Le lunghe vacanze di un insegnante sempre in prova

di Valerio Marchi,  il Messaggero veneto, ed. di Udine, 24.7.2017

– Mario Fillioley è dovuto emigrare a Terni Le riflessioni sulla scuola che cambia.

«Lotta di classe». Marx, però, non c’entra. L’espressione è semiseria, proprio come il libro, che reca il sottotitolo: «Diario di un anno da insegnante in prova». Un diario con tonalità leggere ma non superficiali, spesso esilaranti, talora ironiche o malinconiche, sempre ricche di umanità.

È altresì una commedia, con personaggi ben delineati. Ma è anche un romanzo (un diario romanzato, insomma) con molti tratti di realtà e alcune invenzioni verosimili, funzionali alla narrazione. Ed è ancora – come ha dichiarato l’autore – una specie di «foto di gruppo con l’insegnante al centro»: il che significa che l’insegnante risulta «il personaggio più ingombrante e più goffo di tutto il libro», ovvero «un impacciato detective in quella landa misteriosa e avvincente che è l’adolescenza».

Passati i quarant’anni, per lavorare e superare l’anno di prova Mario Fillioley è dovuto emigrare a Terni, a novecento chilometri dalla sua Siracusa. È stato così catapultato (dopo un avviso ricevuto dal Ministero alle due di notte!) in un istituto e in un contesto sociale assai diversi: da una scuola professionale serale di una periferia siciliana è passato a una piccola scuola media in Umbria, dove il clima ha ben poco a che fare con quello siracusano: certo, in classe è sempre una «lotta», ma a Siracusa era decisamente più dura…

Comunque sia, occorre essere flessibili (così si usa dire), soprattutto nella «Buona scuola»: una scuola che per un Buon insegnante – quello che tenta più o meno disperatamente di capire quale sia davvero il suo mestiere e di praticarlo con competenza e passione – dev’essere sul serio Buona, vale a dire «il luogo dove si cresce e si diventa grandi assieme», tutti: alunni, docenti e, magari, anche i genitori, affinché dalla «lotta» nessuno esca sconfitto. A prescindere da teorie, burocrazie, tecnologie, propagande e, soprattutto, dal «gergo iniziatico» del didattichese.

I ragazzi, poi, sono ragazzi ovunque, anche in epoche differenti. Perciò l’autore intreccia con un filo doppio di narrazione il racconto della sua esperienza recente con quello dei ricordi di quand’era studente. D’altronde, il modo di essere professori dipende anche da come si è stati alunni.

Fillioley offre numerose provocazioni che aiutano a riflettere e che possono anche far discutere (ben venga). Nel mezzo, pare sempre di sentire risuonare la domanda: come fare per cavarsela e, possibilmente, per lasciare un segno nelle menti e nei cuori dei ragazzi? È un’utopia? Una presunzione? E poi, che ci fa un ultraquarantenne in mezzo a tutti questi adolescenti?

Così, ci viene detto via via che, ad esempio: l’attenzione in classe esiste solo nei desideri degli insegnanti (tuttavia, si può tentare di farsi travolgere dalle «tempeste perfette di ormoni ed energia cinetica» dei ragazzi, provando a capire dove ci possano portare); ripristinare una qualche forma di autoritarismo vecchio stile è un’utopia reazionaria (forse, invece, con intelligenza e partecipazione…); se entri in classe solo come un adulto non ne esci vivo (e non ci si illuda di rimediare con chis-sà quali strategie); per insegnare qualcosa è meglio non sapere niente (così ci si mette là, e si scopre tutto per la prima volta)…

Ci si rassegna presto, infine, al fatto che la scuola sia un’enorme dissipazione di energie, mentre gli studenti continuano a chiederti a che cosa serve studiare: in realtà possono – e possiamo – scopri-re che sì, «studiare è inutile», ma proprio per questo è tanto necessario. Perché è a scuola che ci si può permettere di pensare a cose alle quali altrove non penseremmo mai.

E la scuola – ci narra l’autore – è anche quel luogo in cui, dopo un tema in classe mal riuscito, un’alunna dice al professore: «Ma pure lei, che tracce ha dato, scusi…»; e quando il prof risponde: «Ci ho pensato per giorni alle tracce, ci tenevo, volevo che scriveste con piacere…», lei replica: «Ecco, la prossima volta ci pensi un po’ di meno». E allora – dico io – sorridiamo e capiamo che vale la pena di continuare a insegnare. O meglio, a imparare.

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Le lunghe vacanze di un insegnante sempre in prova ultima modifica: 2017-07-25T04:57:43+02:00 da
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