Da venerdì 6 novembre le scuole richiudono. Lezioni a distanza per le superiori e, nelle zone rosse, anche per le medie tranne che al primo anno. Al solito, i presidenti di regione continuano a procedere in ordine sparso, dando una volta di più l’idea che Conte abbia preso l’unica decisione sensata per quanto di complessa gestione, nell’introdurre un sistema diversificato e semi-automatico di restrizioni per mezzo di decreti del ministero della Salute: in Campania gli istituti restano chiusi nonostante l’inserimento del territorio in zona gialla, così come in Puglia dove pure, nonostante la fascia arancione, potrebbero proseguire in presenza.
Il semaforo – senza il verde – voluto da Giuseppe Conte ha almeno un merito: aver rimesso con grande fatica al centro del dibattito l’importanza della scuola. Anche se fra quarantene, decisioni locali e promozioni o retrocessioni di regioni e province l’educazione in presenza, già ridotta al minimo, è ancora in bilico. Bisognerà quindi capire quanto durerà davvero prima che, presi dalla rassegnazione della disorganizzazione, si decida di serrare tutto e buttare la chiave almeno a dopo Natale. Altrove, dalla Germania alla Francia, la scuola è sempre rimasta fra le priorità pur con i necessari accorgimenti: qui c’è voluta l’ostinazione del presidente del Consiglio e della ministra Lucia Azzolina, con tutti i loro ritardi ed errori, a ribaltare le gerarchie dei cosiddetti “governatori”.
Il punto è che non possiamo permetterci di perdere un altro anno scolastico. No, neanche all’interno del contenimento di una pandemia epocale: insieme agli anni “malati”, ipotecheremmo così anche quelli del (presunto) “recupero” socioeconomico. La didattica a distanza può senz’altro aprire nuovi scenari integrativi ma sconta due problemi di fondo: è appesa alle disponibilità e all’iniziativa dei docenti – che molti presidi stanno inutilmente tentando di controllare obbligandoli a fare lezione dalle aule vuote, una scena grottesca e umiliante – e smarrisce la dimensione protettiva della comunità scolastica, tutto quello che sta intorno alla nozione, al capitolo o all’esercizio. In più non raggiunge tutti, sconta cioè un forte ostacolo nel digital divide (familiare e infrastrutturale).
In definitiva, oltre a incidere sulla qualità complessiva, potrebbe approfondire una delle piaghe italiane: l’abbandono scolastico. Prevenzione, intervento e compensazione diventano infatti quasi impossibili in queste condizioni e dunque mentre si fatica a recuperare chi era già uscito dal sistema educativo si rischierebbe, senza la presenza, di perdersi molti altri studenti. In Italia la quota degli “elet”, gli “early leavers from education”, si attestava nel 2018 ancora al 14,5% della popolazione scolastica (dati Eurostat dello scorso anno).
Senza dimenticare che c’è anche un altro tipo di dispersione scolastica, forse ancora più insidiosa. Quella cioè implicita che i tanto contestati test Invalsi (ma anche i sistemi internazionali di valutazione come i Pisa dell’Ocse) rendono lampante: una quota non trascurabile di studenti col diploma, infatti, non raggiunge neanche lontanamente i livelli di competenza di cui dovrebbe disporre dopo 13 anni di scuola. Non difendere la scuola in presenza significa anzitutto approfondire questi drammi nazionali: abbandonare definitivamente per strada una generazione, quella che si troverà di fronte le macerie del prossimo decennio, infittirne anzi le fila e livellare ancora di più verso il basso la soglia di preparazione di chi riuscirà a terminare, fra chat e piattaforme assortite, genitori supplenti e messinscene al display, un anno già zoppo. Non ancora mutilato come il 2019/2020 ma quasi. Stiamo insomma accumulando un ritardo educativo che non è fatto solo di contenuti ma anche di sistemi, di regole e di metodo che potremmo non recuperare mai.
Conforta ora che anche il Comitato tecnico-scientifico stia muovendo qualche passo dalla granitica opposizione alla scuola in presenza – ritenuta un ambito di rapida circolazione delle infezioni da una letteratura scientifica sempre più fitta, questo è innegabile – verso una maggiore comprensione del fenomeno e di questa pachidermica ipoteca sul futuro prossimo. Due suoi membri, il pediatra Alberto Villani e lo pneumologo Luca Richeldi, hanno finalmente messo in guardia dai rischi psicologici derivanti dalla “didattica integrata digitale”, come l’ha ribattezzata la burocrazia ministeriale. Secondo Repubblica, hanno fatto mettere a verbale come gli adolescenti abbiano ”già subito un importante impatto nel periodo finale dello scorso anno scolastico”. Per questo “bisogna garantire la frequenza in presenza, soprattutto nelle fasce di popolazione più fragili, è fondamentale non solo per la formazione scolastica, ma anche per il benessere psicofisico di questa fascia di popolazione giovanile”.
Anche Conte in conferenza stampa è stato piuttosto chiaro: “Appena la curva rientrerà sotto controllo, la scuola tornerà in presenza, sarà una delle prime misure del governo”. E oggi Azzolina sul Corriere spera che già all’inizio di dicembre i problemi emersi nei primi due mesi possano essere almeno in parte risolti: “I turni già si facevano, si potrà farne di più. Bisogna lavorare sulle criticità che sono emerse, il protocollo di sicurezza con le Asl deve essere applicato in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale. Chiedo da tempo i test rapidi nelle scuole”. Vedremo quanto durerà prima che gli studenti vengano abbandonati di nuovo sotto la spinta delle inefficienze regionali: forse più che alla fine dello scorso anno siamo sul filo del rasoio. Non solo per loro ma stavolta, davvero, per il paese.
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