Perché il piano straordinario di assunzioni e di mobilità non funziona….

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di Maurizio Berni, dal Centro Studi della Gilda, 12.9.2016

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– Durante tutto il periodo precedente all’approvazione della legge 107 si era già notato come anche il piano straordinario di assunzioni, e quello di mobilità, che ne discende, facessero acqua da tutte le parti. E ora i nodi vengono al pettine.
Obiettivo del piano straordinario di assunzioni era quello di svuotare le graduatorie ad esaurimento.
Con maggiore sensibilità e rispetto si sarebbe potuto gestire il tutto in modo assai diverso. L’idea, indubbiamente positiva, di mettere in piedi una fase nazionale si è scontrata con la scelta politica (mascherata da scelta tecnica) caratterizzata da una rigidità fuori dal tempo, e forse inessenziale, dal momento che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione permettono grande flessibilità e soluzioni innovative.
Senza entrare nel merito della complicazione degli ambiti e delle chiamate dirette, che faranno perdere altro tempo prezioso all’inizio di questo anno scolastico…
Il primo errore, di metodo, è stato quello di ammettere alla fase nazionale del piano straordinario tutti coloro che erano iscritti nelle GaE, indipendentemente dall’anzianità di servizio e indipendentemente dal fatto che il servizio fosse stato maturato nella scuola statale o paritaria. E’ evidente che l’onere della stabilizzazione sussiste, da parte del datore di lavoro statale, solo per i soggetti che hanno prestato servizio per almeno 36 mesi esclusivamente nella scuola statale; nessun obbligo ha lo stato verso tutti gli altri, che possono permanere nelle GaE fino al raggiungimento di questo titolo di servizio.
Si potrebbe obiettare che vale il vincolo della posizione in graduatoria, ovvero non si possono stabilizzare docenti con punteggio minore di altri, solo in virtù di una maggiore anzianità di servizio. A stretto rigor di logica, il vincolo sarebbe tale solo per le assunzioni all’interno della provincia di validità della graduatoria, mentre si poteva riservare il diritto ad uscire dalla provincia solo a coloro che hanno diritto alla stabilizzazione, ovvero, lo ribadiamo, solo a coloro che hanno almeno 36 mesi di servizio nella scuola statale. Per ogni provincia richiesta, si sarebbero potuti ordinare tutti i candidati secondo il punteggio nelle rispettive graduatorie. Una manovra di questo genere avrebbe fatto ridurre il contenzioso, tuttora pendente, in misura maggiore di quanto non abbia fatto l’attuale piano di assunzioni, che ha imprudentemente lasciato fuori migliaia di docenti con più di tre anni di servizio, i quali hanno comunque diritto alla stabilizzazione (si pensi agli abilitati TFA e alle migliaia di ricorsi che hanno intrapreso).
Il secondo errore è stato quello di ammettere alla fase nazionale tutti gli idonei dei concorsi ordinari a cattedre; all’esito dei concorsi era stata stilata una graduatoria regionale, in conformità al bando, e null’altro era dovuto ai candidati; alcuni di essi non avevano peraltro alcuna esperienza di insegnamento. Addirittura, a differenza di coloro che sono iscritti alle GaE, alcuni degli idonei al concorso del 2012 erano perfino privi dell’abilitazione, in virtù di una norma transitoria del 1998 applicata con 14 anni di ritardo (D.I. n. 460/98)!
Ma l’errore più grosso, veramente marchiano, è stato quello di mettere la tagliola: se accetti di entrare nella fase nazionale, devi accettare il rischio di vederti attribuita una sede qualsiasi su tutto il territorio nazionale, e sei obbligato ad accettare entro 10 giorni, altrimenti non potrai avere altre possibilità di assunzione e verrai cancellato dalle graduatorie a esaurimento.
Una norma di dubbia legittimità, in quanto la presenza in una graduatoria provinciale prevede l’obbligo di accettare proposte di lavoro nella graduatoria stessa, non in altre… sarebbe stato più logico, ammesse (e non concesse) tutte le altre premesse, penalizzare chi non avesse accettato la proposta del piano nazionale estromettendolo da questo piano, ma lasciandolo nella sua posizione in graduatoria provinciale.
Infine, non sottovalutiamo quei casi in cui alcune persone ai primi posti delle graduatorie provinciali hanno scelto di non rischiare, accontentandosi di posticipare il ruolo di un anno o due, forti della posizione favorevole; in questo modo si è indotto un comportamento contrario al principio del merito, che è questione di giustizia nei confronti dei candidati, ma anche di precipuo interesse del sistema: assumere i migliori è interesse di tutti.
Si è parlato di “deportazione”, e sicuramente è una parola grossa; tuttavia c’è in questo ricatto una sottile forma di disprezzo per le persone, in questo caso dei docenti, la cui dignità viene calpestata in più parti da questa legge. C’è da chiedersi, seriamente, il perché di tanto accanimento.

La disponibilità a trasferirsi.
La disponibilità dei docenti a trasferirsi (in particolare dal sud al nord) è sotto gli occhi di tutti: ogni collegio docenti di una scuola del centro-nord ha solitamente una significativa percentuale di docenti del sud, e le GaE del centro-nord pullulano di docenti del sud. Ma allora dov’è il problema? E’ proprio nel meccanismo della legge.
Un conto è che una persona sappia di volersi trasferire; sappia di non poter aspirare ad un posto vicino casa, si predisponga a questa scelta e punti consapevolmente ad una certa diversa provincia, dove magari ha già qualche “aggancio”; programma la sua partenza, si organizza con amici o familiari, o in certi rari casi si muove in completa autonomia, e parte, con la prospettiva di tornare quanto prima, salvo trapiantarsi stabilmente laddove abbia maturato nuove relazioni che la convincano a restare. E’ evidente che la disponibilità a lasciare i propri affetti per trovare un lavoro è, più che una libera scelta, la risposta a un bisogno che la nostra Repubblica dichiara come diritto di ogni cittadino, e la libertà dal bisogno è uno dei diritti umani fondamentali. Quindi è già una concessione del cittadino all’istituzione statale, incapace di realizzare il dettato costituzionale, la disponibilità a spostarsi dal proprio domicilio, anche per centinaia di chilometri, determinando liberamente in quale luogo del territorio nazionale stabilire, in via provvisoria o definitiva, una nuova residenza.
Qui invece la legge propone una specie di disumano gioco d’azzardo: chi vuol partecipare alla “lotteria” deve indicare tutte le province (comma 100 della legge), e accettare il posto, in qualsiasi provincia venga individuato, entro 10 giorni. Non solo: con la vicenda degli ambiti, all’esito delle operazioni di mobilità, non c’è neanche un preavviso minimo del luogo in cui effettivamente si svolgerà la prestazione professionale.
Se una grande azienda privata con sedi in tutta Italia proponesse ai propri dipendenti precari, a riparazione di un abuso perpetrato per anni sui contratti a termine, la stabilizzazione presso una qualsiasi provincia in cui ci sono sedi dell’azienda, pena la rinuncia ai propri diritti di stabilizzazione, non esiteremmo a esprimere giudizi molto negativi nei confronti dei vertici di quest’azienda. Non solo, immaginiamo che quell’azienda, all’interno della provincia di destinazione, non abbia nemmeno stabilito il luogo di lavoro, ma un ambito territoriale, all’interno del quale, in pochi giorni quel dipendente (già, dipendente!) deve inviare il proprio curriculum ai dirigenti di tutte le sedi dell’azienda…. Credo che il giudizio estremamente negativo su quest’azienda sarebbe ulteriormente sottolineato. Ma qui l’azienda è lo stato, che ha potestà legislativa, circostanza che mette all’angolo ogni prerogativa sindacale, e i dipendenti vessati sono insegnanti, verso cui l’opinione pubblica non sembra avere la stessa sensibilità che riserva ad altre categorie.
Ciò che un eventuale monitoraggio degli esiti della legge non misurerà mai sono i costi sociali di queste scelte: la rottura traumatica dei legami familiari, lo stato psicologico degli insegnanti che hanno subito questo trattamento, l’instabilità emotiva, i prevedibili stati di malattia per disturbi depressivi, la ricerca di tutele nell’ordinamento (aspettative, con o senza assegni, per motivi familiari o personali), con tutto quello che ne consegue in termini di qualità del servizio scolastico e di credibilità dell’istituzione scuola, almeno di quella dello stato.

Che cosa si sarebbe potuto fare?
Nella tabella allegata sono elencate le azioni che si sarebbero potute mettere in atto, con le conseguenze di ogni azione.

Considerazioni finali.
Le criticità del piano straordinario di mobilità sono diretta conseguenza delle scelte inopportune della legge 107. La prima conseguenza dell’obbligo di indicare le 100 province nel piano di assunzione è stata l’obbligo, per la procedura di mobilità, di prendere in considerazione un complicatissimo modulo-richiesta con altrettante province, ed ambiti all’interno di esse, per l’assegnazione della sede definitiva. Non solo: molti docenti, messi sotto ricatto, hanno accettato di partecipare al piano straordinario, confidando di poter evitare la presa di servizio presso la sede lontana, assegnata in via provvisoria (la speranza è l’ultima a morire), ma senza essere psicologicamente convinti di dover davvero lasciare il proprio domicilio per trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza, senza sapere dove, con un minimo accettabile di preavviso. E forse, umanamente, a nessuno si può chiedere di essere psicologicamente preparato ad una prospettiva del genere in queste condizioni. Nei commenti sulla resistenza dei docenti ad accettare le regole di questo gioco, c’è una totale sottovalutazione della profonda iniquità di queste regole, che mostrano disprezzo e mancanza di rispetto per la dignità delle persone, umiliate per avere il “posto fisso”. In certi casi c’è anche un problema economico: gli stipendi iniziali degli insegnanti sono di pura sussistenza, e non sempre una famiglia può permettersi che un genitore con figli piccoli parta e se ne vada lontano, non si sa per quanti anni… peggio che nel servizio di leva dei tempi andati! Non può permetterselo prima di tutto in termini affettivi, accettando di sobbarcarsi di un costo sociale altissimo, ma non può permetterselo neanche in termini economici, in quanto il costo di una baby sitter potrebbe essere superiore al guadagno del docente-genitore, se si tolgono le spese di viaggio, vitto e alloggio lontano dal proprio domicilio.

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