di Pietro Ratto(*), La Bottega del Barbieri 8.5.2015.
Febbraio è il mese dei concordati, si sa.
E’ il 1984, sono trascorsi cinquantacinque anni dagli accordi con cui l’Italia fascista si è prostrata ai capricci vaticani, comprando a carissimo prezzo l’annullamento del Non expedit con cui Pio IX, nel lontano 1874, aveva invitato tutti i cattolici a non riconoscere il neonato Stato italiano.
La maledizione del 55. Cinquantacinque anni tra il Non expedit e i Patti Lateranensi, altri cinquantacinque tra questi ultimi e il nuovo patto che Craxi si appresta a firmare con la Santa Sede. Cinquantacinque ed una settimana, per l’esattezza. Verrebbe da chiedersi se ci si debba attendere un terzo capitolo nel 2039. Naturalmente a febbraio.
Le condizioni stipulate nel ’29 erano, in realtà, da incubo. Il Duce stesso aveva dovuto giustificarsi in Parlamento, risultando per altro ben poco convincente. Un miliardo e settecento milioni di lire di risarcimento alla Chiesa. Mica noccioline, in un periodo in cui un impiegato viveva con uno stipendio mensile di 250 lire. Non si fosse trattato di una tragedia, ci sarebbe stato quasi da ridere. L’Italia risarciva uno Stato conquistato mezzo secolo prima, nonostante i Papi succedutisi dal 1871 al 1929 avessero sempre sdegnosamente rifiutato l’indennità offerta loro dai Savoia con la loro Legge delle Guarentigie. Un’indennità non solo ormai prescritta, ma pari a un decimo di quanto Mussolini ora versava nelle tasche di Pio XI. Una follia vera e propria, che il Duce aveva incoraggiato soltanto per poter incassare, il mese successivo, il consenso di tutti i cattolici italiani in un Plebiscito che avrebbe dimostrato all’opinione pubblica internazionale che l’Italia non era sotto dittatura. Che gli italiani amavano il loro Benito e lo volevano al timone della nave.
Un miliardo e settecento milioni, accidenti. Una somma che lo Stato non aveva. Una cifra (pari circa ad attuali sei miliardi di euro), che il Duce aveva offerto in questa forma: settecento milioni in contanti e il rimanente in Titoli di Stato a scadenza ventennale, con un interesse del 5 %. Cedola annuale ogni 30 di giugno.
Dove li troveremo? Avevano chiesto in Parlamento. Ci penserà la Cassa Depositi e Prestiti, aveva risposto il Duce (non vi ricorda niente?). Tradotto: faremo fronte all’impegno con i risparmi degli italiani. E poi – aveva pensato sicuramente il lungimirante Mussolini – che ne sappiamo di cosa sarà di noi, tra vent’anni?
Ma c’era ben altro, in quel Trattato. La Convenzione finanziaria prevedeva anche la costruzione, a spese dell’Italia, di una stazione ferroviaria da regalare alla nascente Città del Vaticano. Erano previste inoltre una adeguata dotazione di acqua, la realizzazione dell’intera rete telefonica e telegrafica del nuovo Stato e, naturalmente, la riconferma della congrua, lo stipendio ai preti che l’Italia pagava già dal 1866, in risarcimento dei beni ecclesiastici requisiti a chiese e proprietà pontificie diventate man mano italiane insieme ai territori in cui si trovavano; territori via via annessi nel corso delle Guerre di Indipendenza.
Così, quell’11 febbraio, mentre Monsignor Gasparri piangeva di gioia e il Duce firmava un tantino ingrugnito, il Papa si sfregava le mani, preparandosi a istituire appositamente lo IOR per mettere il suo tesoro al sicuro. E cominciando a riflettere al modo in cui farli fruttare, quei soldi.(1)
Ma torniamo a quel 18 febbraio 1984.
Roma, Villa Madama. Il Segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli è ricevuto con tutti gli onori dal Primo Ministro. Parola d’ordine: rinegoziare.
Le cose non possono più continuare così. L’Italia, tramite la sua Costituzione, ha ormai dichiarato la propria a-confessionalità. E il fatto che i Patti Lateranensi siano misteriosamente finiti all’articolo 7 della stessa, che quindi esplicitamente li riconferma, è un particolare da considerarsi trascurabile. Si sa, dopotutto siamo in Italia: inciuci e contraddizioni di questo tipo costituiscono il motore del nostro ambiguo e corrotto sistema.
No, no: bisogna rinegoziare, pensa Craxi. Basta con l’insegnamento obbligatorio della religione a scuola, basta con la dipendenza della nostra nazione nei confronti della Città del Vaticano. Soprattutto, basta con la congrua.
Così, quel 18 febbraio, nasce il nuovo luccicante meccanismo dell’8 per mille elaborato da un giovane e rampante economista chiamato Giulio Tremonti. In pratica, il geniale dispositivo sancisce la fine dello stipendio italiano ai sacerdoti prevedendo che ogni contribuente possa devolvere l’8 per mille del proprio gettito fiscale alla Chiesa Cattolica – e negli anni a venire, grazie a successivi accordi con altre confessioni religiose, anche all’Assemblea di Dio, a Metodisti e Valdesi, alla Chiesa Luterana ed alle Comunità ebraiche (anche se importanti religioni come l’Islamismo restano tuttora assolutamente fuori dalla rosa di quelle “finanziabili”), mentre Buddisti, Induisti e Testimoni di Geova sono riusciti ad entrare nel giro solo nel 2014, dopo una quindicina d’anni di attesa – oppure, in alternativa, allo Stato italiano. In base a questo meccanismo, che come tutti sanno è pienamente in vigore, il contribuente può anche non esprimere alcuna scelta, ma in questo caso il suo 8 per mille verrà comunque ripartito tra le varie confessioni religiose previste, secondo la percentuale di preferenze accordate da chi ha invece effettuato la scelta.
Vediamo di capire un po’ meglio come funziona, alla luce dei dati effettivi. Qual è la percentuale dei contribuenti che ogni anno esprimono una preferenza precisa nei confronti di una certa chiesa? Più o meno il 42%. Ebbene: dato che l’89% di questi dichiara la propria volontà di devolvere il proprio 8 per mille alla Chiesa cattolica, l’89% dell’8 per mille dell’intero gettito fiscale nazionale – e quindi non solo di quel 42% – finisce in Vaticano. Indipendentemente dal fatto che esso derivi dalle tasse di atei o credenti. Di cattolici, musulmani o scintoisti. Geniale, non c’è che dire!
Questo meccanismo perverso, da molti ritenuto una truffa, lascerebbe se non altro fuori da questa ripartizione ben poco imparziale l’8 per mille di chi ha dichiarato espressamente la propria volontà di devolverlo allo Stato. Ma è del 2009 lo scoop di Repubblica secondo cui questa porzione di gettito verrebbe comunque spesa per la manutenzione degli edifici di culto cattolico(2). Inoltre, come non notare che dalla vecchia congrua al nuovo tremontiano meccanismo sia in realtà cambiato ben poco? Non sono comunque soldi pubblici a tutti gli effetti, denari che se non devoluti finirebbero nelle casse dello Stato, quelli che l’8 per mille dispensa a piene mani soprattutto alla Chiesa?
Certo, il Concordato del 1984 prevede anche che l’insegnamento della Religione Cattolica passi da obbligatorio a facoltativo, istituendo l’ora alternativa a quella di religione per tutti gli studenti interessati. Ma, a parte il fatto che tale opzione fatica ancora oggi ad essere attivata nelle scuole italiane proprio per evitare di far perdere posti di lavoro agli insegnanti IRC (acronimo che, si badi bene, sta per Insegnamento della Religione Cattolica, stando quindi a significare che il relativo programma ministeriale – per altro stabilito dalla Chiesa – prevede esclusivamente lo studio della dottrina cattolica e che, di conseguenza, i docenti di religione che decidono di includere nei loro programmi didattici anche riferimenti ad altre confessioni religiose lo facciano di propria iniziativa), va sottolineato che i circa venticinquemila docenti italiani che attualmente insegnano Religione nelle scuole, selezionati e formati dalla Chiesa, vengono comunque assunti e pagati dallo Stato italiano, su precisa indicazione delle Curie.
Tornando all’8 per mille, dal 2010 il relativo gettito che annualmente finisce nelle casse del Vaticano (tra l’altro con tre anni di ritardo: il gettito 2013, ad esempio, verrà distribuito alle varie confessioni nel 2016), ha superato la soglia del miliardo di euro. In pratica la Chiesa Cattolica percepisce ogni anno quasi quanto stabilito dalla Convenzione del 1929 per coprire i precedenti sessant’anni di cosiddetto “debito”.
Sono sufficienti questi soldi a coprire le spese del Vaticano, la retribuzione del clero e, soprattutto, le opere di carità?
Ecco una tabella che dà un’idea di quanto ci costino tutti i sacerdoti e i vescovi italiani, nonché tutti cardinali del mondo (mantenuti esclusivamente dal nostro Stato).
Il reddito annuale degli ecclesiastici (dati del 2008)
Cfr. Claudio Rendina, La santa casta della Chiesa, Roma, Newton Compton, 2009, p. 241.
Quanto ai sacerdoti, lo stipendio dipende da parametri come l’anzianità, il numero di parrocchiani (al parroco viene riconosciuto un contributo di euro 0.07 per parrocchiano, al vice-parroco un contributo di 0,036), ecc. Il dato va calcolato tenendo conto dell’età media dei preti, costantemente in crescita.
Nonostante quindi gli spot pubblicitari di Santa Romana Chiesa alludano a tutte le opere buone che il Vaticano può mettere in atto grazie all’8 per mille, come si può vedere tale gettito risulta in realtà coprire in gran parte le spese di mantenimento del clero. Soltanto un modesto 27% della quota finisce in spese di altra natura (probabilmente riservate ai malati, ai poveri, al Terzo Mondo, ma anche a spese di rappresentanza ecc.)
E a dirla tutta, questo miliardo di euro non è che una piccola percentuale dei soldi pubblici che ogni anno finiscono nelle casse del Vaticano.
La tabella sottostante, per altro non esaustiva, parla chiaro.
Spese (o mancate entrate) per lo Stato italiano. Dati in euro relativi all’anno 2010
Si veda a tal proposito il testo dell’inchiesta di Paolo Mondani, intitolata Il Boccone del prete, “Report”, puntata del 30 maggio 2010.
Relativamente al dato sull’Imu, per quanto non risulti calcolabile con precisione, viene rapportato alla precedente tassa sugli immobili tenendo conto della recente rilevazione Confesercenti che – in riferimento all’Imu 2012 – ha calcolato per le imprese italiane un aumento del 49, 4 % rispetto, appunto, alla vecchia Ici. Tale conteggio, però, non tiene conto di tutti i finanziamenti statali a scuole ed enti religiosi, considerando i quali, secondo l’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) si arriverebbe a superare quota 6 miliardi e 277 milioni di euro. E’ appena il caso di far notare che uno Stato realmente laico devolverebbe questi soldi ai propri cittadini disoccupati o colpiti da calamità naturali, come nel caso del terremoto de L’Aquila, ad esempio. Una catastrofe dimenticata, i cui danni – stimati in circa 2,5 miliardi di euro – potrebbero venir prontamente risarciti con circa un terzo di quanto lo Stato italiano spende per la Chiesa in un solo anno.
Un ultimo accenno alla famosa dotazione di acqua prevista dai Patti Lateranensi. Nel Paese in cui non cambia mai niente, ci aspetteremmo che il Concordato di Craxi avesse modificato le cose? Niente affatto, per carità!
Pochi infatti sanno che, dalla sua nascita ad oggi, la Città del Vaticano non ha mai pagato la bolletta dell’acqua e che l’Acea – la società che dal 1937 gestisce l’acquedotto romano – vanta crediti di milioni e milioni nei confronti dello Stato Pontificio (per tacere delle voci che corrono, mai confermate né smentite, secondo cui anche i consumi elettrici di tutti i sudditi di Sua Santità sarebbero totalmente a carico della nostra laica Nazione). Pur realizzando consumi idrici annuali da favola (qualcosa come 5 milioni di metri cubi – ma il dato è in crescita di anno in anno – che, ripartiti sui circa ottocento abitanti del mini-Stato costituiscono un consumo pro-capite che è quarantuno volte quello italiano), il Vaticano lascia tranquillamente l’Italia nell’imbarazzo di dover coprire periodicamente il proprio consumo d’acqua. Nel ’99, l’anno del passaggio dell’Acea da municipalizzata a SpA, è toccato al Governo D’Alema sborsare 44 miliardi di lire per coprire il buco. Il versamento successivo all’Acea è stato fatto dal Governo Berlusconi nel 2005, per un totale di 25 milioni di euro. E non basta. Fino al 2005 lo Stato della Chiesa non aveva mai provveduto a dotarsi nemmeno di un impianto di depurazione, rovesciando apostolicamente i suoi sacri scarichi direttamente nel Tevere. Per questo motivo, contestualmente, Berlusconi ha provveduto a far costruire l’impianto necessario con ulteriore esborso di 4 milioni di euro italiani. Soldi che, naturalmente, la Città del Vaticano non ha mai restituito ed a cui, dal 2005 in poi, si sommano anche le spese annuali di depurazione, anch’esse spudoratamente lasciate alle finanze italiane.
E nonostante tutto questo sperpero di denaro nei confronti di un Paese straniero, i nostri governanti continuano a raccontarci che “la coperta è corta”, che lo Stato non sa dove trovare i soldi e che si trova costretto ad aumentare l’Iva.
(*) Articolo tratto da P. Ratto, Una Chiesa a tutti i costi, IN-CONTRO/STORIA, a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti. La vignetta è di Scalarini.
(1) Sugli investimenti quanto meno imbarazzanti che la Città del Vaticano effettuò negli anni a venire con parte di quella somma, si veda il suddetto studio di P. Ratto, nella specifica sezione dedicata a questo tema.
(2) Cfr. l’articolo di C. Lopapa comparso su Repubblica il 17 novembre 2009.
Otto per mille e altre apostoliche truffe ultima modifica: 2015-05-08T21:00:56+02:00 da