di a, Linkiesta, 22.9.2018
– In America ci sono ancora famiglie che educano i figli a casa, come quella dell’autrice, cresciuta insieme ai sette fratelli da genitori mormoni nel più completo isolamento. La sua storia è diventata un bestseller che fa riflettere sull’utilità dell’educazione pubblica.
Settembre. La scuola è iniziata in questi giorni, con la sua zavorra d’affanno, lacrime, occhiaie, sgridate, baci, ritardi, grembiuli e lavagne d’ardesia. Le mani ancora sporche di gesso e i quaderni nuovi, sui vecchi banchi con le scritte. Libri da studiare, sbuffi di studenti annoiati con gli occhi al cielo. E lo sguardo lanciato fuori dalle finestre. Il pensiero alle vacanze, perdute. Ma si va ancora a scuola? Forse non è così obbligatoria, fondamentale come la pensiamo.
La scuola o la vita? Leggo avidamente L’educazione, quella di Tara Westover (classe 1986), uscita in Italia a maggio scorso con Feltrinelli (traduzione di Silvia Rota Sperti), è la sua prima opera, il titolo originale: Educated. Ecco, il libro si sta diffondendo a macchia d’olio in America e in Inghilterra – dove è il primo best seller come suggerisce la fascetta nostrana – sbandiera l’importanza dell’educazione. Nella educatissima e civilissima America, che sforna metodi pedagogici assai studiati da noi,ci sono ancora famiglie che non mandano figli a scuola. I mormoni. O meglio, la famiglia dell’autrice.
Insomma Tara e i suoi sono nati tra le montagne dell’Idaho, a Buck Peak, in una famiglia mormona, senza libri di scuola, liberi di essere educati in una famiglia “che fa scuola”. Ma con un forte credo. Solo stufati d’erbe, zaino d’emergenza, fucili e baionette, in attesa della fine del mondo. E dei Giorni dell’Abominio. E le pesche sciroppate, da inscatolare e conservare per quei giorni. Un serbatoio sotterraneo d’emergenza pieno di gasolio. Le erbe medicinali. Poi Tara scopre l’educazione, che non è siberiana, ma americana, diventa una persona diversa.
Ma ne siamo proprio sicuri? La ragazza americana inizia a scivolare nella consapevolezza di vivere in qualcosa che assomiglia ad una prigione con sbarre vischiose e costruite con precetti religiosi deviati (in epigrafe, comunque, chiarisce: “questo non è un libro sui mormoni né su nessun altro credo religioso”) e una grande dose di violenza, di ordini imperiosi dettati e scolpiti come legge da un padre padrone. Che non giudica nemica soltanto la scuola con i suoi lavaggi del cervello, ma anche la medicina. Gli ospedali, i medici. Lo Stato. È un traditore chi, pur fidandosi ciecamente nei rimedi erboristici, osa poi andare dal medico. La madre di Tara, succube del marito e sottomessa alla sua autorità come previsto dalla religione, si improvvisa levatrice, diventa ostetrica, senza nessuna licenza. E tra le angosce delle possibili conseguenze penali in caso di complicanze del parto, riesce persino a diventare una brava ostetrica. “La mamma non voleva fare la levatrice. Era stata un’idea del papà, una delle sue strategie per l’autosufficienza.
Per lui non c’era niente di peggio che dipendere dallo Stato”. E per gli Stati Uniti d’America, Tara come alcuni fra i suoi sette fratelli – Audrey, Luke e Richard – semplicemente non esiste. Non sono stati registrati all’anagrafe, non sono mai stati visitati da un dottore. Incredibile. L’autrice protagonista non conosce esattamente la propria data di nascita perché quella affonda nelle nebbie della memoria famigliare. Surreale. La madre di Tara, infatti, richiede, molti anni dopo, il certificato di nascita che arriva tra mille difficoltà. Si decidono per il 27 di settembre. “Mi sembrò strano, quasi un esproprio ricevere quella prima prova legale della mia esistenza: non avevo mai pensato che ci fosse bisogno di una prova del genere”. Molto spesso le vicende autobiografiche narrate non sembrano possibili, plausibili. Il paradosso continua con il gioco del padre carismatico di Tara che diventa sempre più pericoloso e scivolano, anzi cadono, uno dopo l’altro, i fratelli in incidenti quasi mortali, con la fiamma ossidrica, cadute dai bancali e altri fatti terribili in cui, dalle ferite, si vede la carne viva, lieve è il passaggio fra la vita e la morte e il limbo carico di conseguenze.
Le cicatrici, spietate, sulle gambe e sul volto ben visibili. Ma non si deve mai chiamare l’ambulanza. Nel frattempo, all’orizzonte, non appare nessuna fine dei giorni, nessun diluvio universale. Mentre, uno dopo l’altro, i figli riescono, più o meno, a fuggire dalle spire paterne, arriva la televisione e anche il telefono e il telefonino. Tara, l’infedele, si convince di andare al college, contro la volontà paterna. Riesce a superare il test d’ingresso a Brigham. Sembra iniziare un’altra vita. Eppure le mancano i soldi, si ostina a non chiedere sovvenzioni statali per i poveri, è costretta a tornare a lavorare nella discarica del padre, a piegare, tagliare girare lamiere, come pagine, guidare ruspe e gru, rischiare di morire, ogni volta, tra carcasse d’auto e rottami di ferro.
Nelle lezioni che frequenta, Tara si accorge di essere una tabula rasa. Non conosce la parola Olocausto, conosce poche briciole di storia, confonde Martin Lutero con Martin Luther King. “Cercai tra i miei ricordi. Per qualche motivo la parola “Olocausto” non mi era del tutto nuova. Forse la mamma ne aveva parlato mentre coglievamo i cinorrodi o preparavamo la tintura di biancospino. In effetti mi sembrava di ricordare vagamente che gli ebrei erano stati uccisi da qualche parte, molto tempo prima. Ma credevo che fosse un conflitto da poco, come il massacro di Boston, di cui parlava sempre il papà, durante il quale una mezza dozzina di persone erano state martirizzate da un governo tirannico. Aver frainteso a tal punto – cinque vittime contro sei milioni – mi sembrava impossibile”.
E poi scopre anche la storia di Randy Weaver, molto diversa da come gliela aveva raccontata suo padre. Lo Stato non dava la caccia e uccideva quelli che non mandavano i propri figli a scuola. “Secondo tutte le fonti, tra cui lo stesso Randy Weaver, i problemi erano cominciati quando Randy aveva venduto due fucili a canne mozze a un agente segreto conosciuto a un raduno dell’Aryan Nations. Lessi questa frase più di una volta, in realtà molte volte. Poi capii: al cuore della vicenda c’era il suprematismo bianco, non l’istruzione dei bambini”.
Ai corsi che segue, Tara non solo schiude la conoscenza del mondo, ma apre il vaso di Pandora, capisce che suo padre è affetto da un disturbo bipolare. La lucidità con cui descrive la sua vita è chirurgica. Il passato non può che continuare a riaffiorare, ovunque. “Spesso i crateri sul petto di mio padre si materializzavano sulle lavagne e vedevo la cavità incurvata della sua bocca sulle pagine dei libri di testo. In un certo senso quel mondo ricordato era più vivido del mondo reale in cui vivevo, e oscillavo tra i due”.
Eppure il lieto fine, il salvataggio dell’educazione dentro il libro di formazione (la protagonista, sin da piccola, è troppo saggia per crescere) mi lascia una perplessità. Non è un vero happy ending. Tara Westover apre e chiude le sue ferite senza nessun anestetico. Gli antibiotici non vanno usati. Solo unguenti, omeopatia e rimedi miracolosi. Il rispetto del dolore, anche quando fa male, fino alla pazzia. La verità è una violenza impastata di terrore. Che non si rimargina. Nessuno le potrà donare un’altra infanzia. Forse per scrivere così bene,vincere una borsa di studio a Cambridge eccetera, la mancanza della scuola le è stata fondamentale. Ma, forse, è qualcos’altro. Esplorare l’abisso dell’ignoranza e del male. E tutto quel ben di dio di sofferenza, autentica. Quella sì che insegna per davvero, come dicevano gli antichi greci. Mi domando se in Italia sia possibile non andare a scuola, e poi mi dico: c’è “l’educazione parentale”. E i medici? Si può non andare mai da un medico? Può darsi anche questo.
Forse l’America, le suggestive montagne dell’Idaho non sono poi così lontane.
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