Pensare e ri-pensare la valutazione

Insegnare_logo1di Simonetta Fasoli, insegnare  17.2.2018

– Per ragionare in modo strategico e propositivo attorno alle questioni della valutazione, può essere ancora utile un riferimento alla Legge 517/77, che ha segnato una svolta pedagogica e culturale di grande rilievo, investendo  l’intero arco della Scuola di base. Valorizzando e portando a sistema le migliori pratiche, essa dava forma compiuta a un principio di fondo: il nesso funzionale tra programmazione educativo-didattica e valutazione.  Sembra proprio che questo principio si sia nel tempo affievolito, riducendo la valutazione ad una sommatoria di apprezzamenti quantitativi di singole e frammentate prestazioni.
Oggi possiamo declinarlo ulteriormente, passando per l’analisi delle forme di coerenza tra la predisposizione dei contesti educativi, la gestione della classe, più in generale degli ambienti di apprendimento, e la valutazione dei processi. Potremmo partire da qualche buona domanda, che ci aiuta a delimitare il campo di questa ricognizione. Quando e come è plausibile parlare di valutazione autentica? Cercando di farlo, intendo, al di fuori delle retoriche pedagogiche, recuperandone la carica generativa?

E’ un dato difficilmente contestabile il fatto che la valutazione tradizionale, parcellizzata ed essenzialmente poggiata su dati quantitativi, sia funzionale ad un modello trasmissivo della didattica. Esso si fonda su precisi presupposti, tanto più radicati quanto più impliciti e “ovvi”: c’è un soggetto che “sa” e che istituzionalmente ha il compito di travasare i contenuti del suo sapere; c’è un soggetto che “non sa” e che viene considerato il destinatario dell’operazione; è disponibile un “oggetto mediatore”, che si definisce per consolidata convenzione “disciplina” ed è il terreno principale della relazione tra i due soggetti. Relazione, dunque, strutturalmente asimmetrica.
Secondo questo schema, che è culturale prima ancora che operativo, il processo di apprendimento è tanto più riuscito quanto più risulta efficace la triangolazione. La valutazione si esercita sulla circolarità più o meno virtuosa degli elementi che la connotano. Posta in questi termini la dinamica, la questione cruciale del “senso” che sta dentro ai processi formativi è una volta per tutte risolta: basta attingere al repertorio dei significati che la tradizione culturale e la ricerca epistemologica hanno fatto sedimentare. Conoscere, dunque, è ri-conoscere e dar conto delle conoscenze acquisite consiste nel riprodurle così come sono date.

Senonché qualcosa, in questo meccanismo, si è inceppato… Le ragioni sono complesse e non è questa la sede per analizzarle, ma i risultati sono sotto i nostri occhi. I decisori politici possono ignorarli (o piegarli ad un disegno che investe l’idea stessa di società e cittadinanza, ad esempio per destrutturare il sistema pubblico dell’istruzione…); gli accademici possono farne un tema di ricerca. Ma sono gli insegnanti, e la scuola stessa come istituzione della Repubblica, che vivono ogni giorno quella che è anzitutto una crisi (e una domanda) di senso. Per questo gli insegnanti (e vogliamo credere che non siano pochi) che non vogliono cedere alla rassegnazione continuano a cercare strade per ritrovare il filo di un discorso sensato sul fare scuola, sull’essere insegnante dentro una scuola-bene comune. Partiamo da qui, dunque, da quel luogo educativoche chiamiamo “classe” e che rischia sempre di più di diventare uno dei non-luoghi di cui ha parlato Marc Augé, ridotto a un dato burocratico-amministrativo, a un serbatoio di “tagli” impietosi (più alunni per classe, meno classi, meno insegnanti, meno scuola…).

Si parla anche di “scuola e territorio”, di rapporti tra istituzioni, agenzie formative, soggetti. Proviamo a pensare alla classe come a un organismo vivente, al primo “territorio” con cui impattano la scuola e gli insegnanti: come ogni luogo, ha una sua storia pregressa e/o eventuale, suoi bisogni, risorse… E se vogliamo ripensare i modi di valutare, come a dire del fare scuola (per il nesso che abbiamo in apertura richiamato) vediamo se è possibile rompere lo schema di quella triangolazione fatta di “separati in casa”. Il panorama muta, si capovolge: i soggetti che istituzionalmente “sanno” e quelli che “non sanno” sono dentro uno stesso campo di ricerca, che prende le mosse da realtà problematizzate, da domande autentiche su fatti e fenomeni. Magari chi “sa” conosce i repertori di risposte che le culture (al plurale…) hanno sedimentato nel tempo. Ne conosce il valore e i limiti. Chi non “sa” (nel senso formale del termine) ha con sé i suoi “saperi”, non solo come saperi informali e non-formali, ma anche come pre-comprensioni, pre-giudizi, congetture. Lo schema è già saltato. La disciplina-oggetto mediatore non è più un corpo di conoscenze che si tratta di rendere disponibile e di-spiegato, ma un pretesto formativo, cioè quel repertorio di risposte con cui ci si confronta, per avverarle piuttosto che per confutarle.
Dal punto di vista dei dispositivi didattici, potremmo rivisitare e riformulare il concetto abusato e ambiguo del cosiddetto “compito reale”, che non è, si badi bene, banalmente un compito “concreto”, ma il percorso in cui i saperi informali, le precomprensioni e i pregiudizi, le congetture e le confutazioni trovano tempi spazi e strumenti per essere esplicitati e legittimati. Le discipline perdono in “assertività” per essere esperite quali propriamente sono: modi di organizzare/sistematizzare/dar conto di un punto di vista sulla realtà, cantieri aperti e interconnessi.  E’ sufficientemente chiaro, credo, che questo approccio che andiamo, seppure a grandi linee, prefigurando può avere legittima collocazione in tutti i gradi di scuola, con le dovute specificità e distinzioni: investe, infatti, la metodologia di gestione del processo di insegnamento/apprendimento, più che i suoi contenuti.

Il gruppo/classe può diventare, allora, quel laboratorio di una scuola possibile, di pratiche di cui c’è bisogno per ritrovare senso e motivazione sia nell’insegnare sia nell’apprendere. Corrispettivamente, l’atto stesso del valutare entra a far parte del processo stesso, e non come una decisione sanzionatoria che si pone fuori dal processo, ciò che del resto volevano gli estensori della 517. Da questo punto di vista, nella cosiddetta “regìa educativa” che sostanzia per più versi il lavoro del docente, conta l’utilizzo consapevole delle dissonanze cognitive in quanto leve efficaci della domanda da cui sempre muove un percorso di conoscenza: non “cosa è” ma “cosa è per me”; come interagisce con le mie precomprensioni, come mette in questione i miei pre-giudizi, come modifica il mio “sistema d’attesa”, confutandolo o confermandolo, come entra nella mia “enciclopedia”. Questo a livello dei singoli (ha senso in questo caso parlare di  personalizzazione…).
A livello della dinamica del gruppo, la mediazione didattica agisce valorizzando i conflitti cognitivi come modelli regolativi del confronto, anche in questo caso per arrivare ad una verità che non è dogmatica (domandiamoci quanto “pensiero unico” alligna e si riproduce nelle nostre scuole, in questo caso vero e proprio specchio dei tempi…) ma intersoggettiva. Non “cosa è in sé” ma “cosa è per noi”, che abbiamo condiviso un percorso, argomentato le nostre ragioni, chiesto e dato conto delle nostre opinioni, negoziato i significati.

E i contenuti? I cosiddetti “saperi dichiarativi e/o procedurali” come ci stanno, dentro questa impostazione? E’ evidente che non spariscono, non devono sparire. Se il nozionismo senza metacognizione è cieco, la metacognizione senza saperi è vuota. Si tratta di collocarli nella giusta prospettiva, di essere consapevoli che l’obiettivo della valutazione autentica non è accertare cosa si sa, ma cosa si sa fare con ciò che si sa. Parliamo di competenze, e dell’intreccio con le conoscenze e le abilità, anche per uscire da una contrapposizione schematica che, a ben vedere, rischia di ossificare il confronto e di non cogliere la portata delle questioni di cui ci stiamo occupando. E’ un nodo metodologico, questo, che non è affatto neutrale sul piano politico-culturale, sul quale deve tornare centrale la capacità di iniziativa e di proposta della scuola, delle e degli insegnanti che possono attivare, anche attraverso i propri percorsi formativi, vere e proprie comunità di pratiche.

Sembra che le scelte operate, sia a livello politico-culturale sia a livello amministrativo, in merito al sistema di valutazione non abbiano chiara la fondamentale distinzione tra “misurare” (la singola prestazione) e “valutare” (l’intero processo). La conseguenza più grave di questo improprio scambio, che non è solo semantico, è la funzione selettiva che la valutazione assume, poiché è evidente che, nel prevalere della sua dimensione sommativa (diagnostico-sanzionatoria) su quella formativa (proattiva-dinamica) penalizza le fasce di scolarità più fragili. E fa della scuola un meccanismo di riproduzione, non di emancipazione, sociale.

Penso sia più evidente, alla luce delle considerazioni sinteticamente esposte in questo contributo, quanto i temi della valutazione siano centrali nella più complessiva questione-scuola, con le istanze e le tante emergenze che la segnano. Le domande di fondo possono essere così formulate: la scuola deve formare o deve addestrare? L’apprendimento è un processo da avvalorare con strumenti qualitativo-descrittivi o una somma di prestazioni cognitivo-comportamentali da classificare con procedure di mera quantificazione? Per parte mia, vorrei che quella cultura della valutazione di cui noi tutti riconosciamo la necessità faccia propria come premessa questa affermazione di Irwing Thompson: “Ciò che veramente conta non può essere contato”.

A partire da questa consapevolezza, sarà possibile restituire alla valutazione la sua intatta valenza pedagogico-didattica, perché sia, come deve essere, momento professionale di costruzione cooperativa, di formazione, per chi insegna non meno che per chi apprende.

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Pensare e ri-pensare la valutazione ultima modifica: 2018-02-17T21:35:23+01:00 da
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