di Stefano Battilana, dal Centro Studi della Gilda, 18.11.2019
– “Dio non esiste, ma non ditelo al mio domestico, altrimenti mi accoltella di notte!”: Voltaire lo ripeteva spesso, in qualche modo celebrando la capacità di controllo sociale della Chiesa. A lui si aggiunse, il secolo dopo, Hegel con la dialettica padrone-servo, che era una perfetta dicotomia: uno non poteva esistere senza il credito dell’altro. Del resto, secoli prima, Menenio Agrippa, con l’apologo delle membra convinse i plebei a tornare a lavorare per i patrizi. In pratica, cosa volevano dirci questi tre illustri colleghi di pensiero? Che un sistema di valori condivisi, che sia la religione, la fedeltà gerarchica o l’organicismo, serve a garantire l’ordine sociale, anche se non è certo che rappresenti una verità. Tutti e tre, comunque, paventavano la lotta di classe e intendevano contrastarla in virtù della convinzione più che della forza.
Ecco, vogliamo ora tradurre in termini moderni e più concreti le tre circostanze filosofiche qui sopra illustrate?! Se i plebei e i servitori avessero avuto un sindacato, sarebbero stati molto più garantiti e considerati, avrebbero avuto diritti e non concessioni, avrebbero avuto un contratto e non una soggezione gerarchica, avrebbero avuto uno status giuridico e non un vassallaggio di tipo paternalistico. Ma che tipo di sindacato avrebbe dovuto essere per garantire loro le tre condizioni di cui sopra? Non certo di tipo generalista o atomistico. Avrebbe dovuto essere un sindacato corporativo, che limitasse la difesa dei lavoratori al loro campo professionale. Un sindacato apolitico, che non tenesse conto del contesto più ampio della società, anche se va considerato che l’aggettivo “corporativo” ci fa pensare alle corporazioni del Ventennio, ibridi coacervi di operai e padroni.
Tutto il contrario, a dir il vero, perché l’unico modo di ottenere prerogative, aumenti e difesa del proprio status è quello concentrare la propria azione presso il settore di esclusivo interesse, caratterizzandosi principalmente come erogatore di servizi specifici. Una eventuale federazione di tali sindacati, resa necessaria dall’attuale politica di relazioni sindacali, potrebbe persino avere delle singole organizzazioni le cui posizioni siano fra loro contraddittorie, in quanto ciascuna rappresenta solo gli interessi dei lavoratori del proprio ambito di attività, il cosiddetto sindacalismo del mestiere.
Dovrebbe, infine, essere un Ordine (altra parola negativamente contestualizzabile) o per meglio dire un Albo, che regola gli ingressi (reclutamento) e le uscite (pensioni o decadenza), con severità professionale e autogoverno, con un Codice Etico che delimiti e indirizzi la deontologia della categoria. Ecco, categoria è la parola che ci serve e rende più moderno e accettabile il concetto di corporazione: un’unione organizzata che rappresenta e tutela tutti gli operatori di un certo settore, assiste l’associato nei rapporti con la controparte, con le istituzioni e con le altre parti sociali.
Ecco perché, tutti coloro che intendono il proprio mestiere come una scelta professionale, dovrebbero avere la tessera di appartenenza alla categoria, scegliendo fra le varie opportunità identitarie, ma senza mai prescindere dalla consapevolezza che la forza della categoria dipende dalla capillare adesione dei singoli.
(segue)
Battilana Stefano
Stefano Battilana– Titolare di Filosofia presso il Liceo Artistico di Bologna, attualmente Coordinatore provinciale Gilda Insegnanti di Bologna, membro della Direzione Nazionale Gilda, con l’incarico di Responsabile RSU e rapporti con le SOA, è autore di altri articoli e contributi, qui in larga parte raccolti; prevalentemente di “filosofia sindacale”, genere divulgativo autoproclamato, spesso sotto lo pseudonimo di Montesquieu.
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La tessera di categoria: il sindacalismo corporativo e la lotta di classe ultima modifica: 2019-11-19T11:44:23+01:00 da