni contesto lavorativo e in ogni esperienza di cittadinanza attiva. Si tratta pertanto di competenze trasversali e di competenze per la vita.

In altri termini, non è solo nella prospettiva del lavoro che si sollecita il “Curriculum imprenditoriale”, ma come filosofia di vita e di “cittadinanza attiva”! Ovviamente in virtù di “competenze trasversali”, parole ormai tra le più abusate, nel senso sia di usate troppo e a sproposito, che di violentate.
Si tratta del resto della ripresa e conferma  di quella “terza i” (l'”imprenditorialità” appunto) che, a suo tempo, insieme a “inglese” e “internet”, suscitò un certo scalpore quando  l’allora Presidente del Consiglio la pose a suggello del mandato programmatico della sua Ministra dell’istruzione (Gelmini, maggio 2008).  E anche sulla scelta dell’inglese come lingua egemone, in un mondo che avrebbe assai bisogno di andare verso più sagge e più eque prospettive plurilingue e interculturali ci sarebbe assai da discutere!

Lo stesso ministero informa che “Per individuare il filo conduttore del sillabo, è necessario partire dalla definizione che in Europa viene data all’educazione all’imprenditorialità”: nel documento comunitario cui il “Sillabo” rimanda – “ICEE Innovation Cluster on National Strategies “- si legge una interessante affermazione, che conferma come anche l’introduzione dell’ASL vada ricondotta a questo quadro complessivo di riferimento:

In Italy, policy initiatives in the area of entrepreneurship education are taking form with the Law no. 107 from 2015. This law changes the former optional ”school-work exchange” from 2003 into a mandatory programme at the upper secondary level and in vocational school, prescribing 200 hours of school-work exchange in general upper secondary education and 400 hours in vocational education during the last three years of school.  

Si tratta quindi della deriva ventennale,  che abbiamo più volte denunciato, al termine della quale la legge 107 ha definitivamente sancito, per la scuola, l’abbandono delle speranze di una autonomia reale della cooperazione finalizzata all’equiparazione sociale, a vantaggio di una autonomia apparente finalizzata al mantenimento dei precari disequilibri esistenti.
Questa denuncia, per quanto più volte e da più parti ripetuta, non solo non è ascoltata, ma viene ormai accolta con fastidio, quasi si trattasse di una reazione anacronistica ad una presunta modernità.

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Ciò che più amareggia in questa vicenda è che non si intravvede all’orizzonte nessuna possibilità di inversione di tendenza. Dopo le elezioni dei primi di marzo, da cui dichiarammo a urne chiuse che non ci aspettavamo nulla di buono, abbiamo assistito in queste settimane agli altalenanti tentativi di dare un nuovo Governo al Paese.
La forza politica che ha avuto il maggior numero di voti, coerente con la convinzione profonda dei suoi soci fondatori, dell’ormai superata differenza fra destra e sinistra, ha proposto un’alleanza di governo a dritta e a manca, fino al risultato (che appare il più probabile mentre scrivo) di portare al Governo, forse addirittura al Ministero degli Interni, un politico che ama farsi riprendere accanto a una ruspa, per ricordare quale sia la sua idea di come affrontare l’esistenza dei campi rom e di altre situazioni di degrado ambientale.
Ma comunque vadano le cose, non c’è ragione di credere che sia alle viste una inversione di rotta rispetto a quella svendita al ribasso dell’idea di scuola pubblica, che anche Raffaele Simone ha denunciato in questo intervento.

Io credo che ci sia un’unica speranza, un’unica via di uscita. Che gli insegnanti che ancora credono che scopo della scuola non è soddisfare clienti o portatori di interessi economici o commerciali, ma assolvere al mandato dell’art. 3 della Costituzione, garantendo agli allievi competenze culturali di cittadinanza (non fantomatiche life skills neocomportamentiste)  si ribellino a questo stato di cose e rivendichino la necessità di far tornare la scuola pubblica nell’alveo delle sue reali finalità istituzionali.
Nel farlo dovranno e dovremo anche seriamente interrogarci su quali siano le reali vie di uscita, le soluzioni davvero più efficaci, le strade da intraprendere. Perché questi 20 anni hanno prodotto un’altra conseguenza nefasta. Anche questa assai sostanziale con il suo inevitabile corredo di copertura linguistica.

L’azione di erosione e di tradimento  (ovvero di desemantizzazione e ricategorizzazione antinomica) dei principali presupposti ideali, valoriali e pragmatici su cui si era fondata l’idea di scuola degli anni ’70-’90 è stata così sistematica e devastante da produrre un forte stato confusionale e una quasi totale perdita di fiducia e di senso. Si sono così bruciate parole e realtà importanti, invertendone o deviandone il senso (progettazione curricolare, discipline, individualizzazione, autonomia, operatività, laboratorio, valutazione formativa, da ultimo il trittico conoscenze –  abilità – competenze, trasversalità, ora la stessa cittadinanza!).
Il rischio è quello di un ritorno a soluzioni di cui abbiamo già constatato l’improduttività, oltre alla sostanziale iniquità sociale: ovvero a forme di difesa di una scuola della trasmissione acritica del patrimonio di sapere delle generazioni precedenti come salvacondotto per il futuro. Soluzione che oltre ad essersi già rivelata iniqua sarebbe anche gravemente anacronistica. Detto in altri termini la legittima e doverosa necessità di uscire dalle costrizioni del neoliberismo (conservatore o progressista o movimentista che sia) non deve rifluire nella riproposizione di soluzioni che si sono già rivelate inconsistenti.

Sempre che non si creda, invece, che è quello il senso da dare alla scuola: educare all’imprenditorialità di se stessi nel mondo della competitività globale. Perché se è così, allora, abbiamo leggi, raccomandazioni e documenti europei, esempi, pochi strumenti, ma tanta fantasia. E ci si può mettere al lavoro. Ne deriverebbe la fine della scuola pubblica così come abbiamo provato a realizzarla nell’ultimo secolo. Ma forse è proprio ciò che alcuni vogliono. O che perseguono senza rendersene conto.


L’immagine accanto al titolo è tratta dal sito Paul Mitchell, imprenditore di eccellenza nel campo dei prodotti per capelli e della tequila.

Questo è invece un eloquente stralcio tratto dal “Sillabo”:

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La scuola in svendita ultima modifica: 2018-05-20T17:48:59+02:00 da
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